"Il mondo fino in fondo" di Alessandro Lunardelli. Con Luca Marinelli, Filippo Scicchitano, Barbora Bobulova, Alfredo Castro, Camilla Filippi, Cesare Serra, Manuela Martelli e altri. Italia, Spagna, Cile 2013 ★-
Tendo a essere ben disposto e comprensivo con i nuovi registi italiani all'esordio, ma non è davvero questo il caso, e sono furibondo con certi critici che hanno incensato questo film e il suo autore come la rivelazione dell'anno. L'originalità de "Il mondo fin in fondo" sta nel riuscire a condensare in una pellicola di soli 95', che però sembrano 150', tutti i filoni più battuti del Nuovo Cinema Italiota: la presunta attenzione alla provincia e alla crisi del mondo del lavoro; la commedia generazionale e familista; l'ossessione gay (ché questa è ormai diventata, e non ha nulla a che vedere con la rivendicazione dei diritti civili); il "nuovo" e più accettabile rapporto col mondo femminile del maschio-fuco, ormai sbalestrato da una insuperabile crisi di identità; il racconto di "formazione" (ma de che?); il viaggio come esperienza esistenziale. Per riuscire a cucinare questo minestrone immangiabile, il regista trasporta una coppia di fratelli (figli di un industrialotto piemontese di passamaneria, a sua volta separato dalla moglie "sognatrice" e quindi considerata una pazza nella sua logica produttivista, che lavorano nell'azienda di famiglia e già non si capisce perché, essendo nati e vivendo ad Agro, immaginaria cittadina presso Torino, si esprimano, a differenza del genitore, in romanesco); diversi per età, interessi, mentalità, tendenze sessuali (uno è in attesa che la moglie perfino più nevrotica di lui gli scodelli un figlio e l'altro, più giovane, è un gay non - ancora - dichiarato) prima a Barcellona, dove Davide, il minore, segue Loris a vedere la semifinale di Champions League del 2010 tra i blaugrana e l'Inter, grande passione del secondo, e lì incontra Andy, un giovane cileno in fuga da sé stesso ma soprattutto da ogni responsabilità, che se la tira da ecologista impegnato, e lo segue, convinto di aver trovato l'amore della sua vita, a Santiago, il giorno dopo, anzi; proprio nel mentre al Camp Nou si giocherebbe l'incontro (a metà del pomeriggio, prima di una serie infinita di incongruenze). Una volta giunto nella capitale cilena, dove in pieno autunno australe e ai piedi delle Ande si gira in T-shirt e braghette, viene accolto in una improbabile comune di aderenti a Green Peace (assai più odiosi che "equosolidali"), si avvede che il bell'Andy ha una fidanzata, Ana, che aveva piantato in asso andandosene in Europa senza fare un plissé a fare l'alternativo figo, non si capisce con quali soldi, e il giorno successivo già prende parte a un'azione sul mare (verosimilmente a Valparaíso, ma questo il film non lo dice), che pure dista un centinaio di chilometri e tornando alla base un attimo dopo. Dai prelievi sulla carta di credito aziendale Loris arguisce la meta di Davide e lo raggiunge immantinente, con lo scopo di recuperarlo e, finalmente, "comunicare" con lui. Una volta a Santiago si affida a Lucho, un tassista che è il solo personaggio plausibile (e pertanto non sviluppato) del film, interpretato dall'unico attore degno di questo nome di tutto il cast, e ha inizio un improbabile doppio inseguimento, di Davide e Ana ad Andy, di cui si sospettano intenzioni suicide, e di Loris e Lucho a loro, fino in Patagonia, non fino in fondo, come dice il titolo, ma limitatamente al Glaciar de San Rafael, nel Chile Chico a ridosso del confine argentino, sul Lago Buenos Aires. Il gruppo diventa di quattro, a cui si aggiunge un'improbabile coppia di statunitensi di mezza età che va in pellegrinaggio nel parco nazionale a commemorare il figlio lì scomparso. Tra le varie perle inesorabilmente infilzate da une sceneggiatura demenziale, il tango come tipica musica di sottofondo che si ascolterebbe nei bar di Santiago; cileni che parlano con accento porteño (però Andy lo fanno parlare come un cileno vero, che si divora pezzi di parola col risultato di essere inintelligibile); un incontro vis à vis sulla Carretera Austral con un guanaco, animale notoriamente timidissimo, che rimane impalato come una sfinge a farsi immortalare senza darsela a gambe; la finale di Champions League trasmessa in diretta al mattino in Cile quando a Madrid sarebbero state le tre del pomeriggio (ed erano invece le 21 quando si giocò realmente); un forno da cucina usato come incubatrice per resuscitare un pulcino che risultava stecchito; l'outing di Davide nel momento stesso del primo gol di Milito: troppo anche per un "beneamante" come me che vede con occhio benevolo ogni tentativo del cinema nostrano di sprovincializzarsi un po'. In sostanza, una rara fusione tra luogocomunismo tipico delle nostre produzioni e ciarlataneria. Unico aspetto positivo del film la fotografia, affidata a mani esperte e a cui contribuiscono i paesaggi mozzafiato della Patagonia, mentre il montaggio sembra curato da uno schizzato in preda a delirio anfetaminico, e il ritratto di un Paese infelice e, questo sì, di gente che ha ancora paura della propria ombra anche anni dopo la morte di Pinochet, mai nominato nemmeno di striscio (la produzione è anche cilena, non a caso...) A Lunardelli suggerirei amichevolmente di tornare ai documentari, in cui pare sia davvero bravo, e di affidarsi, in un eventuale prossimo tentativo registico, a uno sceneggiatore che abbia una vaga idea di quel che sta facendo. Scoraggiante: di peggio, in questi ultimi anni, ho visto solo questa boiata.
Tendo a essere ben disposto e comprensivo con i nuovi registi italiani all'esordio, ma non è davvero questo il caso, e sono furibondo con certi critici che hanno incensato questo film e il suo autore come la rivelazione dell'anno. L'originalità de "Il mondo fin in fondo" sta nel riuscire a condensare in una pellicola di soli 95', che però sembrano 150', tutti i filoni più battuti del Nuovo Cinema Italiota: la presunta attenzione alla provincia e alla crisi del mondo del lavoro; la commedia generazionale e familista; l'ossessione gay (ché questa è ormai diventata, e non ha nulla a che vedere con la rivendicazione dei diritti civili); il "nuovo" e più accettabile rapporto col mondo femminile del maschio-fuco, ormai sbalestrato da una insuperabile crisi di identità; il racconto di "formazione" (ma de che?); il viaggio come esperienza esistenziale. Per riuscire a cucinare questo minestrone immangiabile, il regista trasporta una coppia di fratelli (figli di un industrialotto piemontese di passamaneria, a sua volta separato dalla moglie "sognatrice" e quindi considerata una pazza nella sua logica produttivista, che lavorano nell'azienda di famiglia e già non si capisce perché, essendo nati e vivendo ad Agro, immaginaria cittadina presso Torino, si esprimano, a differenza del genitore, in romanesco); diversi per età, interessi, mentalità, tendenze sessuali (uno è in attesa che la moglie perfino più nevrotica di lui gli scodelli un figlio e l'altro, più giovane, è un gay non - ancora - dichiarato) prima a Barcellona, dove Davide, il minore, segue Loris a vedere la semifinale di Champions League del 2010 tra i blaugrana e l'Inter, grande passione del secondo, e lì incontra Andy, un giovane cileno in fuga da sé stesso ma soprattutto da ogni responsabilità, che se la tira da ecologista impegnato, e lo segue, convinto di aver trovato l'amore della sua vita, a Santiago, il giorno dopo, anzi; proprio nel mentre al Camp Nou si giocherebbe l'incontro (a metà del pomeriggio, prima di una serie infinita di incongruenze). Una volta giunto nella capitale cilena, dove in pieno autunno australe e ai piedi delle Ande si gira in T-shirt e braghette, viene accolto in una improbabile comune di aderenti a Green Peace (assai più odiosi che "equosolidali"), si avvede che il bell'Andy ha una fidanzata, Ana, che aveva piantato in asso andandosene in Europa senza fare un plissé a fare l'alternativo figo, non si capisce con quali soldi, e il giorno successivo già prende parte a un'azione sul mare (verosimilmente a Valparaíso, ma questo il film non lo dice), che pure dista un centinaio di chilometri e tornando alla base un attimo dopo. Dai prelievi sulla carta di credito aziendale Loris arguisce la meta di Davide e lo raggiunge immantinente, con lo scopo di recuperarlo e, finalmente, "comunicare" con lui. Una volta a Santiago si affida a Lucho, un tassista che è il solo personaggio plausibile (e pertanto non sviluppato) del film, interpretato dall'unico attore degno di questo nome di tutto il cast, e ha inizio un improbabile doppio inseguimento, di Davide e Ana ad Andy, di cui si sospettano intenzioni suicide, e di Loris e Lucho a loro, fino in Patagonia, non fino in fondo, come dice il titolo, ma limitatamente al Glaciar de San Rafael, nel Chile Chico a ridosso del confine argentino, sul Lago Buenos Aires. Il gruppo diventa di quattro, a cui si aggiunge un'improbabile coppia di statunitensi di mezza età che va in pellegrinaggio nel parco nazionale a commemorare il figlio lì scomparso. Tra le varie perle inesorabilmente infilzate da une sceneggiatura demenziale, il tango come tipica musica di sottofondo che si ascolterebbe nei bar di Santiago; cileni che parlano con accento porteño (però Andy lo fanno parlare come un cileno vero, che si divora pezzi di parola col risultato di essere inintelligibile); un incontro vis à vis sulla Carretera Austral con un guanaco, animale notoriamente timidissimo, che rimane impalato come una sfinge a farsi immortalare senza darsela a gambe; la finale di Champions League trasmessa in diretta al mattino in Cile quando a Madrid sarebbero state le tre del pomeriggio (ed erano invece le 21 quando si giocò realmente); un forno da cucina usato come incubatrice per resuscitare un pulcino che risultava stecchito; l'outing di Davide nel momento stesso del primo gol di Milito: troppo anche per un "beneamante" come me che vede con occhio benevolo ogni tentativo del cinema nostrano di sprovincializzarsi un po'. In sostanza, una rara fusione tra luogocomunismo tipico delle nostre produzioni e ciarlataneria. Unico aspetto positivo del film la fotografia, affidata a mani esperte e a cui contribuiscono i paesaggi mozzafiato della Patagonia, mentre il montaggio sembra curato da uno schizzato in preda a delirio anfetaminico, e il ritratto di un Paese infelice e, questo sì, di gente che ha ancora paura della propria ombra anche anni dopo la morte di Pinochet, mai nominato nemmeno di striscio (la produzione è anche cilena, non a caso...) A Lunardelli suggerirei amichevolmente di tornare ai documentari, in cui pare sia davvero bravo, e di affidarsi, in un eventuale prossimo tentativo registico, a uno sceneggiatore che abbia una vaga idea di quel che sta facendo. Scoraggiante: di peggio, in questi ultimi anni, ho visto solo questa boiata.
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