mercoledì 26 febbraio 2025

Amadeus


"Amadeus" di Peter Schaffer, uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Con Ferdinando Bruni, Daniele Fedeli, Valeria Andreanò, Riccardo Buffonini, Matteo de Mojana, Alessandro Lussiana, Ginestra Paladino, Umberto Petranca, Luca Torraca. Luci Michele Ceglia; suono Gianfranco Turco; assistente ai costumi Elena Rossi; assistente alla regia Giorgia Bolognani; realizzazione costumi Elena Rossi, Alessia Lattanzio, Monica Fedora Colombo, Grazie Ieva; realizzazione scene Marina Conti, Giancarlo Centola, Tommaso Serra. Produzione Teatro dell'Elfo con il contributo di NEXT, Laboratorio delle idee per la Produzione e la programmazione dello spettacolo lombardo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano, fino al 2 marzo

Erano più di due anni che, per causa di forza maggiore, non assistevo a uno spettacolo dell'Elfo, e ne sentivo fortemente la mancanza: mi sono rifatto domenica scorsa con Amadeus di Peter Schaffer, da cui 40 anni fa Miloš Forman aveva tratto l'omonimo film che ai tempi aveva conquistato qualcosa come 5 Oscar: un successo planetario. Rigorosamente aderente al testo, di cui Ferdinando Bruni ha curato la traduzione, oltre a essere mattatore assoluto dello spettacolo nella parte di Antonio Salieri, voce narrante, che in punto di morte racconta la sua versione dei fatti dei rapporti con Mozart, millantando il "merito" della morte in disgrazia a soli 35 anni, 33 prima di quella del suo presunto "assassino", che ha goduto sì di fama durante la sua lunga vita (questo il suo "patto con Dio, stretto nella natìa Legnago, nel Veronese, per diventare, nella sua lunga carriera, Maestro di Cappella e compositore di corte degli Asburgo a Vienna) ma non la fama imperitura, arrisa invece al suo più giovane e ben più geniale rivale. Sempre che di rivalità si possa parlare tra due persone divise da un abisso caratteriale e soprattutto, di talento. E' dunque Salieri/Bruni a dialogare col pubblico fin dalla prima scena in cui, ridotto in carrozzella, gli chiede provocatoriamente se sia vera o falsa, come sostengono i "venticelli", che sia stato lui ad avvelenare il salisburghese, autentica e inarrivabile rock star dell'epoca: rotto il patto con Dio, che gli ha sì dato successo e notorietà ma presentato il conto preferendogli un avversario imbattibile sul piano musicale, quello a cui Salieri teneva, e che gli ha fatto bere l'amaro calice di vedere svanire la propria fama e quella delle sue opere molto accademiche ancora in vita mentre cresceva a esponenzialmente quella di Mozart, soprattutto dopo la sua tragica scomparsa in miseria fino all'immortalità: piuttosto che andarsene nell'anonimato, è Salieri stesso ad avvalorare la voce di esserne stato l'assassino, a costo di passare per un infame e un malvagio. Parte ardua, quella di Salieri, pienamente nelle corde di Bruni, capace di passare da un registro di voce all'altro con una facilità impressionante (da sempre il cofondatore dell'Elfo assieme a Gabriele Salvatores cura in modo particolare l'aspetto vocale) così come nell'espressione e nella postura, senza perdere mai misura e compostezza; così come non era facile quella del giovane Daniele Fedeli in quella del capriccioso, irriverente, infantile, a tratti ingenuo ex bambino prodigio Wolgang Ama-Deus (un nome che per Salieri suona come un tradimento): inevitabile il raffronto, per chi ne conserva il ricordo, con la esplosiva e perfino esagerata vitalità, a tratti buffonesca, di Tom Hulce nel film di Forman, ma assolutamente nella parte, così come l'ancor più giovane Valeria Andreanò, solo ventiduenne, in quella di Costanze Weber, la moglie del genio che ha rivoluzionato la musica, in cui gli "Elfi" hanno, probabilmente a ragione, intravisto una sicura promessa del palcoscenico, e all'altezza tutti gli altri interpreti. Suoni e luci da manuale, costumi impeccabili e una scena essenziale quanto funzionale, usuali punti di forza della compagnia milanese, completano e assicurano il successo di uno spettacolo divertente quanto istruttivo, incentrato sul rapporto tra la mediocrità di massa, e dunque collettiva, con la solitudine del genio, che vive in un mondo a sé stante, quasi incapace di comprendere l'umanità che lo circonda ed entrare in rapporto con essa, in un corto circuito reciproco. Spettacolo in prima nazionale, l'augurio è che vada presto in tournée attraverso la Penisola!

martedì 18 febbraio 2025

Io sono ancora qui

"Io sono ancora qui" (Ainda estou aquí) di Walter Salles. Con Fernanda Torres, Selton Mello, Valentina Herszage, Maria Manuella, Bárbara Luz, Fernanda Montenegro, Maeve Jinkings, Humberto Carrão e altri. Brasile, Francia 2024 ★★★★★

Ci tenevo molto a vedere l'ultimo lavoro di Walter Salles, famoso qui in Italia per Central do Brasil, il suo primo film del 1998 (la cui protagonista, Fernanda Montenegro, è qui in un cameo come Eunice Facciolla da vecchia), City of God e I diari della motocicletta, sul viaggio latinoamericano su due ruote di Che Guevara da giovane. Presentato in anteprima a settembre all'81ª mostra del Cinema di Venezia, è certamente il suo film più personale, avendo conosciuto e frequentato la famiglia Paiva da giovane, rifacendosi quindi ai suoi stessi ricordi nonché a quelli del suo quasi coetaneo e amico Marcelo Paiva, ché è anche da un suo libro autobiografico che è tratto il lungometraggio. E' la storia della resistenza, innanzitutto morale, di una donna, Eunice Facciolla, madre di cinque figli e moglie dell'ex deputato trabalhista Rubens Paiva, ingegnere, la cui attività politica era stata interrotta dal golpe del 1964: la prima di una lunga serie di dittature nel Continente Desaparecido, come lo chiamava Gianni Minà, uno dei pochi giornalisti italiani (con Giangiacomo Foà e Italo Moretti), che se ne occupavano con competenza, nel pressoché totale disinteresse del nostro Paese, benché abitato da decine di milioni di discendenti di italiani. Pochi qui da noi se lo ricordano, ma la dittatura dei Gorilas durò ben 21 anni, come il fascismo da noi. Paiva padre venne arrestato nella sua casa e portato in caserma nel 1971, ma non se ne seppe più nulla ed Eunice (che nel frattempo per ottenere giustizia si sarà laureata in giurisprudenza) solo 25 anni più tardi, grazie alla Legge degli Scomparsi, potrà dichiararsi vedova perché lo Stato ha riconosciuto le responsabilità dell'esercito. E' la vicenda di questa donna e della sua famiglia che viene raccontata, e Salles lo fa con cognizione di causa, rendendo con le sue immagini perfettamente il clima della Rio de Janeiro degli anni Settanta, in un Brasile in pieno boom economico nonostante la dittatura militare: un Paese frizzante, vivace, con una gioventù ribelle molto simile a quella europea e statunitense. La preoccupazione dei Paiva è semmai per l'esuberanza della figlia maggiore Veronica, detta Veroca, che filma le vicende con la sua telecamera Super8: simpatizzante del movimento studentesco, viene per precauzione spedita a Londra presso amici, invece la vita di questa famiglia benestante, progressista e colta viene minata dal sequestro, a casa sua, di fronte alla spiaggia di Leblon, la più bella e suggestiva della Cidade Maravilhosa, di Paiva padre, di cui non si saprà più nulla, come detto, per 15 anni. Anche Eunice, inizialmente, verrà portata in una caserma dell'esercito e trattenuta per una settimana, e lì vedrà coi suoi occhi, senza poterlo provare, l'automobile del marito. Il film racconta la grande forza morale di questa donna, che invece di piangere sorride, si reinventa, cresce i suoi figli dando loro sicurezza, affetto e proteggendoli per quanto possibile; racconta efficacemente la cerchia degli amici, intellettuali che si oppongono per quanto possibile della dittatura, che li perseguita come possibili complici della lotta armata: sono state decine di migliaia gli esuli, all'estero (un caso per tutti: Chico Buarque de Hollanda proprio da noi in Italia) e in patria (Paratí, una delle più belle e note cittadine coloniali brasiliane, era stata di fatto per un ventennio una sorta di enclave per dissidenti, gente di cultura e professionisti, che il regime non poteva permettersi di eliminare, ma isolare e rendere innocui sì). Dopo la sparizione di Rubens Paiva la famiglia si trasferirà a San Paolo, Veroca tornerà in patria, Marcelo subirà un incidente (raccontato nel suo libro d'esordio, Benvenuto anno vecchio, di travolgente successo e che ai tempi mi aveva colpito molto: mi rendo conto solo sul finire del film che si tratta di lui) che lo lascerà tetraplegico ma attivo come scrittore, giornalista e sceneggiatore. La vera protagonista però è la madre, Eunice, una grandissima Fernanda Torres, così come un più che credibile Selton Mello rende perfettamente, anche per la somiglianza, l'indole e il carattere di Rubens Paiva. Dopo tanto lottare, Eunice, significativamente, verrà colpita dal morbo di Alzheimer: forse l'unico modo che aveva per dimenticare un così grande dolore affrontato con un coraggio da leonessa. Sarà anche un film generazionale, che un boomer come me non poteva perdere, ma lo ritengo necessario per non dimenticare. Sincero, senza smancerie, senza mai cadere nel mélo, ma che punta dritto al cuore, perché sincero, umano e vero. 

sabato 8 febbraio 2025

L'abbaglio

"L'abbaglio" di Roberto Andò. Con Toni Servillo, Salvo Ficarra, Valentino Picone, Tommaso Ragno, Giulia Andò, Leonardo Maltese, Clara Ponsot, Pascal Greggory, Giulia Lazzarini, Vincenzo Pirrotta e altri. Italia 2025 ★★★★

Altro bel lavoro, da non perdere, di Roberto Andò, che ha la rara virtù di girare film in cui fatti reali ed elementi di fantasia si fondono, per rendere più concreta e viva la ricostruzione storica di un avvenimento. Per certi versi sembra che faccia da controcampo a Mario Martone, che in Noi credevamo, uscito già 15 anni fa, aveva raccontato dell’adesione alla Giovine Italia di un terzetto di giovani mazziniani pugliesi. Tra l’altro, anche lì era presente Toni Servillo, proprio nei panni del rivoluzionario repubblicano; i due registi sembrano pure dialogare, sempre per interposto Servillo, attraverso La stranezza e Qui rido io, parlando invece di teatro, e in entrambi i casi il risultato è istruttivo e gradevole: per quanto mi riguarda, trovo l’approccio del siciliano Andò più lieve di quello del napoletano Martone ma è, va da sé, questione di gusti. Qui si racconta niente di meno che dell’Impresa dei Mille, che propiziò l’unità d’Italia, fin dal momento dell’arruolamento dei volontari in quel di Quarto di Genova, di cui Garibaldi (Tommaso Ragno) ha incaricato il fidato colonnello Vincenzo Orsini (Servillo), già ufficiale borbonico, passato dopo i moti del 1848 “dalla parte giusta”, assistito dal tenente Ragusin (Maltese), entusiasta quanto ingenuo. Non si guarda troppo per il sottile, per cui tra una maggioranza di settentrionali e toscani vengono imbarcati anche due siciliani, Domenico (Ficarra), un esperto i fuochi d’artificio rimasto storpio e Rosario (Picone), che millanta un titolo nobiliare e un passato all’accademia militare ed è in realtà un impostore e un baro che scappa dal Nord dove si era trasferito, assumendo un’improbabile cadenza veneta, per sfuggire alla vendetta dei “grulli” che aveva spennato a carte. Una volta sbarcati in Sicilia, durante la battaglia di Marsala i due si dileguano, il primo per raggiungere la ragazza che aveva promesso di sposare e il secondo la natìa Palermo, e finiscono per imboscarsi in un convento di suore, dove fanno conoscenza con la vispa e opportunista Assuntina (Giulia Andò), che incontreranno nuovamente nel prosieguo dello loro avventure isolane dopo che verranno scoperti e arrestati come disertori dalle Camicie Rosse, ormai giunte, di battaglia in battaglia, alle porte di Palermo. Si riscattano, però, spacciandosi per parroco e sindaco, ché se manca loro il coraggio non difettano di astuzia, bloccando i borbonici venuti a mettere a ferro e fuoco l’ennesimo paese di “collaborazionisti”, ché il popolo, a differenza di preti, agrari e maggiorenti, stava dalla parte dei garibaldini. Verranno trascinati via dall’esercito regolare dopo essersi offerti come ostaggi per rendere credibile l’affermazione che Garibaldi era ormai entrato a Palermo e dunque la loro rappresaglia sarebbe stata inutile, ed è l’ultima volta che Orsini li vedrà. Vent’anni dopo il Colonnello, ormai generale in pensione, dopo averli cercati invano per ricompensare il loro atto di “eroismo”, li ritroverà, sotto ben altre vesti e in un diverso contesto, sempre a Palermo, assieme ad Assuntina: perché in Italia, ma in Sicilia per definizione, tutto cambia per non cambiare mai. Andò racconta con sufficiente correttezza e linearità l’impresa militare infarcendola con le vicende personali e tragicomiche dei due disgraziati, attraverso le quali si esprime molto bene il punto di vista popolare di tutta la questione, sui cui risultati, un “abbaglio”, appunto, vale la pena riflettere ancora oggi. Film scorrevole e piacevole, dunque, e la riprova che il terzetto di interpreti già visto all’opera nel precedente La stranezza funziona.