"Opera senza autore" (Werk ohne Author) di Florian Henckel von Donnersmarck. Con Tom Schilling, Sebastian Koch, Paula Beer, Saskia Rosendahl, Oliver Masucci, Rainer Bock, Lars Eidinger e altri. Germania 2018 ★★½
E' imbarazzante dare un giudizio sul monumentale polpettone (oltre tre ore di durata) candidato dalla Germania agli Oscar come migliore film straniero: da un punto di vista cinematografico manca l'oggetto del contendere, perché non è un film; da quello televisivo raggiunge la sufficienza se lo si considera alla stregua di uno sceneggiato, di cui ha tempi, formato e cast e una sceneggiatura alquanto approssimativa. Siamo sul genere Berlin Alexanderplatz, Heimat, il recente Babylon Berlin; un film a cui va vicino è Le vite degli altri, ma non è alla sua altezza. Anche se il nome del protagonista è Kurt Barnert, la storia si ispira palesemente alla vita dell'artista tedesco Gerhard Richter, nato a Dresda nel 1932 in una famiglia della media borghesia, talentuoso fin da piccolo quando veniva educato alla sensibilità artistica e alla "bellezza del vero" dalla giovane zia Elisabeth, ricoverata con una diagnosi di schizofrenia in un ospedale psichiatrico per le sue "stranezze" e sterilizzata prima, e avviata alla soppressione poi dall'eminente ginecologo Karl Seeband, teorico dell'eugenetica nazista, lo stesso che ritroverà come padre della dolce e amata Elli prima a Dresda, dove è stato riabilitato ed è divenuto un personaggio eminente nella nuova Repubblica Popolare grazie alla copertura da parte di un maggiore del KGB del cui primogenito aveva consentito la sopravvivenza dopo un parto difficile; poi di nuovo nei primi anni Sessanta a Düsseldorf, dove Seebald era riparato dopo che il suo protettore era stato richiamato a Mosca. Il racconto segue un ordine strettamente cronologico: l'infanzia di Kurt, il trasferimento della famiglia in un paesino fuori Dresda; il tragico bombardamento che la rase al suolo all'inizio del 1945; il "gasamento" di Elisabeth; il primo dopoguerra; gli studi alla scuola d'arte; questa volta ispirata al realismo socialista, dove qualsiasi deviazione veniva considerata un'espressione tipica dell'individualismo borghese, altrettanto vituperata quanto l'arte degenerata da parte dei nazisti; la decisione, quando già aveva acquisito una sicura fama, di trasferirsi a Ovest nel 1961, pochi mesi prima che venisse eretto il Muro; la scelta di iscriversi all'Accademia delle belle arti di Düsseldorf, la meno convenzionale tra quelle esistenti nella BRD, diretta ai tempi da Joseph Beuys (forse la figura riuscita meglio), che nel film viene chiamato Van Verten (Oliver Masucci). Lì, dopo alcuni tentativi di adeguarsi allo spirito dell'epoca, tra Pop Art, Concettuale e Body Art, torna, in maniera originale, all'amata pittura, da cui era partito, ispirandosi a foto di vecchi album e perfino a fototessere. Anche se qui e là non rinuncia a qualche massima e a un accenno grossolano alle contese in campo artistico, il film ci risparmia il pippone ideologico e si accontenta di rimanere nel campo del feuilleton, a parte l'inevitabile riflessione sull'acquiescenza al nazismo e al conformismo di segno opposto nella DDR, e la rappresentazione della figura dell'epigono di Mengele nel suo adeguarsi alle situazioni senza cambiare di una virgola; in definitiva si fa guardare e, come spettacolo, ha un suo perché e incredibilmente non risulta noioso, benché certi passaggi siano incongrui, le ricostruzioni degli esterni ridicole (quanto invece accurate quelle degli interni) e la storia molto romanzata. Ma si va al cinema anche per rilassarsi e divertirsi: e così alla fine il giudizio non può essere del tutto negativo.
E' imbarazzante dare un giudizio sul monumentale polpettone (oltre tre ore di durata) candidato dalla Germania agli Oscar come migliore film straniero: da un punto di vista cinematografico manca l'oggetto del contendere, perché non è un film; da quello televisivo raggiunge la sufficienza se lo si considera alla stregua di uno sceneggiato, di cui ha tempi, formato e cast e una sceneggiatura alquanto approssimativa. Siamo sul genere Berlin Alexanderplatz, Heimat, il recente Babylon Berlin; un film a cui va vicino è Le vite degli altri, ma non è alla sua altezza. Anche se il nome del protagonista è Kurt Barnert, la storia si ispira palesemente alla vita dell'artista tedesco Gerhard Richter, nato a Dresda nel 1932 in una famiglia della media borghesia, talentuoso fin da piccolo quando veniva educato alla sensibilità artistica e alla "bellezza del vero" dalla giovane zia Elisabeth, ricoverata con una diagnosi di schizofrenia in un ospedale psichiatrico per le sue "stranezze" e sterilizzata prima, e avviata alla soppressione poi dall'eminente ginecologo Karl Seeband, teorico dell'eugenetica nazista, lo stesso che ritroverà come padre della dolce e amata Elli prima a Dresda, dove è stato riabilitato ed è divenuto un personaggio eminente nella nuova Repubblica Popolare grazie alla copertura da parte di un maggiore del KGB del cui primogenito aveva consentito la sopravvivenza dopo un parto difficile; poi di nuovo nei primi anni Sessanta a Düsseldorf, dove Seebald era riparato dopo che il suo protettore era stato richiamato a Mosca. Il racconto segue un ordine strettamente cronologico: l'infanzia di Kurt, il trasferimento della famiglia in un paesino fuori Dresda; il tragico bombardamento che la rase al suolo all'inizio del 1945; il "gasamento" di Elisabeth; il primo dopoguerra; gli studi alla scuola d'arte; questa volta ispirata al realismo socialista, dove qualsiasi deviazione veniva considerata un'espressione tipica dell'individualismo borghese, altrettanto vituperata quanto l'arte degenerata da parte dei nazisti; la decisione, quando già aveva acquisito una sicura fama, di trasferirsi a Ovest nel 1961, pochi mesi prima che venisse eretto il Muro; la scelta di iscriversi all'Accademia delle belle arti di Düsseldorf, la meno convenzionale tra quelle esistenti nella BRD, diretta ai tempi da Joseph Beuys (forse la figura riuscita meglio), che nel film viene chiamato Van Verten (Oliver Masucci). Lì, dopo alcuni tentativi di adeguarsi allo spirito dell'epoca, tra Pop Art, Concettuale e Body Art, torna, in maniera originale, all'amata pittura, da cui era partito, ispirandosi a foto di vecchi album e perfino a fototessere. Anche se qui e là non rinuncia a qualche massima e a un accenno grossolano alle contese in campo artistico, il film ci risparmia il pippone ideologico e si accontenta di rimanere nel campo del feuilleton, a parte l'inevitabile riflessione sull'acquiescenza al nazismo e al conformismo di segno opposto nella DDR, e la rappresentazione della figura dell'epigono di Mengele nel suo adeguarsi alle situazioni senza cambiare di una virgola; in definitiva si fa guardare e, come spettacolo, ha un suo perché e incredibilmente non risulta noioso, benché certi passaggi siano incongrui, le ricostruzioni degli esterni ridicole (quanto invece accurate quelle degli interni) e la storia molto romanzata. Ma si va al cinema anche per rilassarsi e divertirsi: e così alla fine il giudizio non può essere del tutto negativo.
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