"Sugar Man" (Searching for Sugar Man) di Malik Bendjelloul. Con Stephen Segerman, Dennis Coffey, Steve Rowland, Mike Theodore, Dan Dimaggio, Jerome Ferretti, Rick Emmerson, Ilse Assman, Clarence Avant, Craig Bartolomew Strydom, Willem Möller, Eva, Regan, Sandra e Sixto Rodriguez. Svezia, GB 2012 ★★★★★
Un film da non perdere, emozionante, commovente, intenso, educativo: non tanto per come è girato, ma per la storia che racconta, che ha dell'incredibile ma è vera. Quella di un talento misconosciuto, Sixto Rodriguez, uno schivo cantautore di discendenza messicana che nella Detroit dei primi anni Settanta incise due album (un terzo rimase incompiuto) che non ebbero alcun successo, benché a detta di chi li produsse e lo ebbe sotto contratto (niente meno che l'allora presidente della "Mortown", Clarence Avant, perfetto esempio di come non basta essere nero per non meritarsi l'appellativo di figlio di puttana) e, come si può verificare con le proprie orecchie, i suoi testi fossero perfino superiori e più incisivi di quelli di Bob Dylan o Neil Young oltre ad avere una voce molto più gradevole di entrambi (Springsteen a uno così al massimo può fargli da roadie) e si ritirò dalle scene continuando la sua vita da carpentiere, fino a oggi. Ignorando nel modo più assoluto di essere diventato un mito e uno dei musicisti più amati al di là dell'Atlantico, nel Sud Africa dell'apartheid, quello governato da Pieter Botha, idolo, per i suoi testi graffianti, dei giovani bianchi antirazzisti (l'onda del '68 era arrivata perfino nel Sudafrica militarizzato e pervaso dalla censura) dove, portato da un'americana che era andata a trovare il fidanzato, era più famoso dei Rolling Stones o dei Doors. Di lui non si sapeva nulla, e girava la voce che si fosse suicidato dandosi fuoco sul palco, fino a quando un appassionato di musica e un giornalista, anni dopo, si misero sulle sue tracce partendo dalle scarne note di copertina dei suoi due album editi. Il film costruisce questa ricerca fino a quando, con l'avvento di internet, una delle figlie di Rodriguez si mise in contatto con i due sudafricani facendo da tramite col padre, che appare, com'è oggi, nella parte finale del film, e che nel 1998 venne invitato a Città del Capo dove tenne i primi due concerti di una serie e che fecero il tutto esaurito. La vicenda fu raccontata sul numero 1000 di "Internazionale" circa due mesi fa e l'originale dell'articolo la trovate qui, in inglese. Sembra una favola, peraltro a lieto fine (oltre a essere un esempio di "sogno americano" all'inverso) ma quello che emerge e brilla di luce propria è Sixto Rodriguez, come artista vero e come uomo, intelligente, colto, di una coerenza e purezza adamantina, un personaggio indimenticabile che per un vero miracolo è stato riscoperto e di cui mi auguro vengano al più presto riediti i due capolavori incisi quarant'anni fa. Per una volta un Oscar meritato, come miglior documentario: un film da non perdere.
Un film da non perdere, emozionante, commovente, intenso, educativo: non tanto per come è girato, ma per la storia che racconta, che ha dell'incredibile ma è vera. Quella di un talento misconosciuto, Sixto Rodriguez, uno schivo cantautore di discendenza messicana che nella Detroit dei primi anni Settanta incise due album (un terzo rimase incompiuto) che non ebbero alcun successo, benché a detta di chi li produsse e lo ebbe sotto contratto (niente meno che l'allora presidente della "Mortown", Clarence Avant, perfetto esempio di come non basta essere nero per non meritarsi l'appellativo di figlio di puttana) e, come si può verificare con le proprie orecchie, i suoi testi fossero perfino superiori e più incisivi di quelli di Bob Dylan o Neil Young oltre ad avere una voce molto più gradevole di entrambi (Springsteen a uno così al massimo può fargli da roadie) e si ritirò dalle scene continuando la sua vita da carpentiere, fino a oggi. Ignorando nel modo più assoluto di essere diventato un mito e uno dei musicisti più amati al di là dell'Atlantico, nel Sud Africa dell'apartheid, quello governato da Pieter Botha, idolo, per i suoi testi graffianti, dei giovani bianchi antirazzisti (l'onda del '68 era arrivata perfino nel Sudafrica militarizzato e pervaso dalla censura) dove, portato da un'americana che era andata a trovare il fidanzato, era più famoso dei Rolling Stones o dei Doors. Di lui non si sapeva nulla, e girava la voce che si fosse suicidato dandosi fuoco sul palco, fino a quando un appassionato di musica e un giornalista, anni dopo, si misero sulle sue tracce partendo dalle scarne note di copertina dei suoi due album editi. Il film costruisce questa ricerca fino a quando, con l'avvento di internet, una delle figlie di Rodriguez si mise in contatto con i due sudafricani facendo da tramite col padre, che appare, com'è oggi, nella parte finale del film, e che nel 1998 venne invitato a Città del Capo dove tenne i primi due concerti di una serie e che fecero il tutto esaurito. La vicenda fu raccontata sul numero 1000 di "Internazionale" circa due mesi fa e l'originale dell'articolo la trovate qui, in inglese. Sembra una favola, peraltro a lieto fine (oltre a essere un esempio di "sogno americano" all'inverso) ma quello che emerge e brilla di luce propria è Sixto Rodriguez, come artista vero e come uomo, intelligente, colto, di una coerenza e purezza adamantina, un personaggio indimenticabile che per un vero miracolo è stato riscoperto e di cui mi auguro vengano al più presto riediti i due capolavori incisi quarant'anni fa. Per una volta un Oscar meritato, come miglior documentario: un film da non perdere.
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