"Un affare di famiglia" (Shoplifters) di Kore'eda Hirozaku. Con Lily Franky, Sakura Andô, Mayu Matsuoka, Kirin Kiki, Jyo Kairi, Miyu Sasaki e altri. Giappone 2018 ★★★★½
Il titolo internazionale dell'ultimo film di Kore'eda Hirozaku, giustamente premiato con la Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes, Shoplifters, andrebbe tradotto come Taccheggiatori; in italiano, tanto per essere originali, si è scelto Un affare di famiglia che, per rendere davvero l'idea, andrebbe parafrasato e ribaltato: La famiglia è un affare? Sono i rapporti umani elettivi, a essere importanti, molto più di quelli di sangue, e a essere al centro dell'interesse del regista giapponese, a mio parere il migliore tra quelli in attività di un Paese dalla grande tradizione cinematografica, così come lo era stato nei suoi lavori più recenti, assieme al racconto di quel Giappone marginale che raramente filtra nelle cronache. Siamo sempre a Tokyo, città di nascita del regista, ma lontano dai rutilanti quartieri centrali e commerciali o dal Giappone idealizzato delle riviste di architettura e arredo chic o dei dépliant turistici, in una sorta di casetta da giardino sopravvissuta in uno spazio verde di un moderno condominio residenziale in una zona semiperiferica e popolare della capitale, adibita ad abitazione e rifugio per una sorta di comune la cui principale e più sicura fonte di reddito è costituita dalla pensione di reversibilità della "nonna" (Kirin Kiki, che la interpreta, e che aveva recitato anche negli altri dei più recenti film di Hirozaku, si è spenta proprio tre giorni fa), che provvede ad arrotondarli col danaro che periodicamente estorce a un suo figlio altolocato, e dai proventi delle attività precarie di una coppia, Nobuko e Osamu, e della loro "figlia" adolescente, una bella studentessa che si esibisce part-time in peep-show, e dai furtarelli cui collaborano Shota, un ragazzino che trovato abbandonato in un'auto in una zona di sale slot, e l'ultima arrivata, Juri, una bambina di cinque anni denutrita, trascurata e maltrattata dai veri genitori: solo quando questi ultimi ne denunceranno tardivamente la scomparsa, scatenando l'interesse della stampa e delle televisioni, verranno alla luce i veri rapporti che intercorrono in questa comunità che basta a sé stessa e che viene ritratta nel suo ambito, quasi sempre in interni, in spazi ristretti e caotici dove la privacy sembra impossibile ma ognuno ricava un suo spazio e viene rispettato, ma soprattutto dove si respira affetto, confidenza, comprensione e solidarietà. La famiglia non si sceglie (purtroppo) ma gli affetti sì, e solo attraverso questi si trasmettono conoscenze e insegnamenti che hanno un contenuto etico, al di là delle apparenze, questa la morale di un film in due atti: quella del ritratto della vita e della vicende quotidiane di questa famiglia di fatto, e quella vista con gli occhi dell'informazione sensazionalistica e quelli burocratici delle indagini di polizia sulla vicenda. Una storia esemplare, raccontata in modo altrettanto esemplare, con una regia raffinata quanto coinvolgente e delle interpretazioni di grande spessore e credibilità da parte di tutti gli attori coinvolti. Evviva!
Il titolo internazionale dell'ultimo film di Kore'eda Hirozaku, giustamente premiato con la Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes, Shoplifters, andrebbe tradotto come Taccheggiatori; in italiano, tanto per essere originali, si è scelto Un affare di famiglia che, per rendere davvero l'idea, andrebbe parafrasato e ribaltato: La famiglia è un affare? Sono i rapporti umani elettivi, a essere importanti, molto più di quelli di sangue, e a essere al centro dell'interesse del regista giapponese, a mio parere il migliore tra quelli in attività di un Paese dalla grande tradizione cinematografica, così come lo era stato nei suoi lavori più recenti, assieme al racconto di quel Giappone marginale che raramente filtra nelle cronache. Siamo sempre a Tokyo, città di nascita del regista, ma lontano dai rutilanti quartieri centrali e commerciali o dal Giappone idealizzato delle riviste di architettura e arredo chic o dei dépliant turistici, in una sorta di casetta da giardino sopravvissuta in uno spazio verde di un moderno condominio residenziale in una zona semiperiferica e popolare della capitale, adibita ad abitazione e rifugio per una sorta di comune la cui principale e più sicura fonte di reddito è costituita dalla pensione di reversibilità della "nonna" (Kirin Kiki, che la interpreta, e che aveva recitato anche negli altri dei più recenti film di Hirozaku, si è spenta proprio tre giorni fa), che provvede ad arrotondarli col danaro che periodicamente estorce a un suo figlio altolocato, e dai proventi delle attività precarie di una coppia, Nobuko e Osamu, e della loro "figlia" adolescente, una bella studentessa che si esibisce part-time in peep-show, e dai furtarelli cui collaborano Shota, un ragazzino che trovato abbandonato in un'auto in una zona di sale slot, e l'ultima arrivata, Juri, una bambina di cinque anni denutrita, trascurata e maltrattata dai veri genitori: solo quando questi ultimi ne denunceranno tardivamente la scomparsa, scatenando l'interesse della stampa e delle televisioni, verranno alla luce i veri rapporti che intercorrono in questa comunità che basta a sé stessa e che viene ritratta nel suo ambito, quasi sempre in interni, in spazi ristretti e caotici dove la privacy sembra impossibile ma ognuno ricava un suo spazio e viene rispettato, ma soprattutto dove si respira affetto, confidenza, comprensione e solidarietà. La famiglia non si sceglie (purtroppo) ma gli affetti sì, e solo attraverso questi si trasmettono conoscenze e insegnamenti che hanno un contenuto etico, al di là delle apparenze, questa la morale di un film in due atti: quella del ritratto della vita e della vicende quotidiane di questa famiglia di fatto, e quella vista con gli occhi dell'informazione sensazionalistica e quelli burocratici delle indagini di polizia sulla vicenda. Una storia esemplare, raccontata in modo altrettanto esemplare, con una regia raffinata quanto coinvolgente e delle interpretazioni di grande spessore e credibilità da parte di tutti gli attori coinvolti. Evviva!
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