"Father and Son" (Soshite Chichi ni Naru) di Hirokazu Kore'eda. Con Masaharu Fukuyama, Yôko Maki, Rirî Furankî, Jun Kunimura, Machiko Ono, Kirin Kiki, Isao Natsuyagi, Lily Franky, Jun Fabuki, Megumi Morisaki. Giappone 2013 ★★★★+
E' uscito finalmente sui nostri schermi il film che ha ampiamente meritato il "Gran Premio della Giuria" del Festival di Cannes dello scorso anno, un'edizione particolarmente felice che vide la vittoria de "La vita di Adele" e pure la presenza de "La grande bellezza", che avrebbe poi trionfato agli Oscar: sperando che quella del 2014 che avrà inizio tra meno di un mese si mantenga all'altezza. Parla di uno scambio di neonati avvenuto nella culla e comunicato a due coppie di genitori dopo 6 anni da un evento che, si verrà a scoprire, non è stato fortuito come credevano gli stessi responsabili dell'ospedale dov'era avvenuto, ma opera volontaria di una infermiera, per una sorta di sfida, innescata dai difficili rapporti che a quei tempi aveva avuto come matrigna dei figli del suo compagno: tema non nuovo nella cinematografia, ma qui mi è venuto in mente "I figli della mezzanotte" di Salman Rushdie, e mi riferisco al romanzo più che alla sua trasposizione in immagini, per quanto il tema della genitorialità, dell'aspetto culturale e di quello biologico ma soprattutto del tempo, e di quanto esso possa incidere, sia trattato in maniera particolare e con una visione che, pur essendo universale, ci racconta anche molto del Giappone di oggi. Le due coppie alle prese con questo dramma sono diversissime per estrazione sociale: Ryota è un architetto di successo, che ha poco tempo per stare con il piccolo Keita e lo fa educandolo alla disciplina, a porsi e a raggiungere i propri obiettivi e primeggiare, quanto di più tipicamente nipponico ci si possa immaginare. Al contrario il loro figlio biologico è cresciuto in un ambiente popolare, composta oltre che da un fratello e una sorellina, dal titolare di un piccolo negozio di materiale elettrico infantile, divertente e arruffone, dall'addetta di una mensa mentre Midori, moglie di Ryota, ha rinunciato al lavoro per dedicarsi al figlio. Già questo offre uno spaccato diverso dal Paese atomizzato e disumanizzato degli stereotipi, come è sorprendente l'influenza che sembrano avere raggiunto le donne in una società così tradizionalista e maschilista come quella giapponese. Anche se tutti i personaggi vengono descritti con estrema cura e attenzione non solo formale nelle loro interazioni, nel periodo di sei mesi di frequentazione reciproca che le due famiglie si sono date prima di prendere una decisione che si rivelerà non definitiva, la figura centrale resta Ryota, che dapprima prenderà, pur con tutti i dubbi del caso, la strada "biologica", ma avrà occasione di rivedere non solo il modello educativo applicato finora ma anche le modalità e la qualità dell'interazione col figlio ma soprattutto il concetto di tempo: glielo suggerirà dapprima il suo capo nell'azione in cui lavora (sfatando un'altra immagine ritrita) e poi glielo farà comprendere un suo ex collega convertitosi al giardinaggio, parlandogli dei quindici anni che gli sono occorsi per raggiungere un certo risultato in una specie di riserva ecologica, e di cui non si pente. Soprattutto, vedendo attraverso delle fotografie che Keita gli ha scattato di nascosto com'è visto lui stesso da colui che ha allevato, rifà i conti con le vicende dei suoi stessi rapporti coi propri genitori. Un film perfettamente calibrato, misurato nei toni, profondo, che fa riflettere anche chi non è genitore a sua volta; una modo di affrontare temi universali con una sensibilità diversa da quella a cui siamo abituati e che dopo più di un viaggio in Oriente, letture, film comincio a sentire familiare. Cade dunque a proposito la 16ª edizione del Far East Film Festival che prenderà il via a Udine il 25 aprile e l'atmosfera che vi si respirerà.
E' uscito finalmente sui nostri schermi il film che ha ampiamente meritato il "Gran Premio della Giuria" del Festival di Cannes dello scorso anno, un'edizione particolarmente felice che vide la vittoria de "La vita di Adele" e pure la presenza de "La grande bellezza", che avrebbe poi trionfato agli Oscar: sperando che quella del 2014 che avrà inizio tra meno di un mese si mantenga all'altezza. Parla di uno scambio di neonati avvenuto nella culla e comunicato a due coppie di genitori dopo 6 anni da un evento che, si verrà a scoprire, non è stato fortuito come credevano gli stessi responsabili dell'ospedale dov'era avvenuto, ma opera volontaria di una infermiera, per una sorta di sfida, innescata dai difficili rapporti che a quei tempi aveva avuto come matrigna dei figli del suo compagno: tema non nuovo nella cinematografia, ma qui mi è venuto in mente "I figli della mezzanotte" di Salman Rushdie, e mi riferisco al romanzo più che alla sua trasposizione in immagini, per quanto il tema della genitorialità, dell'aspetto culturale e di quello biologico ma soprattutto del tempo, e di quanto esso possa incidere, sia trattato in maniera particolare e con una visione che, pur essendo universale, ci racconta anche molto del Giappone di oggi. Le due coppie alle prese con questo dramma sono diversissime per estrazione sociale: Ryota è un architetto di successo, che ha poco tempo per stare con il piccolo Keita e lo fa educandolo alla disciplina, a porsi e a raggiungere i propri obiettivi e primeggiare, quanto di più tipicamente nipponico ci si possa immaginare. Al contrario il loro figlio biologico è cresciuto in un ambiente popolare, composta oltre che da un fratello e una sorellina, dal titolare di un piccolo negozio di materiale elettrico infantile, divertente e arruffone, dall'addetta di una mensa mentre Midori, moglie di Ryota, ha rinunciato al lavoro per dedicarsi al figlio. Già questo offre uno spaccato diverso dal Paese atomizzato e disumanizzato degli stereotipi, come è sorprendente l'influenza che sembrano avere raggiunto le donne in una società così tradizionalista e maschilista come quella giapponese. Anche se tutti i personaggi vengono descritti con estrema cura e attenzione non solo formale nelle loro interazioni, nel periodo di sei mesi di frequentazione reciproca che le due famiglie si sono date prima di prendere una decisione che si rivelerà non definitiva, la figura centrale resta Ryota, che dapprima prenderà, pur con tutti i dubbi del caso, la strada "biologica", ma avrà occasione di rivedere non solo il modello educativo applicato finora ma anche le modalità e la qualità dell'interazione col figlio ma soprattutto il concetto di tempo: glielo suggerirà dapprima il suo capo nell'azione in cui lavora (sfatando un'altra immagine ritrita) e poi glielo farà comprendere un suo ex collega convertitosi al giardinaggio, parlandogli dei quindici anni che gli sono occorsi per raggiungere un certo risultato in una specie di riserva ecologica, e di cui non si pente. Soprattutto, vedendo attraverso delle fotografie che Keita gli ha scattato di nascosto com'è visto lui stesso da colui che ha allevato, rifà i conti con le vicende dei suoi stessi rapporti coi propri genitori. Un film perfettamente calibrato, misurato nei toni, profondo, che fa riflettere anche chi non è genitore a sua volta; una modo di affrontare temi universali con una sensibilità diversa da quella a cui siamo abituati e che dopo più di un viaggio in Oriente, letture, film comincio a sentire familiare. Cade dunque a proposito la 16ª edizione del Far East Film Festival che prenderà il via a Udine il 25 aprile e l'atmosfera che vi si respirerà.
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