"Piccola patria" di Alessandro Rossetto. Con Maria Roveran, Roberta De Soller, Vladimir Doda, Lucia Masino, Diego Ribon, Mirko Artuso, Nicoletta Maragno, Stefano Scandaletti, Giulio Brogi, Mateo Çili, Valerio Mazzuccato. Italia, 2013 ★★★★½
Felice esordio alla regìa nel cinema di finzione, come lo definisce lui stesso, di Alessandro Rossetto, finora apprezzato documentarista, che ha presentato mercoledì sera al "Visionario" di Udine questo film notevole, cui è impossibile rimanere indifferenti, seconda tappa del tour promozionale che regista, attori e il complesso degli Stag hanno intrapreso per accompagnarne l'uscita nelle sale: a precedere la proiezione, un concerto che vede come cantante la sorprendente, bravissima Maria Roveran, una ragazza dolcissima e sensibile, tanto minuta e delicata quanto piena d'energia e talento, autrice e interprete, peraltro, dei due pezzi di colonna sonora in veneto (cori degli alpini a parte). Una storia di ordinaria disgregazione sociale e culturale che, dice il Rossetto, potrebbe essere ambientata in qualsiasi periferia del mondo (preciserei dell'Impero Globalizzato), ma che trova nel Veneto sfregiato e divelto dal malinteso e caotico sviluppo degli ultimi trent'anni, che ha nel mito del "lavoro" come nell'ingordigia degli schei il suo carburante, un luogo privilegiato ed emblematico, cui la recitazione in buona parte in dialetto conferisce un significato e un'efficacia particolari. Girata nell'estate del 2012 con location sparse in tutto il Triveneto, da Bolzano a Trieste, ché tanto nella devastazione è diventato pressoché uguale dappertutto, ma epicentro a Villafranca di Verona, in un non-luogo che potrebbe essere ovunque, lungo il Brenta come sulla Pontebbana, la pellicola narra della vicenda di due amiche, Luisa e Renata, cameriere sottopagate di un orrendo albergo che sembra un'escrescenza tumorale in un paesaggio già butterato da sconcezze inqualificabili, che escogitano un sistema per ricattare un maniaco sessuale e ottenere così del denaro per scappare dal paese in cui vivono. Luisa, solare, disinibita, estroversa è fidanzata con Bilal, un immigrato albanese, all'insaputa del padre indipendentista e razzista, e si fa guardare, tenendo all'oscuro il ragazzo, mentre fanno sesso dall'uomo con cui Renata ha una relazione a pagamento ed è quest'ultima che lo fotografa nella sua attività di guardone per ricattarlo, vendicando al contempo una violenza subita. Il tutto nel quadro di una realtà squallida, resa magistralmente dalla mano del documentarista di razza (magistrali le ripetute riprese dall'elicottero, sui luoghi della scena), con famiglie slabbrate ed esauste, comizi e feste paesane di razzisti e secessionisti ben radicati nel territorio, essendo la rabbia verso lo straniero la valvola di sfogo perfetta per l'insoddisfazione, il vuoto e la mai placata fame di quattrini. La narrazione avviene in modo ellittico, come ha confermato Rossetto, e la sensazione, voluta e riuscita, è quella di un costante lieve sfasamento che ha come effetto quello di accumulare una tensione sotterranea nello spettatore, di inquietudine strisciante che viene paradossalmente stemperata da un finale aperto a ogni soluzione ma non per questo liberatorio né consolatorio. Il film, che merita un plauso e una attenzione particolare, descrive perfettamente una terra che ha perso la sua identità che, alla disperata ricerca di un suo sostituto, si rifugia in un indipendentismo velleitario senza radici culturali né giustificazioni che non siano la brama di quattrini: nemmeno la chiesa, altro non-luogo, l'ennesimo inquietante obbrobrio architettonico, è in grado di dare risposte, meno che mai un certo tipico bigottismo e un padre afasico, reso con grande efficacia da Mirko Artuso, a una ragazza come Luisa (una perfetta e potente Maria Roveran, molto più che una promessa), che è alla ricerca di uno sbocco, di un futuro, quale che sia, anche se fosse soltanto per motivi ormonali. E' lei l'unica a crescere ed evolversi nel corso della vicenda sempre più tesa, non l'amica, introversa e incattivita, attraverso il rapporto con Bilal, di cui pure ha tradito la fiducia, e quello che alla fine riesce a instaurare con la madre, altra ottima interpretazione da parte di Luisa Mascino. Alla fine della proiezione di questo film, che per essere duro non necessita di scene di violenza, perché questa è già nelle cose e negli animi, ll regista, il produttore e i due interpreti principali, la Roveran e Vladimir Doda, attore albanese che parla un italiano esemplare, tutti estremamente disponibili, si sono intrattenuti a lungo col pubblico, in realtà piuttosto scarso nell'occasione: il mio augurio è che accorra numeroso a vedere come è ridotta miseramente la "Piccola patria", anche se è una di quelle cose che fanno male.
Felice esordio alla regìa nel cinema di finzione, come lo definisce lui stesso, di Alessandro Rossetto, finora apprezzato documentarista, che ha presentato mercoledì sera al "Visionario" di Udine questo film notevole, cui è impossibile rimanere indifferenti, seconda tappa del tour promozionale che regista, attori e il complesso degli Stag hanno intrapreso per accompagnarne l'uscita nelle sale: a precedere la proiezione, un concerto che vede come cantante la sorprendente, bravissima Maria Roveran, una ragazza dolcissima e sensibile, tanto minuta e delicata quanto piena d'energia e talento, autrice e interprete, peraltro, dei due pezzi di colonna sonora in veneto (cori degli alpini a parte). Una storia di ordinaria disgregazione sociale e culturale che, dice il Rossetto, potrebbe essere ambientata in qualsiasi periferia del mondo (preciserei dell'Impero Globalizzato), ma che trova nel Veneto sfregiato e divelto dal malinteso e caotico sviluppo degli ultimi trent'anni, che ha nel mito del "lavoro" come nell'ingordigia degli schei il suo carburante, un luogo privilegiato ed emblematico, cui la recitazione in buona parte in dialetto conferisce un significato e un'efficacia particolari. Girata nell'estate del 2012 con location sparse in tutto il Triveneto, da Bolzano a Trieste, ché tanto nella devastazione è diventato pressoché uguale dappertutto, ma epicentro a Villafranca di Verona, in un non-luogo che potrebbe essere ovunque, lungo il Brenta come sulla Pontebbana, la pellicola narra della vicenda di due amiche, Luisa e Renata, cameriere sottopagate di un orrendo albergo che sembra un'escrescenza tumorale in un paesaggio già butterato da sconcezze inqualificabili, che escogitano un sistema per ricattare un maniaco sessuale e ottenere così del denaro per scappare dal paese in cui vivono. Luisa, solare, disinibita, estroversa è fidanzata con Bilal, un immigrato albanese, all'insaputa del padre indipendentista e razzista, e si fa guardare, tenendo all'oscuro il ragazzo, mentre fanno sesso dall'uomo con cui Renata ha una relazione a pagamento ed è quest'ultima che lo fotografa nella sua attività di guardone per ricattarlo, vendicando al contempo una violenza subita. Il tutto nel quadro di una realtà squallida, resa magistralmente dalla mano del documentarista di razza (magistrali le ripetute riprese dall'elicottero, sui luoghi della scena), con famiglie slabbrate ed esauste, comizi e feste paesane di razzisti e secessionisti ben radicati nel territorio, essendo la rabbia verso lo straniero la valvola di sfogo perfetta per l'insoddisfazione, il vuoto e la mai placata fame di quattrini. La narrazione avviene in modo ellittico, come ha confermato Rossetto, e la sensazione, voluta e riuscita, è quella di un costante lieve sfasamento che ha come effetto quello di accumulare una tensione sotterranea nello spettatore, di inquietudine strisciante che viene paradossalmente stemperata da un finale aperto a ogni soluzione ma non per questo liberatorio né consolatorio. Il film, che merita un plauso e una attenzione particolare, descrive perfettamente una terra che ha perso la sua identità che, alla disperata ricerca di un suo sostituto, si rifugia in un indipendentismo velleitario senza radici culturali né giustificazioni che non siano la brama di quattrini: nemmeno la chiesa, altro non-luogo, l'ennesimo inquietante obbrobrio architettonico, è in grado di dare risposte, meno che mai un certo tipico bigottismo e un padre afasico, reso con grande efficacia da Mirko Artuso, a una ragazza come Luisa (una perfetta e potente Maria Roveran, molto più che una promessa), che è alla ricerca di uno sbocco, di un futuro, quale che sia, anche se fosse soltanto per motivi ormonali. E' lei l'unica a crescere ed evolversi nel corso della vicenda sempre più tesa, non l'amica, introversa e incattivita, attraverso il rapporto con Bilal, di cui pure ha tradito la fiducia, e quello che alla fine riesce a instaurare con la madre, altra ottima interpretazione da parte di Luisa Mascino. Alla fine della proiezione di questo film, che per essere duro non necessita di scene di violenza, perché questa è già nelle cose e negli animi, ll regista, il produttore e i due interpreti principali, la Roveran e Vladimir Doda, attore albanese che parla un italiano esemplare, tutti estremamente disponibili, si sono intrattenuti a lungo col pubblico, in realtà piuttosto scarso nell'occasione: il mio augurio è che accorra numeroso a vedere come è ridotta miseramente la "Piccola patria", anche se è una di quelle cose che fanno male.
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