"Quando c'era Berlinguer" di Walter Velroni. Documentario, Italia 2014 ★★★½
Mi ero ripromesso di separare il giudizio sulla pellicola di Veltroni da quello sulla canonizzazione di Berlinguer (la beatificazione coram populo era già avvenuta ai suoi funerali in Piazza San Giovanni a Roma il 13 giugno del 1984), che aveva avuto luogo in occasione della presentazione ufficiale del film alla presenza della sedicente intellighenzia luogocomunista avvenuta sempre nella capitale nel marzo scorso e dal giudizio politico sull'ultimo vero, nonché giù carismatico, segretario di un PCI che, anche a parere dei vari intervistati, di fatto scomparve con la sua morte. Mi ero altresì impegnato a non cedere alla tentazione di andare a vedere il film in sala ma di attendere che venisse trasmesso da SKY, che l'ha comprodotto, dato che sono abbonato e ho quindi contribuito al suo finanziamento. E devo concordare con quanto scrisse Andrea Scanzi alla sua uscita, ossia che Veltroni è certamente più convincente come regista che come politico: il ritratto che ne fa non eccede in buonismo, come ci si potrebbe aspettare né cade nell'agiografia; è affettuoso, ricostruisce con buona cura la personalità e la storia umana e politica di Enrico Berlinguer, collocandone la figura negli eventi della seconda metà dello scorso secolo. Dopo un agghiacciante prologo costituito da una serie di brevi interviste a giovani di oggi sul personaggio in questione, di cui ben pochi conoscono l'esistenza e il ruolo, il documentario si apre con una suggestiva sequenza in bianco e nero sulla Piazza San Giovanni di oggi, su cui svolazzano fogli de l'Unità di ieri, cui si sovrappongono le immagini del gigantesco corteo che accompagnò il feretro di Berlinguer giusto trent'anni fa, e prosegue con il racconto di Veltroni stesso che sottotitola le immagini e gli spezzoni d'epoca, intervallati da interviste a personaggi che l'avevano conosciuto o gli erano stati vicini, dalla figlia Bianca a Emanuele Macaluso, da Eugenio Scalfari, avvolto in una improbabile camicia alla coreana dai colori sgargianti ad Aldo Tortorella, dall'ex caposcorta che visse con lui per 15 anni all'operaio che fu con lui a Padova durante il giorno dell'ictus che lo colpì, da Claudio Signorile ad Alberto Franceschini, fondatore delle BR, a Napolitano, il più filocraxiano e antiberlingueriano dei dirigenti dell'ex PCI che, per colmo dell'ipocrisia, non ci risparmia la lacrima, all'illuminato e indispensabile parere del rapper con la zeppola, Jovanotti, eletto a intellettuale (indicativo che la maggior parte delle interviste a questi testimoni avviene in una di quelle tipiche terrazza romane evocate da "La grande bellezza" da cui Berlinguer si teneva accuratamente a distanza). Certo, la ricostruzione è di parte: così la vittoria al referendum sul divorzio del maggio 1974, che aprì la breve stagione dei trionfi elettorali della sinistra italiana, viene spacciata per opera sua e del suo partito, mentre chi c'era si ricorda della fatica improba che fu convincere i dirigenti del "partitone" a impegnarsi nella campagna per il no (decisivi furono il "destro" Amendola e Giancarlo Pajetta), così come si liquida la nascita del movimento del '77 come reazione delusa al monocolore DC che seguì il maggiore successo elettorale nella storia del PCI, nel 1976, invece di portare quest'ultimo direttamente al governo, il che è comprensibile da parte di un uomo che apparteneva già ai tempi all'apparato del partito per diventare segretario della formazione che gli succedette; ciò non toglie che il documentario sia ben girato, il commento musicale, quando c'è, appropriato, il racconto fluido, belle le immagini. Non so quanto questo film possa parlare a un giovane di questo inizio millennio, sicuramente a chi era giovane negli anni Sessanta e Settanta ricorda quanto questo Paese fosse anche antropologicamente diverso da quello che è diventato dai tanto decantati e invece fatali anni Ottanta in poi. Mi sento di consigliarlo sia come documento sia come uno stimolo a riflettere su come ci siamo ridotti a chi ai tempi di Berlinguer c'era.
Mi ero ripromesso di separare il giudizio sulla pellicola di Veltroni da quello sulla canonizzazione di Berlinguer (la beatificazione coram populo era già avvenuta ai suoi funerali in Piazza San Giovanni a Roma il 13 giugno del 1984), che aveva avuto luogo in occasione della presentazione ufficiale del film alla presenza della sedicente intellighenzia luogocomunista avvenuta sempre nella capitale nel marzo scorso e dal giudizio politico sull'ultimo vero, nonché giù carismatico, segretario di un PCI che, anche a parere dei vari intervistati, di fatto scomparve con la sua morte. Mi ero altresì impegnato a non cedere alla tentazione di andare a vedere il film in sala ma di attendere che venisse trasmesso da SKY, che l'ha comprodotto, dato che sono abbonato e ho quindi contribuito al suo finanziamento. E devo concordare con quanto scrisse Andrea Scanzi alla sua uscita, ossia che Veltroni è certamente più convincente come regista che come politico: il ritratto che ne fa non eccede in buonismo, come ci si potrebbe aspettare né cade nell'agiografia; è affettuoso, ricostruisce con buona cura la personalità e la storia umana e politica di Enrico Berlinguer, collocandone la figura negli eventi della seconda metà dello scorso secolo. Dopo un agghiacciante prologo costituito da una serie di brevi interviste a giovani di oggi sul personaggio in questione, di cui ben pochi conoscono l'esistenza e il ruolo, il documentario si apre con una suggestiva sequenza in bianco e nero sulla Piazza San Giovanni di oggi, su cui svolazzano fogli de l'Unità di ieri, cui si sovrappongono le immagini del gigantesco corteo che accompagnò il feretro di Berlinguer giusto trent'anni fa, e prosegue con il racconto di Veltroni stesso che sottotitola le immagini e gli spezzoni d'epoca, intervallati da interviste a personaggi che l'avevano conosciuto o gli erano stati vicini, dalla figlia Bianca a Emanuele Macaluso, da Eugenio Scalfari, avvolto in una improbabile camicia alla coreana dai colori sgargianti ad Aldo Tortorella, dall'ex caposcorta che visse con lui per 15 anni all'operaio che fu con lui a Padova durante il giorno dell'ictus che lo colpì, da Claudio Signorile ad Alberto Franceschini, fondatore delle BR, a Napolitano, il più filocraxiano e antiberlingueriano dei dirigenti dell'ex PCI che, per colmo dell'ipocrisia, non ci risparmia la lacrima, all'illuminato e indispensabile parere del rapper con la zeppola, Jovanotti, eletto a intellettuale (indicativo che la maggior parte delle interviste a questi testimoni avviene in una di quelle tipiche terrazza romane evocate da "La grande bellezza" da cui Berlinguer si teneva accuratamente a distanza). Certo, la ricostruzione è di parte: così la vittoria al referendum sul divorzio del maggio 1974, che aprì la breve stagione dei trionfi elettorali della sinistra italiana, viene spacciata per opera sua e del suo partito, mentre chi c'era si ricorda della fatica improba che fu convincere i dirigenti del "partitone" a impegnarsi nella campagna per il no (decisivi furono il "destro" Amendola e Giancarlo Pajetta), così come si liquida la nascita del movimento del '77 come reazione delusa al monocolore DC che seguì il maggiore successo elettorale nella storia del PCI, nel 1976, invece di portare quest'ultimo direttamente al governo, il che è comprensibile da parte di un uomo che apparteneva già ai tempi all'apparato del partito per diventare segretario della formazione che gli succedette; ciò non toglie che il documentario sia ben girato, il commento musicale, quando c'è, appropriato, il racconto fluido, belle le immagini. Non so quanto questo film possa parlare a un giovane di questo inizio millennio, sicuramente a chi era giovane negli anni Sessanta e Settanta ricorda quanto questo Paese fosse anche antropologicamente diverso da quello che è diventato dai tanto decantati e invece fatali anni Ottanta in poi. Mi sento di consigliarlo sia come documento sia come uno stimolo a riflettere su come ci siamo ridotti a chi ai tempi di Berlinguer c'era.
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