"Sulla mia pelle" di Alessio Cremonini. Con Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Max Tortora, Milvia Marigliano, Andrea Lattanzi e altri. Italia 2018 ★★★★
Un film non solo necessario (perché talvolta, come ha scritto qualcuno, dove non arriva lo Stato, arriva il cinema) ma pure bello. Rigoroso, ben girato, basato sui documenti ufficiali relativi alla tragica vicenda di Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre del 2009 per possesso di modeste quantità di stupefacenti e deceduto dopo una settimana di detenzione in custodia cautelare, tra celle di sicurezza, carcere di Regina Coeli e ospedale Sandro Pertini, a Roma, per le evidenti conseguenze di un pestaggio nonché in condizioni di grave denutrizione. Il pregio maggiore del film, al di là delle eccellenti interpretazioni, e quella di Alessandro Borghi nel ruolo dello sventurato ragazzo memorabile, anche perché non mira a rendere il personaggio suscettibile di empatia a priori da parte dello spettatore, è la sua obiettività, non cedendo ad alcun tentativo di santificare l'immagine della vittima e lasciando parlare la sequenza dei fatti senza dover ricorrere ad alcuna scena di violenza: a parlare sono il volto tumefatto di Cucchi, che abbiamo visto centinaia di volte sui giornali e in televisione, grazie alla battaglia condotta per accertare le responsabilità del suo decesso dalla famiglia e in particolare dalla sorella Ilaria; il suo progressivo indebolimento, la difficoltà a muoversi e a parlare già evidenti nella prima udienza del processo per direttissima, il giorno successivo all'arresto, dove la cosa che più colpisce è il menefreghismo del giudice e del PM, che fissano le carte senza nemmeno guardare negli occhi l'accusato e ascoltandolo distrattamente, senza fare una piega sul suo evidente stato di prostrazione, e a poco serve che qualcuno li giustifichi perché è stato il ragazzo stesso ad affermare di essersi procurato le ecchimosi cadendo dalle scale o che si trattava di un tossico (peraltro ex da qualche tempo, dopo un soggiorno nella comunità di San Patrignano) e sempre lui a rifiutare le cure; lo stesso vale per i carabinieri che hanno proceduto all'arresto e poi lo avevano in custodia e agli agenti di polizia penitenziaria, sempre pronti a coprire i colleghi che a tutta evidenza avevano infierito su di lui oppure, all'occorrenza, nascondendosi dietro cavilli burocratici (la famiglia è riuscita a vedere Stefano soltanto dopo una settimana, all'obitorio). A parte quelle di qualche infermiere, o di altri detenuti nella camere vicine, con cui Stefano a fatica conversava, nessuna parola di conforto: è l'indifferenza a colpire di più, mentre le immagini del corpo sempre più martoriato e sofferente rimarranno a lungo nel ricordo. Non era un santo, Stefano Cucchi, e ne era consapevole, com'era consapevole che accusare senza prove i tutori della legge, in Italia ma non solo, è controproducente, e ciò che voleva evitare era che gli inquirenti trovassero un rilevante quantitativo di hascisc e cocaina in un'abitazione di proprietà della famiglia che aveva a disposizione e lo accusassero di spaccio (peraltro, quando successivamente il famigliari lo rinvennero, consegnarono immediatamente la droga all'autorità giudiziaria) e, come chiunque nelle sue condizioni, sicuramente metteva anche in conto un paio di ceffoni durante un interrogatorio, ma da qui a infierire sadicamente su una persona che si ha in custodia, e di cui si è doppiamente responsabili, ce ne passa: morire così è inaccettabile, ancor più inaccettabile che cose simili (e se ne contano a decine ogni anno) continuino ad accadere dopo quanto successo (a raccontato anche al cinema) alla scuola Diaz a Genova nel 2001 e poi a Bolzaneto; che i procedimenti a carico dei responsabili si rivelino quasi sempre delle farse e che nessuno nelle alte sfere abbia mai pensato di dare una seria ripulita ai vertici delle forze dell'ordine richiamandoli ai principi di umanità oltre che di democrazia: perché comunque il pesce comincia a puzzare sempre dalla testa.
Un film non solo necessario (perché talvolta, come ha scritto qualcuno, dove non arriva lo Stato, arriva il cinema) ma pure bello. Rigoroso, ben girato, basato sui documenti ufficiali relativi alla tragica vicenda di Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre del 2009 per possesso di modeste quantità di stupefacenti e deceduto dopo una settimana di detenzione in custodia cautelare, tra celle di sicurezza, carcere di Regina Coeli e ospedale Sandro Pertini, a Roma, per le evidenti conseguenze di un pestaggio nonché in condizioni di grave denutrizione. Il pregio maggiore del film, al di là delle eccellenti interpretazioni, e quella di Alessandro Borghi nel ruolo dello sventurato ragazzo memorabile, anche perché non mira a rendere il personaggio suscettibile di empatia a priori da parte dello spettatore, è la sua obiettività, non cedendo ad alcun tentativo di santificare l'immagine della vittima e lasciando parlare la sequenza dei fatti senza dover ricorrere ad alcuna scena di violenza: a parlare sono il volto tumefatto di Cucchi, che abbiamo visto centinaia di volte sui giornali e in televisione, grazie alla battaglia condotta per accertare le responsabilità del suo decesso dalla famiglia e in particolare dalla sorella Ilaria; il suo progressivo indebolimento, la difficoltà a muoversi e a parlare già evidenti nella prima udienza del processo per direttissima, il giorno successivo all'arresto, dove la cosa che più colpisce è il menefreghismo del giudice e del PM, che fissano le carte senza nemmeno guardare negli occhi l'accusato e ascoltandolo distrattamente, senza fare una piega sul suo evidente stato di prostrazione, e a poco serve che qualcuno li giustifichi perché è stato il ragazzo stesso ad affermare di essersi procurato le ecchimosi cadendo dalle scale o che si trattava di un tossico (peraltro ex da qualche tempo, dopo un soggiorno nella comunità di San Patrignano) e sempre lui a rifiutare le cure; lo stesso vale per i carabinieri che hanno proceduto all'arresto e poi lo avevano in custodia e agli agenti di polizia penitenziaria, sempre pronti a coprire i colleghi che a tutta evidenza avevano infierito su di lui oppure, all'occorrenza, nascondendosi dietro cavilli burocratici (la famiglia è riuscita a vedere Stefano soltanto dopo una settimana, all'obitorio). A parte quelle di qualche infermiere, o di altri detenuti nella camere vicine, con cui Stefano a fatica conversava, nessuna parola di conforto: è l'indifferenza a colpire di più, mentre le immagini del corpo sempre più martoriato e sofferente rimarranno a lungo nel ricordo. Non era un santo, Stefano Cucchi, e ne era consapevole, com'era consapevole che accusare senza prove i tutori della legge, in Italia ma non solo, è controproducente, e ciò che voleva evitare era che gli inquirenti trovassero un rilevante quantitativo di hascisc e cocaina in un'abitazione di proprietà della famiglia che aveva a disposizione e lo accusassero di spaccio (peraltro, quando successivamente il famigliari lo rinvennero, consegnarono immediatamente la droga all'autorità giudiziaria) e, come chiunque nelle sue condizioni, sicuramente metteva anche in conto un paio di ceffoni durante un interrogatorio, ma da qui a infierire sadicamente su una persona che si ha in custodia, e di cui si è doppiamente responsabili, ce ne passa: morire così è inaccettabile, ancor più inaccettabile che cose simili (e se ne contano a decine ogni anno) continuino ad accadere dopo quanto successo (a raccontato anche al cinema) alla scuola Diaz a Genova nel 2001 e poi a Bolzaneto; che i procedimenti a carico dei responsabili si rivelino quasi sempre delle farse e che nessuno nelle alte sfere abbia mai pensato di dare una seria ripulita ai vertici delle forze dell'ordine richiamandoli ai principi di umanità oltre che di democrazia: perché comunque il pesce comincia a puzzare sempre dalla testa.
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