domenica 15 maggio 2016

Riobambito



Prima o poi doveva succedere. O forse no, se fossi stato più accorto: quando, arrivato al terminal dei bus di Riobamba, tappa intermedia in direzione Cuenca, lungo le Ande, ho preso lo zainetto riposto obbedientemente nello scomparto sopra il sedile, l'ho sentito fare poca resistenza, in confronto ala fatica fatta per farcelo stare. Non lo si può tenere sulle ginocchia o sotto il sedile di sicurezza, mi era stato detto da un (apparente) addetto della compagnia. Soprattutto era più leggero: mancava il mio prezioso e fedele portatile, il suo alimentatore e il caricabatterie del cellulare (che invece era ancora là: è un vecchio modello piuttosto scamuffo ma affidabile che evidentemente schifano perfino da queste parti). Con ogni probabilità la gabola si è perfezionata e consumata interamente ancora alla piattaforma da cui doveva partire il mezzo dal moderno Terminal Quitumbo di Quito, attorno a mezzogiorno di venerdì quando il tipo, educato, serio, non indigeno, ci tengo a dirlo, ma meticcio molto chiaro, che accoglieva i (pochi) passeggeri chiedendo il biglietto, a fianco dell'addetto ai bagagli nonché bigliettaio ufficiale e secondo autista (e probabile complice, ma non posso provarlo), mi ha pilotato a un sedile diverso da quello indicato dal biglietto (per di più si fatica a leggere il numero), probabilmente in un punto cieco per le telecamere di controllo che pure sono a bordo e producendosi nella commedia di cui sopra: pirla io a esserci cascato, abile il furfante e una faccia di merda il suo plausibile connivente che, al mio immediato reclamo una volta accortomi del furto, come prima cosa ha tenuto a precisare essere responsabile unicamente del bagaglio stivato, e alle mie rimostranze sul tipo che alla partenza aveva asserito esistere l'obbligo di mettere il bagaglio a mano nello scomparto superiore e poi mai più visto, mi ha ribattuto chiedendomi se avesse un cartellino di riconoscimento... Morta lì, è andata: ho contattato i funzionari della compagnia; potrebbe anche darsi che sporga denuncia di furto (si fa via internet, poi la si porta a vidimare al commissariato: sono avanti, qui!), ma mi lascia perplessa la palese inutilità insieme alla sicura perdita di tempo nonché di pazienza avendo a che fare con la sbirraglia, e con una sudamericana in particolare: il rischio di andare fuori dai gangheri è forte e potrebbe rivelarsi assai controproducente.



La sgradevole vicenda, specie per quanto riguarda il mio contributo in dabbenaggine, non mi porterà però a detestare gli ecuadoriani in generale né ad avere un ricordo negativo di Riobamba, una città che non si può certo definire bellissima ma che ha rivestito un ruolo importante nel Paese in passato e continua ad averlo, possiede alcuni tesori e, soprattutto, si trova ai piedi del Cimborazo, il vulcano che coi suoi 6310 metri è la più alta vetta delle Ande Ecuadoriane ma possiede anche, considerato il rigonfiamento del globo all'Equatore, la cima più lontana dal centro della Terra e quindi, da questa prospettiva, la montagna più alta del pianeta. Il nome della città è composto da rio, parola spagnola che significa fiume, e bamba che in quechua vuol dire valle, e indica chiaramente la sua collocazione ai piedi del maestoso Cimborazo nonché la mescolanza di etnie, lingue e culture che la caratterizza. 



La zona, abitata in origine dagli indigeni peruhá (la loro presenza incrementa notevolmente al sabato, quando vengono a "fare mercato" nelle vie attorno a quelli municipali coperti, assai simili ai nostri per struttura ma ben più coloriti) e per un breve periodo dagli inca, mentre Riobamba fu la prima città spagnola fondata in Ecuador col nome originario Santiago de Quito il 15 agosto 1534 da Diego de Almagro, cambiato poco dopo, sul sito dell'attuale Cajabamba, una ventina di chilometri a Sud della posizione attuale, dove la popolazione fu trasferita dopo un devastane terremoto avvenuto nel 1797. Non rimane pressoché nulla, dunque, degli edifici barocchi che rendono così preziosa la capitale, ma fortunatamente ne rimangono testimonianze nelle 14 sale del Museo de Arte Religioso, ospitato nel cinquecentesco convento delle Conceptas, che possiede una delle più ricche collezioni di arte sacra del XVIi e XVII secolo presenti in Ecuador. Mi piace prendere in castagna la Lonely Planet, la quale afferma che il pezzo più prezioso sia "un ostensorio di inestimabile valore, alto un metro e mezzo, con incastonate più di 1500 pietre preziose. Realizzato in oro massiccio su base d'argento, pesa oltre 360 kg (e dunque risulta piuttosto difficile da rubare)". Infatti fu trafugato nel 2007 e ne rimane l'immagine fotografica su un pannello da cui pendono,  a mo' di orecchini, due piccoli crocifissi con rubini, recuperati nel 2008 a Bogotá, in Colombia. 



Sempre a Riobamba, venne scritta una volta per tutte la parola fine dell'opprimente dominio spagnolo con la firma della prima Costituzione ecuadoriana nel 1830. Oltre a questo museo, vi è quello della città, che si affaccia sulla Piazza principale, chiamata Parque Maldonado, ma davvero imperdibili sono i due mercati alimentari de la Concepción, che ha un'estensione tessile, con tanto di presenza di una batteria di sarti che labora al momento, fornita di meravigliose macchine Singer d'epoca, nella vicina Plaza Roja, e quello de la Merced, dove celebra il suo trionfo lo hornado, ossia maestosi tranci di freschissimo, tenero e saporito maiale al forno con tanto di croccante cotenna dorata, celebrato da un'agguerrita e rumorosa squadra di sacerdotesse del rito porcino, e che viene solitamente accompagnato da mote, ossia un tipo di mais bianco dai chicchi grossi che viene sgranato e bollito: un'intera sezione del mercato è dedicata al culto del hornado, a cui non ho potuto sottrarmi non mancando di concedermi un bis quest'oggi.



Come bevande, vengono ammanniti batidos di frutta (banana, mora, fragola, guanabana, banana, naranjita e, soprattutto, il prelibato cocco) preparati co autentico ghiaccio del Cimborazo, che è tradizione portare in città e conservato in balle di fieno (fino agli anni sessanta in Italia le fabbriche di ghiaccio lo fornivano ai frigoriferi avvolto in tela di juta, e ne conservo dei visivi ricordi milanesi) e che viene chiamato dai locali "colpo alla nuca", per l'effetto all'inghiottirlo per la sua temperatura persistentemente bassa. Bando ai colpi di sfiga, dunque, Que viva Riobamba! e Que viva il purcìt!, nella forma del hornado!

P.S. per i pochi ma buoni aficionados: i post che seguiranno, sempre che non mi rubino anche l'iPad, avranno un formato diverso dal solito e potrebbero scarseggiare di immagini. Mi impegno a omogeneizzarli allo standard consueto non appena tornerò in possesso di uno strumento adeguato.

1 commento:

  1. molto interessante, mi dispiace per il furto, buona continuazione del viaggio !

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