"Le nostre battaglie" (Nos batailles) di Guillaume Senez. Con Romain Duris, Laure Calamy, Laetitia Dosch, Lucie Debay, Basile Grunberger, Lena Girard Voss, Dominique Valadié, Sarah Lepicard e altri. Belgio, Francia 2018 ★★+
Trattare il mondo del lavoro, la crescente alienazione e le sue ripercussioni a livello privato è sempre benemerito e sembra la cifra tipica del cinema belga, impersonato dai fratelli Dardenne e, in questo caso, da Guillaume Senez, giunto al suo secondo lungometraggio. Non mancano i consueti ingredienti: grigie periferie, in questo caso dell'Alvernia, in Francia; un certo inceppamento dei rapporti personali e nella comunicazione tra le persone che portano alla mancata percezione dei segnali di cedimento da parte di uno dei protagonisti e al conseguente sviluppo dei sensi di colpa di quello che non li avverte e alla loro espiazione. Il consueto schema si ripete, discretamente ripetitivo, trattando la vicenda di Olivier, un credibile Romain Duris, giovane operaio sindacalizzato, capo squadra in una grossa azienda di immagazzinamento e distribuzione tipo Amazon, che si sente responsabile per non avere comunicato di persona all'interessato l'intenzione dei responsabili delle risorse umane di liberarsi di un ultracinquantenne in esubero che finisce per suicidarsi, e al contempo non si avvede, nella sua dimensione casalinga, della depressione che sta colpendo la moglie al punto da indurla a fuggire e mollare la famiglia e sparire, di punto in bianco e senza lasciare traccia, spiegazioni né indirizzo, addossandogli l'incombenza, che non era più in grado di sostenere, di occuparsi dei due figli in età scolare e di asilo e delle faccende di casa. Il film racconta della sua difficile presa d'atto della situazione, e del modo in cui cerca, anche con l'aiuto della madre e grazie alla provvidenziale visita di una sorella estrosa e capace di fargli capire il possibile, diverso punto di vista femminile (interpretata da Laetita Dosch, anche un po' troppo sopra le righe con la caratterizzazione) di conciliare la sua vita privata con quella lavorativa e l'attività sindacale, che alla fine decide di abbracciare a tempo pieno accettando di trasferirsi, su incarico dell'organizzazione, a Tolosa, una volta accettato l'abbandono della moglie come espressione di un disagio profondo e della necessità di "ritrovarsi": una sorta di "pausa di riflessione" non concordata, insomma, che lascia aperta la porta a un ritorno. In che termini e con quali prospettive di riuscire a conciliare vita lavorativa, attività sindacale per di più a tempo pieno e relazioni famigliari non è dato sapere, e Senez non ce lo suggerisce. Il tutto, detto francamente, con quel più di lentezza e di dialoghi che più vogliono parere autentici e più risultano artificiosi, tipici del cinema francese. Quindi non disprezzabile, ma non ci siamo. E palloso anziché no, ma non è nemmeno giusto infierire.
Trattare il mondo del lavoro, la crescente alienazione e le sue ripercussioni a livello privato è sempre benemerito e sembra la cifra tipica del cinema belga, impersonato dai fratelli Dardenne e, in questo caso, da Guillaume Senez, giunto al suo secondo lungometraggio. Non mancano i consueti ingredienti: grigie periferie, in questo caso dell'Alvernia, in Francia; un certo inceppamento dei rapporti personali e nella comunicazione tra le persone che portano alla mancata percezione dei segnali di cedimento da parte di uno dei protagonisti e al conseguente sviluppo dei sensi di colpa di quello che non li avverte e alla loro espiazione. Il consueto schema si ripete, discretamente ripetitivo, trattando la vicenda di Olivier, un credibile Romain Duris, giovane operaio sindacalizzato, capo squadra in una grossa azienda di immagazzinamento e distribuzione tipo Amazon, che si sente responsabile per non avere comunicato di persona all'interessato l'intenzione dei responsabili delle risorse umane di liberarsi di un ultracinquantenne in esubero che finisce per suicidarsi, e al contempo non si avvede, nella sua dimensione casalinga, della depressione che sta colpendo la moglie al punto da indurla a fuggire e mollare la famiglia e sparire, di punto in bianco e senza lasciare traccia, spiegazioni né indirizzo, addossandogli l'incombenza, che non era più in grado di sostenere, di occuparsi dei due figli in età scolare e di asilo e delle faccende di casa. Il film racconta della sua difficile presa d'atto della situazione, e del modo in cui cerca, anche con l'aiuto della madre e grazie alla provvidenziale visita di una sorella estrosa e capace di fargli capire il possibile, diverso punto di vista femminile (interpretata da Laetita Dosch, anche un po' troppo sopra le righe con la caratterizzazione) di conciliare la sua vita privata con quella lavorativa e l'attività sindacale, che alla fine decide di abbracciare a tempo pieno accettando di trasferirsi, su incarico dell'organizzazione, a Tolosa, una volta accettato l'abbandono della moglie come espressione di un disagio profondo e della necessità di "ritrovarsi": una sorta di "pausa di riflessione" non concordata, insomma, che lascia aperta la porta a un ritorno. In che termini e con quali prospettive di riuscire a conciliare vita lavorativa, attività sindacale per di più a tempo pieno e relazioni famigliari non è dato sapere, e Senez non ce lo suggerisce. Il tutto, detto francamente, con quel più di lentezza e di dialoghi che più vogliono parere autentici e più risultano artificiosi, tipici del cinema francese. Quindi non disprezzabile, ma non ci siamo. E palloso anziché no, ma non è nemmeno giusto infierire.
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