"Hannah Arendt" di Margarethe von Trotta. Con Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet McTeer, Julia Jentsch, Ulrich Noetten, Michael Degen. Germania, Lussemburgo, Francia 2012 ★★★★★
Un film necessario, prima ancora che bellissimo e rigoroso, su una donna eccezionale, Hannah Arendt, faro di un pensiero attualissimo, profondo, acuminato, libero e umanista a tutto tondo, coniugato a un'azione coerente e determinata. A volerlo e girarlo Margarethe von Trotta, un'autentica garanzia, la quale ha affidato il personaggio principale a Barbara Sukowa, che per la regista (e già attrice) berlinese aveva anche interpretato in maniera sontuosa un altro gigante dell'intellettualità tedesca: Rosa Luxemburg nel film Rosa L. del 1986, e quelli dell'entourage della filosofa, scrittrice, storica (naturalizzata americana solo nel 1958 dopo 18 anni come apolide) a un cast altrettanto valido e all'altezza. Von Trotta ha scelto di prendere in esame un periodo cruciale per la Arendt, quello tra il 1961 e il 1964, che ha visto la gestazione del suo libro più famoso, "La banalità del male", tratto da cinque articoli scritti sul "New Yorker", che coraggiosamente aveva accettato la sua proposta di inviarla a Gerusalemme come osservatrice al processo contro Eichmann, il gerarca nazista rapito dal Mossad a Buenos Aires nel 1961 e poi condotto davanti a una corte in Israele. Coerente come sempre al suo pensiero spiazzò tutti: i suoi amici di New York, ebrei e no (ma non la sua sodale Mary McCarty e il marito Heinrich Bühler, interpretato in maniera magistrale da Axel Milberg, che aveva intuito a cosa l'amata moglie stesse andando incontro); quelli israeliani come il sionista della prima ora Kurt Blumenfeld; i colleghi dell'Università; per non parlare della comunità ebraica nel suo complesso, che la accusarono di arroganza intellettuale e insensibilità per aver considerato Eichmann nulla più che un burocrate insignificante, nella sua logica incosciente, rotellina di un ingranaggio disumanizzante, questo sì responsabile del male, e di aver indicato come condiscendenti col il nazismo i leader delle comunità ebraiche europee. Per Arendt è il sistema nel suo complesso, e quello totalitario in particolare, a togliere all'uomo ciò che lo distingue e lo rende tale: il pensiero. Senza di esso, rendendolo ininfluente e comunque sostituibile all'interno di un meccanismo micidiale e spersonalizzante, non c'è nemmeno responsabilità individuale. E' questo, un aspetto del pensiero di Hannah Arendt, che trova le sue basi in altre sue due opere fondamentali, ma "opportunamente" meno citate dal giornalismo luogocomunista, "Le origini del totalitarismo" e "Vita Activa. La condizione umana", su cui si preferisce glissare. Accusata di antisionismo, risponderà, lei ebrea e a suo tempo perseguitata e internata, di non amare gli ebrei in quanto tali, ma i suoi amici (alcuni dei quali la rinnegheranno), così come considerò la Shoah un crimine contro l'umanità, e non "contro gli ebrei". Il film racconta come Arendt elaborò queste sue convinzioni, che non nascevano soltanto dall'acuta osservazione del comportamento di Eichmann durante il processo, ma anche dalla sua stessa formazione, a cominciare dal suo rapporto, sia intellettuale sia sentimentale col suo maestro e mentore, Martin Heidegger, di cui fu allieva; e poi dalle discussioni col marito, ex spartachista, poeta e filosofo e pure sionista, per quanto non ebreo; con la McCarty, scrittrice spregiudicata e attivista di sinistra, con la fedele assistente Lotte Köhler, con il coetaneo e collega di studi e poi di insegnamento Hans Jonas, che finì per rompere i rapporti con lei. Andò controcorrente, sfidando il pensiero comune, senza tirarsi mai indietro: quando quasi tutto l'establishment le dava addosso, la capirono i suoi giovani studenti, quelli che qualche anno dopo sarebbero scesi in piazza contro la guerra in Vietnam e contro le discriminazioni razziali. La ricostruzione dell'ambiente è perfetta, preziosi gli inserti d'epoca del processo ad Eichmann, i dialoghi calzanti, e indovinata la scelta di Von Trotta di non far doppiare il film, che viene proposto nelle lingue originali, il tedesco (perfetto) e l'inglese colto (spesso con la dura pronuncia germanica, che lo rende però più comprensibile di quello americano), ovviamente sottotitolato. Non è un film facile, soprattutto se non si sa di cosa si sta parlando (e per come è messa la scuola italiana è raro avere una qualche dimestichezza con Heidegger, Jaspers e Arendt se non si ha studiato filosofia all'università): in compenso una figura carismatica come la Arendt emerge con tale potenza che invoglia ad approfondirne le tematiche, mentre per chi ha una discreta infarinatura in materia di storia della filosofia è imperdibile, oltre che appassionante.
Un film necessario, prima ancora che bellissimo e rigoroso, su una donna eccezionale, Hannah Arendt, faro di un pensiero attualissimo, profondo, acuminato, libero e umanista a tutto tondo, coniugato a un'azione coerente e determinata. A volerlo e girarlo Margarethe von Trotta, un'autentica garanzia, la quale ha affidato il personaggio principale a Barbara Sukowa, che per la regista (e già attrice) berlinese aveva anche interpretato in maniera sontuosa un altro gigante dell'intellettualità tedesca: Rosa Luxemburg nel film Rosa L. del 1986, e quelli dell'entourage della filosofa, scrittrice, storica (naturalizzata americana solo nel 1958 dopo 18 anni come apolide) a un cast altrettanto valido e all'altezza. Von Trotta ha scelto di prendere in esame un periodo cruciale per la Arendt, quello tra il 1961 e il 1964, che ha visto la gestazione del suo libro più famoso, "La banalità del male", tratto da cinque articoli scritti sul "New Yorker", che coraggiosamente aveva accettato la sua proposta di inviarla a Gerusalemme come osservatrice al processo contro Eichmann, il gerarca nazista rapito dal Mossad a Buenos Aires nel 1961 e poi condotto davanti a una corte in Israele. Coerente come sempre al suo pensiero spiazzò tutti: i suoi amici di New York, ebrei e no (ma non la sua sodale Mary McCarty e il marito Heinrich Bühler, interpretato in maniera magistrale da Axel Milberg, che aveva intuito a cosa l'amata moglie stesse andando incontro); quelli israeliani come il sionista della prima ora Kurt Blumenfeld; i colleghi dell'Università; per non parlare della comunità ebraica nel suo complesso, che la accusarono di arroganza intellettuale e insensibilità per aver considerato Eichmann nulla più che un burocrate insignificante, nella sua logica incosciente, rotellina di un ingranaggio disumanizzante, questo sì responsabile del male, e di aver indicato come condiscendenti col il nazismo i leader delle comunità ebraiche europee. Per Arendt è il sistema nel suo complesso, e quello totalitario in particolare, a togliere all'uomo ciò che lo distingue e lo rende tale: il pensiero. Senza di esso, rendendolo ininfluente e comunque sostituibile all'interno di un meccanismo micidiale e spersonalizzante, non c'è nemmeno responsabilità individuale. E' questo, un aspetto del pensiero di Hannah Arendt, che trova le sue basi in altre sue due opere fondamentali, ma "opportunamente" meno citate dal giornalismo luogocomunista, "Le origini del totalitarismo" e "Vita Activa. La condizione umana", su cui si preferisce glissare. Accusata di antisionismo, risponderà, lei ebrea e a suo tempo perseguitata e internata, di non amare gli ebrei in quanto tali, ma i suoi amici (alcuni dei quali la rinnegheranno), così come considerò la Shoah un crimine contro l'umanità, e non "contro gli ebrei". Il film racconta come Arendt elaborò queste sue convinzioni, che non nascevano soltanto dall'acuta osservazione del comportamento di Eichmann durante il processo, ma anche dalla sua stessa formazione, a cominciare dal suo rapporto, sia intellettuale sia sentimentale col suo maestro e mentore, Martin Heidegger, di cui fu allieva; e poi dalle discussioni col marito, ex spartachista, poeta e filosofo e pure sionista, per quanto non ebreo; con la McCarty, scrittrice spregiudicata e attivista di sinistra, con la fedele assistente Lotte Köhler, con il coetaneo e collega di studi e poi di insegnamento Hans Jonas, che finì per rompere i rapporti con lei. Andò controcorrente, sfidando il pensiero comune, senza tirarsi mai indietro: quando quasi tutto l'establishment le dava addosso, la capirono i suoi giovani studenti, quelli che qualche anno dopo sarebbero scesi in piazza contro la guerra in Vietnam e contro le discriminazioni razziali. La ricostruzione dell'ambiente è perfetta, preziosi gli inserti d'epoca del processo ad Eichmann, i dialoghi calzanti, e indovinata la scelta di Von Trotta di non far doppiare il film, che viene proposto nelle lingue originali, il tedesco (perfetto) e l'inglese colto (spesso con la dura pronuncia germanica, che lo rende però più comprensibile di quello americano), ovviamente sottotitolato. Non è un film facile, soprattutto se non si sa di cosa si sta parlando (e per come è messa la scuola italiana è raro avere una qualche dimestichezza con Heidegger, Jaspers e Arendt se non si ha studiato filosofia all'università): in compenso una figura carismatica come la Arendt emerge con tale potenza che invoglia ad approfondirne le tematiche, mentre per chi ha una discreta infarinatura in materia di storia della filosofia è imperdibile, oltre che appassionante.
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