Sono anni che non vedo un programma sulla RAI (perfino la finale degli Europei tra Italia e Spagna ho preferito seguirla sul canale tedesco) e una fiction dai tempi del primo "Montalbano", ma lo farò stasera per la prima delle sei puntate su RaiUno de "Il commissario Nardone". Ancora un poliziotto, ma questa volta non uscito dalla fantasia e dall'agile penna di Andrea Camilleri bensì dalle vicende di vita vissuta di un personaggio in carne e ossa che chiunque come me abbia vissuto gli anni Sessanta e Settanta a Milano ricorda benissimo, con ammirazione e affetto. Per inquadrare epoca e personaggio, lascio la parola a Tiziano Marelli, carissimo amico, allora concittadino e cronista di razza, che ha scritto questo ottimo pezzo uscito su "Il Vostro" (quotidiano on line).
In tivù il commissario Mario Nardone
E un giallo romano degli anni Cinquanta
E un giallo romano degli anni Cinquanta
L'anniversario di un delitto avvenuto nella Capitale nel 1958 si intreccia con la storia dell'inventore della Squadra Mobile di Milano (il "113") che rivive nella fiction di RaiUno. Arrivato dal sud, "terroncello" l'avevano soprannominato, aveva rare qualità di investigatore
In questi giorni si accavallano due date, che è possibile unire in un’unica storia. Si tratta del caso “Fenaroli-Ghiani” e della messa in onda, da parte della Rai, della serie Il Commissario Nardone, in onda su RaiUno a partire da oggi (giovedì 6 settembre.) Si tratta di una fiction di sei puntate che ripercorre le gesta per troppo tempo dimenticate di uno dei più grandi poliziotti italiani, un investigatore che fece epoca e che letteralmente “inventò” la Squadra Mobile. E che a quel lontano caso di omicidio è unito, soprattutto per un mio ricordo personale, e più avanti vedo di spiegare il perché.
LA MOGLIE, L’IMPRENDITORE E I DEBITI - La signora Maria Martirano fu uccisa a Roma, in via Monaci, la sera di mercoledì 10 settembre 1958, poco prima della mezzanotte. Il suo corpo venne ritrovato il mattino successivo dalla domestica e le indagini appurarono che si trattò di strangolamento. Dopo molto brancolare nel buio, in un paio di mesi di indagini a vuoto i sospetti si concentrarono infine sul marito, il cinquantenne Giovanni Fenaroli: nonostante il suo alibi sembrasse di ferro – lavorava a Milano, dove aveva un’impresa edile che non navigava in buone acque, e c’era chi testimoniava che non si era mosso dall’ufficio, tantomeno per tornare a Roma – si ipotizzò che a mettere in atto il delitto potesse essere stato proprio lui con la collaborazione fattiva di un complice, Raul Ghiani, un operaio elettronico di 27 anni
. Secondo gli investigatori Ghiani fu l’esecutore materiale, incaricato da Fenaroli del crimine per poter poi incassare la polizza assicurativa sulla vita della moglie e dividersela, salvando così la sua impresa da una probabile bancarotta.
IL PIANO E L’ACCUSA - Per la fantasia di quell’epoca il piano studiato da Fenaroli era tanto fantastico quanto geniale, messo in atto usando i mezzi più “moderni” a disposizione: auto, aereo e treno. In pratica, secondo l’accusa, il marito-mandante avrebbe accompagnato in tutta fretta, la sera del 10 settembre, il complice-esecutore a Malpensa sulla sua Giulietta (un particolare che contribuì a fare di quell’auto un mito) in tempo per imbarcarsi sul primo aereo disponibile (si stabilì che era quello delle 19 e 30) per la capitale, compiere l’assassinio e tornare in treno (ne partiva uno da Termini alle 0.20) giusto in tempo per ripresentarsi al lavoro il mattino dopo, puntuale alle 9. Nonostante non ci fossero certezze sulla presenza del Ghiani né sull’aereo (le liste dei passeggeri non erano quelle “blindate” di oggi, quello che era considerato l’assassino poteva aver dato un nome falso, e su questo a lungo si disquisì) né sul treno, e nonostante i tempi di percorrenza dalla città a Malpensa non fornissero nessun tipo di certezza (in quello stesso periodo, nell’impresa si cimentarono anche migliaia di cittadini, tutti potenziali e casarecci detective impegnati in cronometraggi improbabili sull’asse stradale in questione) l’impianto accusatorio resse anche al processo, nonostante i molti e corposi dubbi espressi anche in fase dibattimentale dalla difesa: Fenaroli e Ghiani vennero condannati all’ergastolo in primo grado, e la sentenza fu confermata in appello
.
INNOCENTE O COLPEVOLE? - Narrano le cronache dell’epoca che ad attendere la sentenza più di ventimila romani si accalcarono all’esterno del palazzo di Giustizia fin dalle cinque del mattino. Troppa era la voglia di “normalità” criminale dopo gli eccessi e gli orrori della guerra, e anche il processo ai due “assassini” si inquadrò in quel clima assurdo di giustizialismo “corretto”, che si lasciasse alle spalle quello che nell’immediato periodo post-bellico aveva portato alla giustizia sommaria di migliaia di avversari politici collusi con il fascismo. Il caso spaccò l’Italia nettamente in due, fra innocentisti e colpevolisti. Negli anni non mancarono teorie buone per smontare il castello d’accusa, e nemmeno altre molto più complottiste, che spaziavano dai servizi segreti all’Italcasse, ente rispetto al quale Fenaroli pare vantasse dei contenziosi e che era proprio in quegli anni al centro di diversi scandali. Ma nulla mai cambiò. Fenaroli, in silenzio, morì in carcere nel 1975, Ghiani invece ottenne la grazia dal presidente Pertini nel 1984, e da allora vive a Firenze da dove continua a ribadire la sua innocenza e a battersi per riaprire il caso. Inutilmente, finora.
IL COMMISSARIO NARDONE - Ma, come abbiamo già detto, gli innocentisti erano tanti. E uno di questi era proprio Mario Nardone, che partecipò da Milano alle indagini sull’omicidio fin dall’inizio, e fu sempre convinto che la colpevolezza dei due non fosse per niente certa. Posso dirlo perché me lo confidò, in una lunga intervista-storia della sua vita che mi concesse, e che pubblicai postuma su L’Europeo, qualche anno fa. Nardone mi disse anche di aver fatto arrivare la sua opinione “a chi di dovere”, ma che questo non sortì nulla, e fu cosa della quale si rammaricò tutta la vita. Proprio quel mio incontro, molto umano e quasi personale, con il mitico “architetto” e primo capo della Squadra Mobile (il celebre “113”, il numero di telefono del pronto intervento della Polizia, nacque da lì: altra intuizione sua) mi dicono abbia dato il via all’idea della serie di puntate che per sei settimane da adesso faranno conoscere a tutti gli italiani che grande uomo è stato il Commissario italiano per eccellenza nella realtà della sua vita, un vissuto che tutto è stato fuorché semplice fiction o invenzione di una penna, come quella splendida Simenon: il suo Maigret, anche se in epoca precedente e diversa gli somiglia molto, ma quella era davvero finzione letteraria, Nardone invece era un uomo al totale servizio dello Stato: in carne, ossa e intuito. Anzi: soprattutto intuito, che lo portò con grande e unica capacità a risolvere casi come quello di Rina Fort (un altro orrendo crimine che nel ’46 scosse vieppiù l’animo degli italiani), della banda di via Osoppo, di quella di Cavallero e Notarnicola, e di tutte le altre imprese criminali che caratterizzano Milano, dal 1946 – al suo arrivo in città dall’Irpinia, con il grado di vice commissario aggiunto e anche con tutti i preconcetti verso un superiore “terrunciello”, che diventò in fretta il suo soprannome, adottato anche in famiglia – fino agli anni Settanta inoltrati, con passaggi in successione alla guida della Criminalpol, alla Scuola di Polizia, per finire come questore a Como, quasi dimenticato se non messo ai margini, in maniera del tutto ingrata e francamente incomprensibile. Lui se ne rammaricava, e faticava a farsene una ragione.
ALTRI TEMPI, ALTRI METODI - Dei nostri incontri ricordo una passeggiata dalla sua casa di via Tortona, a Milano, fin nei vicoli di porta Genova, con fermata in un bar del posto, molto cambiato rispetto a quando ci passò la prima volta; lì, era appena arrivato a Milano, vide allora un ragazzo dalla faccia poco raccomandabile che trafficava con una radio troppo “cara” per lui: Nardone lo fermò, lo portò in Questura, lo interrogò, e scoprì così un duplice omicidio. Appena arrivato in città, risolse il suo primo caso. Mi raccontò dei suoi uomini (ne incontrai alcuni, molti anni dopo quando decisi si pubblicare la sua storia, ed erano tutti personaggi straordinari), e mi fece conoscere il maresciallo Oscuri: capii subito cosa volevano dire i colleghi della nera di un tempo che, quando qualcuno “tardava” a cantare, “si chiamava l’Oscuri”, che scendeva dai suoi uffici e in men che non si dica l’atteggiamento del sospettato cambiava. Successe che al nostro incontro mi strinse la mano, Oscuri, e capii che a quelle manone, se calate su una faccia, era difficile continuare a negare qualcosa. Altri tempi, altri metodi, ma in fondo la lotta fra “le parti” era qualcosa che più che sfiorava il reciproco rispetto. Tant’è che Nardone, a Natale, andava in carcere a trovare chi lui stesso ce lo aveva mandato, e non mancava di presentarsi con spumante e panettone. Un po’ per consolare, ma anche per capire se poi, all’uscita da San Vittore, poteva magari contare su qualche nuovo collaboratore: un elenco segretissimo e prolifico in termini di risultati, uomini che solo lui conosceva e incontrava, nei modi più rocamboleschi. Secondo lui, vinta la lotta con un delinquente, poi non deve mancare il rispetto.
LA RICONOSCENZA POSTUMA - Rispetto, senso delle istituzioni, totale dedizione alla Giustizia e ai suoi valori: sono questi i cardini del “pensiero” professionale di Mario Nardone, che è scomparso all’inizio del mese di luglio del 1986 senza avere la soddisfazione di sentirsi ripagato, nemmeno simbolicamente, per tutto quello che aveva fatto a una città come Milano e alla sua Italia, i punti di riferimento non solo simbolici ai quali aveva dedicato tutta la sua vita. Spero con tutto il cuore che la serie televisiva possa rendergli merito nel migliore dei modi. Sono stato alla presentazione alla stampa dell’evento, e le immagini della prima puntata che ho visto mi fanno pensare che la sua figura ne uscirà bene, e sarà finalmente ricordato nella sua giusta e genuina luce. Un po’ troppo in ritardo, forse, ma la pazienza è la virtù dei forti, e ne aveva tanta anche lui, di pazienza, certo – come sono sicuro che fosse – che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla: visto che finalmente riguarda lui, si tratta di una verità assolutamente disvelata per quello che doveva essere, oltre che finalmente del tutto meritata e dovuta.
Grazie per il "cronista di razza", e per la pubblicazione, altrettanto "carissimo amico" mio!
RispondiElimina