"La parola padre". Drammaturgia e regia di Gabriele Vacis, con Irina Andreeva (Bulgaria) Alessandra Crocco (Italia), Alexandra Gronowska (Polonia), Anna Chiara Ingrosso (Italia), Maria Rosaria Ponzetta (Italia), Simona Spirovska (Macedonia). Scene e luci di Roberto Tarasco; coordinamento artistico Salvatore Tramacere; assistente alla regia Carlo Durante; training Barbara Bonrtiposi; tecnici Mario Daniele, Alessandro Cardinale. Produzione Cantieri Teatrali Koreja, Teatro Stabile del Salento (Lecce)
Al Teatro San Giorgio di Udine, per CSS Teatro Contatto; stasera al Teatro Al Parco di Parma, martedì 7 febbraio al Teatro Monticello di Grottaglie (Taranto)
Nell'interessante incontro con la compagnia alla fine dello spettacolo, dal pubblco è stato chiesto alle attrici se il lavoro fatto assieme a Gabriele Vacis (attraverso un laboratorio durato alcuni mesi nell'internato dei Cantieri Teatrali Koereja di Lecce ancora cinque anni fa) e la sua rappresentazione avesse il valore di una seduta psicanalitica, e la riposta è stata che non è esattamente così, anche se gli spunti sono nati dalle storie personali emerse durante i colloqui/interviste effettuati con l'autore e regista, che fa parte del loro mestiere filtrare attraverso sé stessi il materiale su cui stanno operando, e che assume a ogni rappresentazione forme e modalità diverse, proprio perché non siamo sempre uguali e sulla stessa onda in ogni momento; più in generale a mio parere è il teatro in sé stesso, per sua natura, come sapevano già gli antichi greci, a essere terapeutico e catartico per lo spettatore che vi viene coinvolto, sempre che questa magia avvenga. Ed è il caso di questo meritevole, intenso e variegato spettacolo, recitato, raccontato, ballato, cantato da un gruppo di sei giovani donne, tre italiane e tre provenienti da Paesi dell'Europa Orientale usciti dall'esperimento del socialismo reale, in cui viene sviscerato il loro rapporto con la figura di riferimento maschile nella sua duplice accezione: quella strettamente parentale e quella più vasta di patria, che etimologicamente ha la stessa radice, di appartenenza. Mentre nel primo caso il fatto di essere figlie costituisce il terreno comune per cui simile risulta il linguaggio, per quanto possano essere diverse le esperienze personali, nel secondo il legame, già conflittuale e complesso per definizione, si intreccia con le vicende storiche del "comunismo realizzato" per come lo hanno nella memoria le tre donne provenienti dall'Est. Tre Est a loro volta diversi, con tratti comuni quello polacco e quello bulgaro, caratterizzati da miseria e oppressione (e da una diversa adesione all'ideale), e peculiari quello macedone, filtrato attraverso l'esperienza della Jugoslavia, dove tutte le nazionalità erano uguali sotto l'ala protettiva del comune padre Tito, mentre la nuova, piccola Macedonia pretende di modellarsi sull'immagine mitizzata del suo padre putativo, Alessandro Magno, rivendicandone l'esclusiva appartenenza, col risultato di litigare con tutti i "concorrenti", greci albanesi per primi, che pure sono un terzo di una popolazione di soli due milioni di abitanti, per non parlar dei serbi. In questa Europa, con muri che si abbattono e si ricostruiscono, simbolizzati da una onnipresente parete formata da bidoni d'acqua di volta in volta distrutta e ricomposta dalle protagoniste, non rimane che piangere a queste sei donne che si raccontano comunicando per mezzo di quella specie di esperanto che è diventato il panglish, l'inglese basico adattato alla comunicazione transnazionale, dopo essersi incontrate in un aeroporto, simbolo per eccellenza, assieme ai centri commerciali, dei "non luoghi" diventati il centro nevralgico del sistema e punti di contatto tra le monadi impazzite e senza punti di riferimento che lo fanno funzionare. Bravissime le interpreti, senza fronzoli la regia, di buon impatto l'impianto scenico, ritmo incalzante e tanto materiale su cui riflettere. A cominciare dalla domanda sul rapporto che con il concetto di patria hanno i figli maschi.
Al Teatro San Giorgio di Udine, per CSS Teatro Contatto; stasera al Teatro Al Parco di Parma, martedì 7 febbraio al Teatro Monticello di Grottaglie (Taranto)
Nell'interessante incontro con la compagnia alla fine dello spettacolo, dal pubblco è stato chiesto alle attrici se il lavoro fatto assieme a Gabriele Vacis (attraverso un laboratorio durato alcuni mesi nell'internato dei Cantieri Teatrali Koereja di Lecce ancora cinque anni fa) e la sua rappresentazione avesse il valore di una seduta psicanalitica, e la riposta è stata che non è esattamente così, anche se gli spunti sono nati dalle storie personali emerse durante i colloqui/interviste effettuati con l'autore e regista, che fa parte del loro mestiere filtrare attraverso sé stessi il materiale su cui stanno operando, e che assume a ogni rappresentazione forme e modalità diverse, proprio perché non siamo sempre uguali e sulla stessa onda in ogni momento; più in generale a mio parere è il teatro in sé stesso, per sua natura, come sapevano già gli antichi greci, a essere terapeutico e catartico per lo spettatore che vi viene coinvolto, sempre che questa magia avvenga. Ed è il caso di questo meritevole, intenso e variegato spettacolo, recitato, raccontato, ballato, cantato da un gruppo di sei giovani donne, tre italiane e tre provenienti da Paesi dell'Europa Orientale usciti dall'esperimento del socialismo reale, in cui viene sviscerato il loro rapporto con la figura di riferimento maschile nella sua duplice accezione: quella strettamente parentale e quella più vasta di patria, che etimologicamente ha la stessa radice, di appartenenza. Mentre nel primo caso il fatto di essere figlie costituisce il terreno comune per cui simile risulta il linguaggio, per quanto possano essere diverse le esperienze personali, nel secondo il legame, già conflittuale e complesso per definizione, si intreccia con le vicende storiche del "comunismo realizzato" per come lo hanno nella memoria le tre donne provenienti dall'Est. Tre Est a loro volta diversi, con tratti comuni quello polacco e quello bulgaro, caratterizzati da miseria e oppressione (e da una diversa adesione all'ideale), e peculiari quello macedone, filtrato attraverso l'esperienza della Jugoslavia, dove tutte le nazionalità erano uguali sotto l'ala protettiva del comune padre Tito, mentre la nuova, piccola Macedonia pretende di modellarsi sull'immagine mitizzata del suo padre putativo, Alessandro Magno, rivendicandone l'esclusiva appartenenza, col risultato di litigare con tutti i "concorrenti", greci albanesi per primi, che pure sono un terzo di una popolazione di soli due milioni di abitanti, per non parlar dei serbi. In questa Europa, con muri che si abbattono e si ricostruiscono, simbolizzati da una onnipresente parete formata da bidoni d'acqua di volta in volta distrutta e ricomposta dalle protagoniste, non rimane che piangere a queste sei donne che si raccontano comunicando per mezzo di quella specie di esperanto che è diventato il panglish, l'inglese basico adattato alla comunicazione transnazionale, dopo essersi incontrate in un aeroporto, simbolo per eccellenza, assieme ai centri commerciali, dei "non luoghi" diventati il centro nevralgico del sistema e punti di contatto tra le monadi impazzite e senza punti di riferimento che lo fanno funzionare. Bravissime le interpreti, senza fronzoli la regia, di buon impatto l'impianto scenico, ritmo incalzante e tanto materiale su cui riflettere. A cominciare dalla domanda sul rapporto che con il concetto di patria hanno i figli maschi.
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