"Figlio di nessuno" (Ničije Dete) di Vuk Ršumović. Con Denis Murić, Miloš Timotijević, Pavle Čemerikić, Isidora Janković, Igor Borojević e altri. Serbia 2014 ★★★★
Vincitore del premio del pubblico alla "Settimana della critica" e di quello FIPRESCI (la Federazione internazionale della critica cinematografica) all'ultimo Festival del Cinema di Venezia, questo notevole film fatto con pochi mezzi ma grande rigore, tanto formale quanto morale, attenzione e una scelta estremamente attenta dii interpreti dalla straordinaria efficacia espressiva (e bravura), circola da una settimana nelle circuito d'essai, e ho avuto la fortuna di apprezzarlo in lingua originale, sottotitolato, al benemerito Cinema dei Fabbri di Trieste, specializzato in "chicche" e con un'attenzione particolare a ciò che viene dai confini orientali. La vicenda, ispirata a fatti reali, ma che si rifà anche a "Il ragazzo selvaggio" di Truffaut, racconta del ritrovamento, durante una battuta di caccia nei boschi della Bosnia nel 1988, di un ragazzo dall'età indefinita e di cui si ignorano le origini, abbandonato e cresciuto in mezzo a un branco di lupi, da cui è stato "allevato" e di cui ha assunto modi, movenze, abitudini. E perfino linguaggio. Chiamato "Haris" al momento di dargli una identità burocratica, portato in un orfanotrofio di Belgrado, si dispera di un suo recupero alla dimensione umana, ma da un lato l'amicizia con un ragazzo di poco più grande, Zika, e dall'altro l'intuito e la perseveranza di uno degli istruttori, che veramente ha a cuore il futuro dei ragazzi, man mano lo sottraggono allo stato animale portandolo, con infinita pazienza, a una condizione umana, e soprattutto alla possibilità d esprimersi seppure con molte difficoltà. E' stupefacente la bravura del protagonista, Denis Murić, che riesce a rendere con naturalezza l'evoluzione del ragazzino, dal suo ingresso nella sordida realtà dell'istituto, all'avventurosa scoperta delle strade vicine di una Belgrado degradata e sull'orlo del conflitto imminente e del "mondo reale". Il paradosso è che il processo di "umanizzazione" e formazione "identitaria" di Haris procede di pari passo con la triste, tragica disgregazione dell'identità jugoslava e con quella della Federazione, e il ragazzo si scopre bosniaco proprio dopo lo scoppio del conflitto, nel 1991, e l'arrivo di profughi serbo-bosniaci nell'istituto i quali lo apostrofano come "musulmano" (termine che nella Belgrado prima del conflitto non aveva alcun significato negativo) e viene pertanto forzatamente "evacuato" (ossia rispedito) a Travnik, dove si troverà coinvolto direttamente in un conflitto che gli è del tutto estraneo, e che in questo quadro evidenzia tutta la sua follia, inglobato in una milizia bosniaco-musulmana. Il film si chiude in un bosco simile, e forse uguale a quello dell'inquadratura iniziale, col ragazzo che si cava le scarpe (che nel suo processo di "civilizzazione" aveva fatto così tanta fatica ad accettare) sotto gli occhi attenti di un bellissimo lupo, che osserva la scena per allontanarsi, a scanso di equivoci, dalla demenza umana. Un film perfettamente lineare, chiaro, che comunica ciò che ha da dire con immagini, parole e ambientazione di un realismo che non ha bisogno di fronzoli, psicologismi, pietismi e, meno ancora, effetti speciali. A mio avviso, esemplare per chiarezza e onestà.
Vincitore del premio del pubblico alla "Settimana della critica" e di quello FIPRESCI (la Federazione internazionale della critica cinematografica) all'ultimo Festival del Cinema di Venezia, questo notevole film fatto con pochi mezzi ma grande rigore, tanto formale quanto morale, attenzione e una scelta estremamente attenta dii interpreti dalla straordinaria efficacia espressiva (e bravura), circola da una settimana nelle circuito d'essai, e ho avuto la fortuna di apprezzarlo in lingua originale, sottotitolato, al benemerito Cinema dei Fabbri di Trieste, specializzato in "chicche" e con un'attenzione particolare a ciò che viene dai confini orientali. La vicenda, ispirata a fatti reali, ma che si rifà anche a "Il ragazzo selvaggio" di Truffaut, racconta del ritrovamento, durante una battuta di caccia nei boschi della Bosnia nel 1988, di un ragazzo dall'età indefinita e di cui si ignorano le origini, abbandonato e cresciuto in mezzo a un branco di lupi, da cui è stato "allevato" e di cui ha assunto modi, movenze, abitudini. E perfino linguaggio. Chiamato "Haris" al momento di dargli una identità burocratica, portato in un orfanotrofio di Belgrado, si dispera di un suo recupero alla dimensione umana, ma da un lato l'amicizia con un ragazzo di poco più grande, Zika, e dall'altro l'intuito e la perseveranza di uno degli istruttori, che veramente ha a cuore il futuro dei ragazzi, man mano lo sottraggono allo stato animale portandolo, con infinita pazienza, a una condizione umana, e soprattutto alla possibilità d esprimersi seppure con molte difficoltà. E' stupefacente la bravura del protagonista, Denis Murić, che riesce a rendere con naturalezza l'evoluzione del ragazzino, dal suo ingresso nella sordida realtà dell'istituto, all'avventurosa scoperta delle strade vicine di una Belgrado degradata e sull'orlo del conflitto imminente e del "mondo reale". Il paradosso è che il processo di "umanizzazione" e formazione "identitaria" di Haris procede di pari passo con la triste, tragica disgregazione dell'identità jugoslava e con quella della Federazione, e il ragazzo si scopre bosniaco proprio dopo lo scoppio del conflitto, nel 1991, e l'arrivo di profughi serbo-bosniaci nell'istituto i quali lo apostrofano come "musulmano" (termine che nella Belgrado prima del conflitto non aveva alcun significato negativo) e viene pertanto forzatamente "evacuato" (ossia rispedito) a Travnik, dove si troverà coinvolto direttamente in un conflitto che gli è del tutto estraneo, e che in questo quadro evidenzia tutta la sua follia, inglobato in una milizia bosniaco-musulmana. Il film si chiude in un bosco simile, e forse uguale a quello dell'inquadratura iniziale, col ragazzo che si cava le scarpe (che nel suo processo di "civilizzazione" aveva fatto così tanta fatica ad accettare) sotto gli occhi attenti di un bellissimo lupo, che osserva la scena per allontanarsi, a scanso di equivoci, dalla demenza umana. Un film perfettamente lineare, chiaro, che comunica ciò che ha da dire con immagini, parole e ambientazione di un realismo che non ha bisogno di fronzoli, psicologismi, pietismi e, meno ancora, effetti speciali. A mio avviso, esemplare per chiarezza e onestà.
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