martedì 19 febbraio 2019

La paranza dei bambini

"La paranza dei bambini" di Claudio Giovannesi. Con Francesco Di Napoli, Artem Tkachuk, Alfredo Turitto, Viviana Aprea, Valentina Vannino, Pasquale Marotta, Luca Nacarlo, Carmine Pizzo, Ciro Pellecchia, Aniello Arena, Renato Carpentieri e altri. Italia, Francia 2019 ★★-
Prima di esprimere un giudizio su questo film appena premiato alla Berlinale per la migliore sceneggiatura (? Chissà com'erano le altre...) ho lasciato trascorrere alcuni giorni per far sedimentare l'immediata reazione di irritazione; ma la prima impressione, tra sconcerto e disappunto, è rimasta inalterata, pur trattandosi di una pellicola a suo modo ben congegnata e ben girata, per quanto ormai rientrante in un vero e proprio genere a sé stante, quello di Gomorra e delle serie televisive che ne sono derivate, al contempo confermando tutte le riserve e perplessità che mi suscita Roberto Saviano, autore del romanzo omonimo da cui è tratto nonché, in questa occasione, della sceneggiatura; un personaggio che più passa il tempo e meno mi piace, ambiguo esattamente come mi è risultato La paranza dei bambini portato sul grande schermo. Che, a mio parere, si riduce a essere, né più né meno, che una versione aggiornata de I ragazzi della Via Pál in salsa partenopea, con la differenza che i giovani protagonisti, per carità, tutti interpretati in maniera assai efficace da ragazzi non professionisti scelti tra abitanti del Rione Sanità i quali, apprendisti guappi fin dalla più tenera età e che non vedono l'ora di entrare nel grande giro del Sistema camorristico, non si limitano a entrare in guerra coi coetanei quartierini (quelli dei Quartieri Spagnoli), ma anche con i capibastone foresti che hanno usurpato quelli locali, la famiglia Striano, cui Nicola, il quindicenne a capo della "paranza" di sei ragazzini, figlio della titolare di una tintoria che deve pagare il pizzo, è rimasto fedele. Ché erano camorristi "buoni", gli Striano, che non vessavano gli ambulanti e negozianti del rione: si limitavano a spacciare droga a quintali. E non solo: per comprare scarpe e vestiti alla moda e l'ultimo modello di smartphone, con cui passano il tempo a farsi selfie con la lingue di fuori o che usano per postare video sulle loro gesta, le loro frequentazioni altolocate o sulle armi che maneggiano, nonché procurarsi un tavolo o meglio un privé nella discoteca alla moda, ci vogliono un sacco di soldi (e ovviamente nessun genitore a chiedersi da dove cazzo ne arrivino a paccate, così come a dare per scontato che la propria prole non frequenti le scuole nemmeno per caso o si tatui più, e soprattutto peggio, di un maori o le ragazze si agghindino da zoccole) e così comincia l'apprendistato: dal piccolo spaccio davanti alle scuole, al taglieggiamento, alla riscossione del pizzo, alle minacce, all'omicidio: Nicola, che per altri aspetti è tenero dolce con la fidanzatina e protettivo sia col fratello minore sia con la madre semideficiente, ci arriva travestendosi da donna e accoppando uno dei capi dello spaccio che aveva cacciato di casa lui e la sua paranza. Tutta un'escalation che porta la banda al cospetto del Grande Capo (interpretato da Renato Carpintieri), agli arresti domiciliari e proporgli da pari a pari di ripulire la "piazza" dagli intrusi, e questi non si fa problema ad armarli di tutto punto con l'artiglieria leggera e pure pesante. L'unico aspetto interessante del film è la commistione tra innocenza e ferocia, la naturalezza e la scontatezza, se si vuole tipica dell'adolescenza, con cui si passa da uno stato d'animo all'altro, senza rendersi ben conto delle conseguenze delle proprie azioni; ma quello che sembra predominare su tutto, oltre al fatto di "non voler giudicare", è un'estetica, per l'appunto, da tatuati, selfisti, puttanoni, depilati, palestrati, cocainomani, tamarri, in una vicenda che sa di sceneggiata napoletana 2.0, dove da una parte si racconta di una realtà orripilante che sembra ormai irrecuperabile, dall'altra la si infarcisce con una romantica storia d'amore tra adolescenti, quella tra Nicola e Letizia. E allora uno si domanda quale sia il senso dell'operazione e quale lo scopo, visto e considerato il ruolo di testimonianza, denuncia e, quindi, del tutto politico che si è assunto Roberto Saviano, ragion per cui diventa giocoforza politico anche il giudizio sul prodotto cinematografico, che non può limitarsi a essere estetico o meramente tecnico. Le palle mi sono definitivamente cadute quando gli ho sentito augurarsi che i coetanei dei protagonisti vadano a vederlo, e invitare gli insegnanti a portarli al cinema a farlo: se tutto il mondo è Paese, ovvero Napoli, come ha affermato su SKY, mi chiedo quale messaggio possano recepire i quindici-sedicenni "fratelli" di questi qua da un film dove bande di coetanei pieni di soldi scorrazzano in sciami su motorini (targati) per cui non hanno nemmeno la patente senza mai un casco in testa, cosa che non è del tutto abituale nemmeno a Napoli, almeno sul lungomare, gli adulti poco più che macchiette, e dove le due volte che si vede qualcuno in divisa si tratta di una coppia di metronotte cui due della paranza sottraggono la pistola e dell'intrusione di un gruppo di agenti della mobile durante la festa di matrimonio di camorra per arrestare alcuni esponenti del clan e che vengono ingiuriati da tutti i presenti: mi piacerebbe sapere cosa ne pensano gli agenti di scorta a Saviano. E i napoletani che non si ritrovano in una rappresentazione così univoca e di maniera della città: non stupisce che in un festival tedesco, quando già anni fa in Germania l'Italia era stata messa in copertina con una P38  su una pizza, e dove l'immagine del Paese non esce dalla triade spaghetti-mafia-mandolino, un film del genere abbia avuto successo e sia stato premiato.

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