Ida Marinelli |
Viene riproposta, in questo finale di stagione, la "rilettura di gruppo" de "Il giardino dei ciliegi" eseguita dagli Elfi e diretta da Ferdinando Bruni nel 2006 e che due anni dopo vide la loro ultima apparizione corale nella storica sala di Via Ciro Menotti prima del trasferimento al Teatro Puccini di Corso Buenos Aires: ed è un bel rivedere, sia per la qualità della messinscena (per la quale Bruni ottenne nel 2008 il Premio Persefone, oltre che quello di migliore coprotagonista), sia per quella degli interpreti, in buona parte gli stessi della precedente "edizione", con la sostituzione di Bruni con l'ottimo Federico Vanni. Si tratta dell'ultima opera di Anton Čechov, e probabilmente la più famosa, del 1903, scritta in un momento di grandi cambiamenti nella società russa, fino a lì pressoché immobile (la servitù della gleba fu abolita solo pochi decenni prima e alcuni dei personaggi ne serbano memoria per averla vissuta), incentrata sulla vendita di una grossa proprietà, quella dove da sempre esiste un frutteto che, al momento della fioritura, diventa per l'appunto uno splendido giardino, dove la famiglia assiste per l'ultima volta riunita all'evento, che ha qualcosa di magico ed è occasione, col suo ripetersi invariabilmente a ogni nuova primavera, di fare i conti coi ricordi del passato e con quello che ognuno è diventato. Vendita a cui la famiglia è costretta per far fronte ai debiti contratti da Ljubov Andreevna, che ha sperperato capitali inseguendo in giro per l'Europa amori improbabili e truffaldini, e dal fratello, un ignavo, farfallone incapace di decidere alcunché, vanesio e superficiale. A nulla serve che Lopachin, figlio di contadini diventato amministratore della proprietà e uomo di fiducia, cerchi di convincerli a lottizzare parte della proprietà e ad abbattere proprio il frutteto, che dovrebbe far posto a delle villette (niente di nuovo sotto il sole) perché altrimenti a fine estate tutta la proprietà verrà messa all'incanto per soddisfare i creditori: la famiglia, nuovamente riunita dopo un disastroso soggiorni di Ljubov e della figlia 17 enne in Francia, trascorre gli ultimi mesi trastullandosi coi ricordi, in facezie puerili, ballando sul proprio Titanic, come se nulla fosse, anche se qualcuno, come le figlie di Ljubov, la giovane Anja (la frizzante Liliana Benini) a la già adulta Varja (una Elena Russo Arman come sempre ricca di pathos ed espressioni), mentre l'unica stanza in cui è ambientata la scena, che era quella "dei bambini", si svuota man mano, inesorabilmente, a ogni atto: sono quattro, con relativi rapidi cali di sipario, ma di fatto due (c'è un intervallo a metà spettacolo) fino alla scena finale della partenza. Oltre a essere un'opera sui cambiamenti sociali, parla soprattutto del tempo, e tutti i personaggi, anche quelli apparentemente secondari come i vecchi servi fedeli messi a confronto con quelli più giovani, sono funzionali a ricordarci che ognuno ha il suo e gli da un senso in base a quello che fa: l'aristocrazia in avanzato stato di decomposizione, incapace perfino di immaginare quali siano i propri interessi, merita di essere spazzata via dalla storia, e inevitabilmente avrà la meglio chi ha più energia: infatti sarà il "nuovo ricco" Lopachin a rilevare la proprietà, mentre l'eterno studente idealista Trofimof andrà a Mosca, forse a preparare la rivoluzione d'ottobre. Va da sé che i due protagonistii principali, Ida Marinelli ed Elio De Capitani, hanno confermato le interpretazioni d'eccellenza degli anni scorsi: la prima per la versatilità e intensità, il secondo per l'"insopportabile leggerezza" (insosptettabile considerata la stazza, ma ci ha abituato a questo e altro!) con cui ha dato vita all'inetto e monomaniacale Leonid Andreević: entrambi senza mai prendere la scena agli altri interpreti, tutti peraltro convincenti e bravissimi. Applausi.
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