venerdì 23 ottobre 2009

A zonzo in una giornata di zonda tra vigneti e uliveti di Mendoza

MENDOZA - Lasciata la “Banda Oriental” in traghetto e fatta sosta per mezza giornata a Buenos Aires durante una giornata di pioggia dalla parvenza molto più autunnale che primaverile, ho ripreso il cammino verso Ovest con meta una zona dal clima e dall’aspetto quanto mai diverso: Mendoza, ai piedi della precordigliera andina, appena dietro alla quale si stagliano le vette più alte d’America, clima secco, temperature pressoché estive. La regione a vocazione vinicola per eccellenza dell’Argentina: il 70% della produzione nazionale (la quarta al mondo) avviene qui, per una serie di fattori che ne fanno una zona ideale, nonostante il terreno pressoché desertico, per una serie di ragioni, a cominciare dalle caratteristiche organiche del terra stessa. Innanzitutto l’irrigazione costante, assicurata da un sistema già noto agli indios huarpe, ripresa e perfezionata dai coloni europei: ora è assicurata anche dall’invaso artificiale di Potrerillos, 12 chilometri di lunghezza per 1,5 di larghezza e 300 metri di profondità, capace di “coprire” ben cinque anni di siccità, il tutto con un’acqua di qualità eccezionale, qual è quella dei ghiacciai e nevai andini. Ultimamente, oltre al sistema tradizionale “ad allagamento”, con paratìe Bodegas Lagardemobili lungo i canali, viene usato quello computerizzato a gocciolamento con sensori di umidità, per mezzo di canaline che corrono lungo i vitigni e sgocciolatori per ogni pianta, un investimento costoso ma estremamente redditizio ed “eco-compatibile” a lungo termine. Secondo punto a favore, la diversità delle altitudini, tra i 900 e i 1800 metri, ognuna ideale per un vitigno in particolare. Il terzo, la forte escursione termica. Il caldo diurno favorisce l’accumulo di zuccheri e l’ispessimento della buccia, il freddo notturno garantisce la giusta acidità all'uva. Infine, il clima secco diminuisce l’esposizione delle viti a funghi e parassiti. La capitale, Mendoza, oltre un milione di abitanti con i suoi sobborghi, è una città elegante, vivace, ricca, ricostruita con intelligenza dopo un terremoto violentissimo che la rase al suolo nel 1861: siamo in una zona estremamente sismica. Il centro è stato spostato a Sud-Ovest rispetto alla situazione originale, il sistema urbanistico prevede vaste piazze, sempre dotate di fontane, sistemate in modo strategico, e strade ampie, in modo da poter raccogliere la popolazione in fuga dalle case, costruite in modo solido e con tutti i criteri antisismici dell’epoca di costruzione. Oltre a questo, un ulteriore polmone verde è garantito dal Parque General San Martín (el Libertador: che qui organizzò il suo esercito): 420 ettari tenuti in maniera eccezionale. Tutto ciò ne fa una città ariosa, con una bella vista sulle precordigliera e anche su alcune delle vette più alte delle Ande: l’Aconcagua, con i suoi 6962 metri la più alta cima delle Americhe non si vede, ma il vulcano Tupungato, a quota 6650 sì. Conoscevo già Mendoza, dov’ero venuto in piena estate una dozzina di anni fa, e mi era piaciuta molto: ho colto così l’occasione per fermarmi qualche giorno e approfittare di un clima più propizio per la visita delle “bodegas” di vino, escursione intrapresa quest’oggi. San Juan de Cuyo e Maipú, note anche in Europa, si trovano già a pochi chilometri dal centro: ci si arriva comodamente in bus, anche se qualche pazzo, in una giornata di “zonda” come oggi, il giro lo fa in bicicletta. Lo (o la?) zonda è simile al föhn o favonio che da entrambi i versanti delle Alpi si abbatte ad esempio su Milano o Monaco di Baviera, un vento caldo e opprimente che rincretinisce chi è particolarmente sensibile. E disidrata in maniera notevole. Qui si forma sul Pacifico, si “scalda” passando sulle cime delle Ande e scendendo sui barrancos (dirupi) e pianure mendocini e soffia in genere per una giornata. Le nuvole cariche di umidità a loro volta si raffreddano e puntualmente piove o nevica sulle cime e la notte stessa o il mattino dopo la temperatura (oggi sui 32 °C) scende di 7-8 gradi. Solo un mese fa, a primavera iniziata, in città in un caso analogo erano caduti 10 centimetri di nevem fatto del tutto eccezionale. Per il tourenologico, la mia scelta è caduta su due bodegas “industriali”, che usano tecniche e attrezzature moderne e sofisticate, e due artigianali, a conduzione famigliare, di cui una dedita a produzione esclusivamente organica. In comune i vitigni coltivati: malbec (il principe dei vini di Mendoza), merlot,cabernet sauvignon e syrah per i rossi (talvolta vinificati in bianco con metodo charmat o champenois); sauvignon e chardonnay per i bianchi. L’argentinissimo torrontés, invece,  è tipico della regione de La Rioja, dove mi riprometto di recarmi tra qualche giorno. Alle Bodegas Lagarde di San Juan (fondate nel 1897 da un ex militare portoghese e passate alla famiglia di imprenditori locali Pescarmona), dove ho anche fatto un ottimo pranzo, ho trovato un eccellente viognier bianco, da vitigno importato nel 1990 dalla Francia, zona Côtes di Rhône, di cui ignoravo l’esistenza, e che si è adattato a meraviglia qui, mentre dai Cecchin (in alto l'insegna), di cui ho avuto il piacere di conoscere l’ottuagenario Jorge in splendida forma, che col fratello Pedro ha fondato l’azienda a conduzione famigliare nel 1959 (il padre era di Castelfranco Veneto), ho trovato anche un sorprendente moscadel alexandria, con un amarognolo fondo di mandorla, e due rossi di vitigni d’origine spagnola, il graciano e il cariñán, rispettivamente della Rioja e dell’Aragona (carignano in Italia). Questa bodega è quella dedita al “full organic” e da qualche anno sono la prima in Argentina a produrre vino senza solfiti. Si usano, ma non per tutti i vini, passaggi in barriques, (in rovere francese per quelli più raffinati, o in quello più grezzo, americano) dai 3 ai sei mesi, a un anno e talvolta oltre, in percentuali variabili, dal 40 al 50%, in alcuni casi al 100%, per quelli di più alta gamma. Esistono però anche vini da taglio, sia tra diversi Zoservitigni sia tra diverse zone di produzione. Una delle due aziende industriali, la Flichman, fondata nel 1880 da una famiglia di origine russa, ora in mani portoghesi  (la SOGRAPE che produce il porto Ferriera e il Mateus) è proprietaria ad esempio di qualcosa come 600 ettari in pianura, nella  zona detta “Barrancas” e di altri 300 nella valle di Uca, a 1100, ai piedi del  vulcano Tupangato) per un totale di 17 milioni di litri all’anno. Diversificazione del “rischio” (ad esempio grandine) e della qualità: più in alto si danno vini più fruttati, in caso si fanno del “blend” con quelli di pianura, più robusti. Degustazioni a tutto spiano, a metà pomeriggio, opportunamente benzinato(cfr foto a latere), sognavo soltanto un letto ma una provvidenziale visita a un oleificio fondato nel 1906 (dieci ettari, magnifici olivi d’epoca), con tanto di assaggio di extravergine su pane casereccio e con pomodori secchi mi ha rimesso in sesto, pronto alla visita finale a un’altra azienda famigliare, quella di Don Arturo, con una rispettabile produzione di 1.750.000 bottiglie l’anno (meno di un decimo della Flichman, per intenderci) che si concentra sul consueto poker di rossi: malbec, merlot, cabernet e syrah, di cui il 90% si vende in loco e il 10% viene esportato direttamente negli USA. Che dire, signori: salut e buona domenica!

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