"Mia madre" di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, Nanni Moretti, Giulia Lazzarini, John Turturro, Beatrice Mancini e altri. Italia, Francia, Germania 2015 ★★★★★
Come mi aspettavo, con "Mia madre" Nanni Moretti ha fatto centro un'altra volta, forse più di ogni altra volta. Ammetto di non essere imparziale, riguardo a un suo film, né voglio esserlo, perché sono suo coetaneo e provengo da un ambiente famigliare e culturale assai simile al suo, per cui non ho mai fatto fatica, in quasi quarant'anni in cui lo frequento cinematograficamente, da "Ecce Bombo" del 1978 a oggi, a riconoscermi e immedesimarmi in quanto ha raccontato nelle sue pellicole. Tutte ricche di senso, ironia, domande, intuizioni. Mai facili, spesso paradossali, molto particolari, che possono piacere o respingere, un po' come l'umorismo surreale tipicamente milanese dei Viola, dei Jannacci, di Cochi e Renato, ma sempre piene di intelligenza e riflessioni mai banali. In questo film, più che in altri, Moretti affronta sé stesso, o meglio il proprio senso di inadeguatezza, che ha sempre portato con sé, e lo fa attraverso un personaggio femminile che funge da suo alter ego, una regista "stronza", interpretata da una bravissima e intensa Margherita Buy, che sta girando un film "politico" che racconta la storia della crisi di una azienda italiana passata in mano statunitense e della lotta dei lavoratori per conservare il loro posto, e al contempo è alle prese con le sue vicende private, tra cui la rottura del rapporto sentimentale con un suo attore, le crisi adolescenziali della figlia nata da un precedente matrimonio la quale non vuole più frequentare il liceo classico, una tradizione di famiglia ereditata dalla nonna materna, la grandissima Giulia Lazzarini, ex professoressa di greco e latino al liceo e ora costretta in un letto d'ospedale della capitale per le complicazioni cardiache dovute a una polmonite che la condurranno pian pian alla morte (come la madre dello stesso Moretti, mentre stava girando "Habemus Papam", cinque anni fa). Tutta la parte "pubblica" del film nel film è, non a caso, apertamente posticcia e cialtronesca (l'emblema è il disastroso attore italoamericano che interpreta il nuovo padrone della fabbrica, l'istrionico e perfetto John Turturro): nessuno sembra credere, e la regista (che di nome fa Margherita) per prima, alla possibilità di raccontare attraverso di esso la realtà sociale sottostante, mentre estremamente vera, e non semplicemente "realistica", è la parte "privata", che si svolge prevalentemente nelle stanze d'ospedale in cui è ricoverata la madre, accudita con amore, disponibilità e molto buon senso dal fratello Giovanni (Moretti), un ingegnere che non si è accontentato di prendere un periodo di aspettativa per assisterla ma arriva a licenziarsi, a sessant'anni, da un posto fisso pur di poterlo fare, e non per eroismo, ma serenamente, perché ritiene che sia necessario e, nella situazione, la cosa più importante, senza tante spiegazioni. E', come tutti i film di Moretti, a più strati, pieno di umanità come di autoironia e capacità di non prendersi troppo sul serio pur parlando di cose serissime, in cui la stessa morte non è mai affrontata in maniera pietistica, lontano anni luce dal buonismo veltroniano (prima della proiezione di "Mia madre" scorreva sullo schermo il trailer de I bambini sanno, l'ultima fatica cinematografica dell'ex segretario comunistiano, e il contrasto non poteva essere più eclatante). Auguro di cuore che a Cannes il regista e gli interpreti di "Mia madre" vengano premiati come meritano e non ho grossi dubbi che in Francia il film venga apprezzato più che da noi, specialmente dalla critica "professionista". Da parte mia, condivido la recensione che ne ha fatto un "dilettante" come me, Marco Travaglio, qualche giorno fa sul Fatto Quotidiano. Ancora una volta, grazie, Nanni.
Come mi aspettavo, con "Mia madre" Nanni Moretti ha fatto centro un'altra volta, forse più di ogni altra volta. Ammetto di non essere imparziale, riguardo a un suo film, né voglio esserlo, perché sono suo coetaneo e provengo da un ambiente famigliare e culturale assai simile al suo, per cui non ho mai fatto fatica, in quasi quarant'anni in cui lo frequento cinematograficamente, da "Ecce Bombo" del 1978 a oggi, a riconoscermi e immedesimarmi in quanto ha raccontato nelle sue pellicole. Tutte ricche di senso, ironia, domande, intuizioni. Mai facili, spesso paradossali, molto particolari, che possono piacere o respingere, un po' come l'umorismo surreale tipicamente milanese dei Viola, dei Jannacci, di Cochi e Renato, ma sempre piene di intelligenza e riflessioni mai banali. In questo film, più che in altri, Moretti affronta sé stesso, o meglio il proprio senso di inadeguatezza, che ha sempre portato con sé, e lo fa attraverso un personaggio femminile che funge da suo alter ego, una regista "stronza", interpretata da una bravissima e intensa Margherita Buy, che sta girando un film "politico" che racconta la storia della crisi di una azienda italiana passata in mano statunitense e della lotta dei lavoratori per conservare il loro posto, e al contempo è alle prese con le sue vicende private, tra cui la rottura del rapporto sentimentale con un suo attore, le crisi adolescenziali della figlia nata da un precedente matrimonio la quale non vuole più frequentare il liceo classico, una tradizione di famiglia ereditata dalla nonna materna, la grandissima Giulia Lazzarini, ex professoressa di greco e latino al liceo e ora costretta in un letto d'ospedale della capitale per le complicazioni cardiache dovute a una polmonite che la condurranno pian pian alla morte (come la madre dello stesso Moretti, mentre stava girando "Habemus Papam", cinque anni fa). Tutta la parte "pubblica" del film nel film è, non a caso, apertamente posticcia e cialtronesca (l'emblema è il disastroso attore italoamericano che interpreta il nuovo padrone della fabbrica, l'istrionico e perfetto John Turturro): nessuno sembra credere, e la regista (che di nome fa Margherita) per prima, alla possibilità di raccontare attraverso di esso la realtà sociale sottostante, mentre estremamente vera, e non semplicemente "realistica", è la parte "privata", che si svolge prevalentemente nelle stanze d'ospedale in cui è ricoverata la madre, accudita con amore, disponibilità e molto buon senso dal fratello Giovanni (Moretti), un ingegnere che non si è accontentato di prendere un periodo di aspettativa per assisterla ma arriva a licenziarsi, a sessant'anni, da un posto fisso pur di poterlo fare, e non per eroismo, ma serenamente, perché ritiene che sia necessario e, nella situazione, la cosa più importante, senza tante spiegazioni. E', come tutti i film di Moretti, a più strati, pieno di umanità come di autoironia e capacità di non prendersi troppo sul serio pur parlando di cose serissime, in cui la stessa morte non è mai affrontata in maniera pietistica, lontano anni luce dal buonismo veltroniano (prima della proiezione di "Mia madre" scorreva sullo schermo il trailer de I bambini sanno, l'ultima fatica cinematografica dell'ex segretario comunistiano, e il contrasto non poteva essere più eclatante). Auguro di cuore che a Cannes il regista e gli interpreti di "Mia madre" vengano premiati come meritano e non ho grossi dubbi che in Francia il film venga apprezzato più che da noi, specialmente dalla critica "professionista". Da parte mia, condivido la recensione che ne ha fatto un "dilettante" come me, Marco Travaglio, qualche giorno fa sul Fatto Quotidiano. Ancora una volta, grazie, Nanni.
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