UNAWATUNA - Serendib fu il nome in arabo, persiano e urdu per Sri Lanka (dal sanscrito: isola splendente), Taprobane quello dato dai greci e Ceilão dai portoghesi, da cui il Ceylon adottato da olandesi e inglesi, per denominare questa isola a forma di goccia (o di pera) situata appena a Sud-Est della punta meridionale del Subcontinente Indiano, e serendipity è un termine che indica la sensazione che si prova quando ci si imbatte in una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un’altra o, semplicemente, per caso: insomma una piacevole sorpresa, un felice accidente. Questa è stata per me Unawatuna e credo sia la prima volta dalla mia prima adolescenza che soggiorno, senza averlo peraltro minimamente programmato, in un luogo che si può definire di villeggiatura, al mare, per tre settimane di fila. Non un "colpo di fulmine", ma la sensazione, sin dal primo momento di essere a proprio agio, e di adeguarsi, senza nemmeno accorgersene, al placido ritmo di questo paesino sulla costa meridionale, pochi chilometri a Est di Galle, che conta meno di un migliaio di abitanti. Gentili, sorridenti, per nulla invadenti, che vivono prevalentemente di turismo ma non per questo vedono lo straniero come un pollo da spennare: la seconda volta che ti incrociano ti salutano già come se fossi uno del luogo, e come tale uno ci si sente, se è nello spirito giusto. Alcuni stranieri (due gemelli gallesi, un inglese, tutti sulla cinquantina) hanno messo su famiglia qui e conducono delle guesthouse con ristorante, e sempre turisti che avevano soggiornato qui ed erano rimasti affezionati al luogo, prevalentemente europei, anche dell'Est, hanno dato una grossa mano a risollevare le sorti di Unawatuna dopo il disastroso tsunami del 26 dicembre 2004 che si abbattè su due terzi delle coste dell'isola, devastando in particolare la costa sud-occidentale. Nella sola Unawatuna, ci furono 60 morti, di cui 10 stranieri. Pesca, artigianato e agricoltura le attività di contorno senza concessioni a un turismo di tipo predatorio o da villaggio turistico: si resta soltanto se ci si adatta a quel che passa il convento, che è più che sufficiente per persone che non hanno per modello una vacanza né riminesca, né tipo Ibiza e meno che mai "Sharm". A differenza di ogni altra località balneare che abbia visto nel Sud Est Asiatico, qui la spiaggia è vissuta anche dai locali, a cominciare dal pomeriggio quando ragazze e ragazzi, rigorosamente in divisa, escono da scuola, e soprattutto al tramonto. Non è un'esclusiva degli ospiti, e non hanno con l'acqua il rapporto puramente funzionale di thailandesi, vietmaniti, cinesi, malesi, ma anche ludico: ci nuotano, giocano, si divertono. Una motivo in più per non sentirsi degli estranei, ma integrati a pieno titolo nella comunità. Ed è una sensazione che dà calore e un senso di pace. Per questo Unawatuna è un posto che rimane nel cuore di chi ci è stato.
martedì 28 febbraio 2012
sabato 25 febbraio 2012
A sua immagine e somiglianza
Giustizia di merda in un Paese di merda: questo è diventato dopo 17 anni di "Cura Berlusconi". D'altra parte le leggi per non farsi giudicare le ha fatte lui. Con la compiacenza di quasi tutto l'arco parlamentare. Come ha detto il PM De Pasquale dopo la sentenza sul processo Mills: "Inutile commentare". Ricordare, no.
mercoledì 22 febbraio 2012
Il più amato dagli italiani
Dolce mi giunge la voce, anche a qualche migliaio di chilometri di distanza (grazie ai potenti mezzi moderni) dei pastori sardi, degli indipendentisti e di altri cittadini libero-pensanti dell'isola, e la sequela di improperi, confortati dalle immagini, che hanno accolto come si merita il peggior presidente che la Repubblica Italiana abbia mai avuto, in confronto al quale perfino Antonio Segni, complice di un tentativo di golpe da operetta nel '64 (Caso Sifar/De Lorenzo), Gronchi e Leone erano dei galantuomini. "Buffone", "Non ti vogliamo", "Servo dei banchieri": così è stato apostrofato Giorgio Napolitano, alla sua prima vista ufficiale in Sardegna dopo 6 anni di presidenza (cara grazia!), lunedì a Cagliari e ieri a Sassari. Mi sono sempre sentito in particolare sintonia con su populu sardu, che ha molti tratti in comune con quello della Piciule Patrje dal Friûl, tra cui diverse affinità linguistiche, caratteriali e la propensione a parlar chiaro e dire le cose con schiettezza. Sardegna, ti amo. Grazie!
domenica 19 febbraio 2012
Il cuoco zen
Naturalmente le svariate erbe che usa le coltiva personalmente nel suo curatissimo giardino, la sua casa con veranda dove ospita il ristorante e la dépéndance dove affitta alcune camere sono deliziose e delle vere oasi di pace dove ci si siede a parlare di filosofia o di qualsiasi altro argomento che valga la pena, i libri non mancano: appena ha saputo che sono italiano mi ha chiesto se conoscevo Tiziano Terzani: "Un indovino mi disse" è uno dei suoi libri preferiti, e anche miei. Non manca nemmeno una connessione internet veloce, e va da sé che Jina si dedica alla meditazione buddhista, allo yoga ed è un uomo saggio. E quello che esce dalle sue mani è sempre delizioso e una gioia per il palato. Jina è qui. E io pure. Namasté.
giovedì 16 febbraio 2012
Tra lusitani e batavi a Galle
GALLE - Dopo Colombo Jaffna e Kandy, Galle, coi suoi 90 mila abitanti, è la quarta città più popolata dello Sri Lanka ed è la porta d’entrata della splendida costa meridionale del Paese. Alcuni sostengono che si trattasse dell’antica città di Tarshish, luogo biblico legato alle vicende di re Salomone, mentre per altri si trattava di un porto spagnolo: di sicuro divenne un centro di primaria importanza con l’arrivo dei portoghesi, una cui flotta finì fuori rotta e si rifugiò nel porto nel 1505. Nel 1588 vi costruirono un piccolo forte con terrapieni e palizzate di legno, chiamato Santa Cruz, per difendere le loro basi dagli attacchi del regno di Kandy, ampliandolo poi con mura e tre bastioni limitandolo al lato terra, verso Nord, da cui provenivano le incursioni. Dopo che Galle fu conquistata dagli olandesi, nel 1640, questi decisero di cintare tutta la penisola che tuttora racchiude la città vecchia, e che sorge su un’area di circa 52 ettari, anche verso il mare, per difendere il porto da altre potenze coloniali concorrenti, così ampliarono e irrobustirono le vecchie fortificazioni portoghesi con pietra corallifera e granito costruendo 14 bastioni, dotati di due porte d’entrata: il Main Gate e l’Old Gate.
Dal 1988 il Fort è stato inserito nella lista dei siti patrimonio dell’umanità stilato dall’UNESCO, a pieno diritto perché è una testimonianza rimasta praticamente intatta, e ben conservata, dell’epoca: edifici coloniali olandesi, tra cui la bellissima chiesa riformata, moschee, templi, per un totale di oltre 400. Anche se da tempo l’attività portuale è secondaria, rimane un vivace centro commerciale e vi abita una nutrita comunità di artisti, locali e stranieri, una città autentica e non solo un mausoleo. Immediatamente mi ha ricordato Olinda e alcuni tratti di Salvador, in Brasile, altro Paese in cui lusitani e batavi si sono scontrati sovrapposti quando ancora nelle isole britanniche si scannavano tra di loro indecisi tra repubblica e monarchia e prima che fossero unite un regno; più vicino, i destini di portoghesi e olandesi si sono incrociati in India, Indonesia, in Malesia e in Vietnam, e qui mi sono venute in mente Malacca e Hoi An.
L’atmosfera che si respira a Galle è simile, e in tutti i casi sono luoghi che per posizione, clima, storia hanno in comune un particolare magnetismo, che conferisce loro una vitalità particolare che le rende senza tempo. Vi ci si perde con piacere, e avendo la mia base a pochi chilometri da qui vi sono già tornato due volte, perdendomici volentieri. A parte le passeggiate sui bastoni, c’è un notevole Museo Marittimo, rinnovato di recente con l’appoggio del governo olandese, un discreto Museo Nazionale, ma il massimo è “Historical Mansion”, non un vero museo, anche se si definisce tale, che in una vecchia magione olandese ottimamente restaurata contiene un’inverosimile raccolta di oggetti coloniali tra i più disparati, dalle macchine per scrivere a quelle fotografiche, vecchi grammofoni e dischi d’epoca, porcellane, vetri, ceramiche, telefoni, riviste: un autentico trionfo per chi ha l’animo del rigattiere, un’accozzaglia di deliziose cianfrusaglie che difficilmente credo di aver visto tutte insieme. Fosse solo per questo, non mancherò di tornarci per una terza visita; inoltre, a Galle ci sono ottimi caffè e ristoranti in cui gustare a poco prezzo l’ottima e speziata cucina locale, che provvede a dare un tocco in più.
martedì 14 febbraio 2012
domenica 12 febbraio 2012
Tempo sospeso
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Lanka bus |
Unawatuna - I 106 chilometri che separano che separano Colombo da Galle, lungo la strada costiera che porta a Sud, si percorrono in tre ore e un quarto, quando va bene: il problema principale consiste nel partire. Il caos è totale perché a Colombo esistono tre stazioni di bus, tutte piuttosto centrali, completamente disorganizzate, da dove i mezzi partono a getto continuo per tutte le località del Paese: raccapezzarcisi è impossibile, nessuna scritta o numero è in caratteri latini, ma si rimedia affidandosi ai guidatori di tuc-tuc o di taxi che vi ci portano i quali si industriano di capire dove è situato il marciapiede di partenza per la destinazione desiderata: una volta trovato posto sul bus, il più è fatto e nell’arco di un quarto d’ora al massimo si parte. L’altra opzione è il treno, meno frequente e più caro rispetto alle 115 rupie pagate per la tratta (circa 80 € euro cent). La prima ora è un attraversamento della capitale e relativi suburbi, che confermano la sensazione di squallore di cui al post precedente, ma la situazione migliora nettamente quando si esce dalla città e si comincia e vedere l’Oceano. Si incontrano prima Beruwela e poi Bentota, divenute tra le principali mete per i viaggi organizzati: dotate di barriera corallina, permettono una balnezione tranquilla in ogni periodo dell’anno. Segue Hikkaduwa, che è stata per anni la località balneare per eccellenza del Paese, scoperta dai “freak” nei primi anni Settanta: a parte uno sviluppo incontrollato, insopportabile è che venga attraversata dalla statale Colombo-Galle, il cui traffico parossistico rende pericoloso anche attraversarla, oltre a impestare l’aria di esalazioni mefitiche. Una volta arrivati a Galle, dominata dal Fort, esteso per 36 ettari, costruito dagli olandesi nel 1663 e che come a Colombo occupa il vecchio centro cittadino (sito dichiarato Patrimonio dell’’Umanità dall’UNESCO), la situazione cambia, perché il primo angolo di paradiso della costa Sud si trova a circa 5 chilometri: Unatawuna, che si trova defilata rispetto alla strada principale. Ci si arriva con un tuc-tuc dalla stazione dei bus di Galle e si entra in un’altra dimensione. Circa due chilometri di spiaggia disposta a mezzaluna, protetta dalla barriera corallina, un paio di isolotti in mezzo. Una ventina di discrete guesthouse, qualche ristorante, qualche bottega e basta. Non serve altro per perdere con piacere la nozione del tempo, calarsi immediatamente nell’atmosfera locale con una capacità di adattamento immediata, il che fa pensare che altri ritmi sono possibili, anzi: sono quelli più connaturati alla propria dimensione. Si ha la meravigliosa sensazione di non avvertire alcun affanno, alcuna urgenza, meno che mai quella di programmare “la prossima mossa”, neanche quella di prendere in mano la mappa dello Sri Lanka e valutare quella che potrebbe essere la tappa successiva: non se ne sente la necessità perché non manca niente. Ci si abbandona al ritmo che viene spontaneo, perdendo di vista l’orologio e valutando l’ora all’incirca, a seconda della posizione del sole. Che più o meno alle 18 tramonta, assicurando 12 ore di tregua da dedicare al riposo, un relax in forma diversa. Al chiaro di luna. Io intanto mi fermo qui. Perché, come diceva Sandro Pertini, hic manebimus optime.
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La spiaggia di Unawatuna |
giovedì 9 febbraio 2012
Colombo: due giorni e non di più
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Colombo a... volo d'uccello |
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Lungomare con rotaia |
lunedì 6 febbraio 2012
Il Myanmar, a una possibile svolta
Yangon – Quattro settimane trascorse nel Myanmar, lungo un
itinerario classico e procedendo senza fretta, non sono certo sufficienti per
conoscere un Paese, a maggior ragione complesso come questo e con l’ostacolo
della lingua, ma sufficienti per farsene un’idea, suscitare delle sensazioni e
perfino spingersi a fare alcune previsioni. Da 50 anni esatti il Myanmar vive
sotto la cappa di un regime militare che non ha esitato a usare metodi brutali
per reprimere le manifestazioni di dissenso, che pure ci sono state, a ondate,
come nel 1974, nel 1988 e, più di recente, nel settembre del 2007 quando arrivò
a usare violenza contro le decine di migliaia di monaci che in tutto il Paese
avevano guidato la protesta, alienandosi definitivamente ogni possibile residuo
di rispetto da parte di una popolazione che vede nei clero buddhista l’unica
vera autorità riconosciuta. Della situazione si è venuto a sapere, e qualcuno
ha cominciato a interessarsene, dopo il conferimento del premio Nobel per la
pace ad Aung San Suu Kyi nel 1991. Questa donna, dall’aspetto dolce e fragile ma dotata di una determinazione e
coerenza d’acciaio, è da più di vent’anni la spina nel fianco della giunta, da
quando, dopo i moti dell’88, attorno a lei l’opposizione si è coagulata nella
NLD (Lega nazionale per la democrazia),
partito che ottenne alle elezioni del 1990 qualcosa come 392 dei 485 seggi
disponibili in Parlamento e ai cui deputati fu impedito di assumere la carica.
Figlia del generale Bogyoke Aung San, che guidò la Birmania all’indipendenza
dagli inglesi, ottenuta nel 1947, ed è considerato un eroe nonché padre della
patria dagli stessi militari (fu ucciso pochi mesi dopo a soli 32 anni in un
complotto probabilmente organizzato dagli stessi perché intendeva
smilitarizzare il governo al più presto),
e chiamata perlopiù semplicemente The
Lady, la sua immagine, assieme a quella del padre, campeggia in quasi tutte
le case e botteghe del Paese, così come nelle beer station e nelle sale da tè, spesso su calendari: una specie di
santino laico, o di nat protettivo,
un po’ come accadeva nella ex Jugoslavia col ritratto di Tito, che era riuscito
a tenere insieme un Paese che si sarebbe disgregato, alla sua morte, in preda
alla demenza etnica e separatista (ed ecco un altro aspetto in comune con la
Birmania e i suoi conflitti con le minoranze, in buona parte indotti proprio
dal regime militare). In ogni caso, la stima e l’affetto di cui è circondata
Aung San Suu Kyi non hanno nulla a che fare con una cieca devozione da parte di
fedeli acriticamentemente adoranti, ma sono ancor più commoventi per come sono
autentici. Le recenti aperture da parte della giunta, simboleggiate della
visita del segretario di Stato USA Hillary Clinton avvenuta qualche mese fa; la
maggiore integrazione del Paese nell’ASEAN; la stessa estensione del visto
turistico a 28 giorni (erano 14 l’ultima volta che avevo provato, inutilmente,
a ottenerlo, qualche anno fa) hanno contribuito a rasserenare il clima e a
prima vista non si direbbe che il Paese sia governato da una dittatura, anche
perché, come ho già notato, la gente (e non solo i monaci) tende a parlare di
politica, lo fa volentieri e non ha alcuna remora a dicuterne anche con gli
stranieri. Poi ci si accorge di alcuni particolari: le stazioni di polizia,
soprattutto a Yangon, sono circondate, a protezione, da sacchetti di sabbia,
filo spinato e cavalli di frisia; le caserme e basi militari protette da occhi
indiscreti e ove possibile mimetizzate: lungo il percorso della Circle Line ne avevo notate parecchie
nella cinta esterna della città, e il primo pensiero era stato di gente
asserragliata, pronta a decretare e mettere in atto uno stato d’assedio perché
si sente a sua volta sotto assedio da parte di una popolazione che la ignora e
cerca di vivere come se non esistesse, e che nutre disprezzo non tanto per
l’esercito in sé quanto per chi ne è a capo. Un esempio lampante l’ho avuto a
Mandalay, dove nel pieno centro della città, circondata da un fossato lungo 2
chilometri per lato, si erge la fortezza circondata da mura del Mandalay Palace, ricostruita negli anni
Novanta utilizzando il lavoro forzato dei detenuti, spesso politici. Su una
delle quattro entrate campeggia un cartello con la scritta: “Il Tatmadaw
(l’esercito) è sempre stato e sempre sarà al servizio del popolo birmano”. Il Mandalay Palace non lo visita nessuno, a
parte i gruppi di turisti dei viaggi organizzati (da agenzie controllate dal
governo). La gente ci passa davanti e lo ignora. Se si chiede com’è, ne
sconsiglia la visita, specificando il perché. In quattro settimane, oltre ai 25
€ per il visto, ho calcolato di essermi limitato a versare nelle tasse statali
al massimo 50 dollari USA, tra ingressi ad aree archeologiche e musei e
compresi due viaggi in battello con compagnie pubbliche (quantomeno il prezzo
del biglietto è destinato in parte a coprire lo stipendio degli addetti),
incoraggiato e indotto dagli stessi locali, prodighi di consigli su come
evitare le gabelle, e dal personale stesso, che spesso evita di controllare i
biglietti. Un regime, per quanto brutale, non può sopravvivere in eterno
circondato da un discredito così generalizzato, e gli scricchiolii si percepiscono
eccome. Sembra che sia intenzionato a consentire finalmente delle elezioni
regolari il prossimo aprile: foto della “Lady” e il simbolo della NLD nel
frattempo si moltiplicano. E il Paese non può rimanere isolato, e difatti lo è
sempre di meno: quantomeno il corridoio verso la Cina è sempre più aperto, e
non soltanto alle merci. A questo proposito, negli ultimi anni ho notato un
numero sempre crescente di giovani cinesi (e sudcoreani), appartenenti a quella
che si può definire “generazione internet”, viaggiare, cominciando naturalmente
dai Paesi più vicini, come per l’appunto il Myanmar, e farlo alla maniera dei
loro omologhi occidentali, anche se in modo più timido e impacciato. Ragazzi
normali, non i figli degli alti papaveri di partito o dei dirigenti delle
imprese turbocapitaliste, che sono di casa nelle migliori università USA ed
europee: giovani che si aprono al mondo, curiosi di conoscere situazioni
diverse da quelle in cui si trovano a vivere, e come già da tempo fanno quelli
giapponesi. A differenza dei loro coetanei russi o indiani. E qui vengo al
contributo che a uno sbocco positivo delle aperture che si intravedono in
questa fase politica, e allo sviluppo in generale del Myanmar, possono dare i
Paesi che hanno i maggiori contatti commerciali, e non solo, con esso. Come
avevo già accennato, a essere decisiva è la Cina. Il Myanmar è un Paese ricco.
Potenzialmente è un esportatore netto, autosufficiente dal punto di vista
alimentare, che abbonda di materie prime ambite, comprese le fonti energetiche.
Un Paese ricco che vive in povertà; con una immensa dignità, l’arretratezza a
cui l’ha costretto una classe dirigente ingorda, paranoica e irrimediabilmente
stupida. E anche un Paese terribilmente arretrato a livello di infrastrutture,
se si pensa alla rete stradale, a quella idrica, a quella delle
telecomunicazioni (funziona meglio la neonata rete mobile che quella fissa). Stando così le cose, la
Russia, che è potenziale concorrente del Myanmar per quanto riguarda l’export
di gas e petrolio, non ha niente da offrire, se non armi; l’India forse nel
campo delle telecomunicazioni: ma sconta
la diffidenza e la scarsa simpatia che gli indiani, visti come trafficatori
inaffidabili e spesso truffaldini, suscitano nella popolazione. Non che i
thailandesi (nemici storici dei birmani)
e i cinesi, che sono i maggiori investitori nel Paese, siano particolarmente
amati, ma certamente sono considerati più affidabili ed efficienti, soprattutto
i figli del Celeste Impero, che a mio parere hanno l’asso nella manica ora che
il Myanmar non è più uno Stato socialista. Perché, dal 1964 al 1988, ha seguito
anche questa utopia, che la storia ha dimostrato non percorribile (e la cosa
non mi stupisce, dato che prende il via dalle medesime premesse del sistema che
vorrebbe contestare e che, a mio parere, è entrato a sua volta in una crisi
irreversibile: quello capitalista, in preda a un’agonia che durerà ancora a
lungo, almeno svariati decenni, salvo un collasso improvviso e attualmente non
prevedibile a breve termine ma a mio parere pienamente in atto) e in seguito ha
provato a seguire lo schema cinese. Con esiti penosi. Perché la Cina è il più
grande mercato, sempre meno potenziale e più effettivo, al mondo, nella duplice
veste di cliente e di venditore, e questo in un sistema globalizzato: pur di
farci affari insieme, anche chi si autoproclama portatore di valori a suo dire universali, passa allegramente
sopra ogni questione etico-politica, sempre ammesso e non concesso che i Paesi
occidentali, a cominciare dagli USA, abbiano alcunché da insegnare a chicchessia.
La Birmania non è certo in queste condizioni, tanto è vero che da essi è
oggetto di un embargo piuttosto stretto. E mentre in Cina è stato il governo,
nelle salde mani di quel complesso comitato d’affari e di potere che è il
Partito comunista, a creare, attraverso una forzata e rapida accumulazione
primitiva del capitale e la costruzione a ritmo serrato di infrastrutture
finanziate dallo Stato, le condizioni per uno sviluppo vorticoso, in Birmania
un regime al potere da troppo tempo e con inclinazioni psicopatiche, oltre che
avido nei suoi esponenti di più alto livello, i mezzi per una “start up” in
termini di sviluppo capitalistico se li è divorati a causa della sua stessa
voracia e corruzione senza fondo. Un esempio da manuale è stato l’improvviso
spostamento, nel 2005, della capitale da Yangon a Nay Pyi Taw, una città
perfettamente inutile, creata dal nulla e abitata soltanto da funzionari governativi
e statali, iniziativa delirante che ha suscitato perplessità perfino da parte dei
cinesi. Che comunque sentitamente ringraziano, innanzitutto perché le loro
imprese costruttrici, a cui si deve la costosa opera, hanno fatto affari d’oro
e poi perché ancora una volta “tengono per le palle” un Myanmar indebitato. E
comunque legato mani e piedi alle potenze confinanti con cui ha rapporti
commerciali, fornendo loro materie prime a prezzi competitivi: Cina
innanzitutto e poi Thailandia, India e, sul versante delle forniture militari,
Russia e Corea del Nord. Un panorama di soci alquanto inquietanti. Eppure sono
abbastanza fiducioso nell’evoluzione della situazione. Non prevedo un passaggio
immediato del potere nelle mani dei civili, ma uno graduale, alla cui base sono
le trattative in corso da mesi tra la giunta e Aung San Su Kyi, propiziato da
una vittoria dei candidati della NLD alle elezioni di aprile, sempre che
si tengano come previsto. Col rientro in
gioco anche di altri possibili partner commerciali, tra cui vedo con ottime chance il Giappone, a cui nel 1941 si
rivolse con fiducia e successo suo padre Bogyoke per liberarsi dagli inglesi,
salvo combatterli non appena si accorse
che da parte loro ai birmani toccava subire un trattamento anche peggiore che dagli
antichi padroni coloniali. Ma quello era l’Impero del Sol Levante in piena
espansione e al massimo della sua capacità bellica, e non il Giappone di oggi. Un
tempo era la Thailandia, l’antico SIAM, a essere chiamata la “terra del sorriso”.
Aggredita da uno sviluppo, se così vogliamo definirlo, tumultuoso e
irrefrenabile; spesso deturpata e violentata da una corsa alla modernità senza
limiti e da un turismo in buona parte invasivo e corrotto, non è più tale . Trovo che la stessa lusinghiera
espressione di terra del sorriso,
oltre che Paese dell’oro, spetti oggi a pieno titolo alla Birmania, con l’augurio
che un progresso auspicato da tutti e necessario venga tenuto sotto controllo
nei suoi aspetti perversi e che non stravolga il carattere dei suoi abitanti.
L’indole caparbia e orgogliosa della sua gente, la cui mitezza è l‘opposto
della rassegnazione, la più amichevole, gentile e aperta che abbia trovato in
tutto l’Oriente, ancora più che nel Laos, mi fa ben sperare.
sabato 4 febbraio 2012
Inle: un'economia lacustre
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Pesca |
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Agricoltura negl orti galleggianti |
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Commercio (mercato a Nampan) |
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Industria (lo squero) |
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Soluzioni ecologiche di mobilità |
giovedì 2 febbraio 2012
Elogio del gatto birmano
Nyaungshwe / Lago Inle - Giornata piena di quiete emozioni, quella della prima escursione sul Lago Inle: ma le più grandi e sorprendenti sono state di natura felina. Siccome ho voluto concedermi il lusso (relativo) di una lancia tutta per me per l’intera giornata: quindici dollari per l’assoluta libertà di stabilire il percorso e il tempo delle soste nelle varie tappe, compreso il conducente e un ragazzo che funge da interprete, avevo dato priorità assoluta alla visita del monastero di Nga Hpe Kyaung, ossia “Monastero del gatto che salta”, se è corretta la traduzione che me ne hanno dato. Erano anni che mi perseguitava una foto del monaco, accosciato sul pavimento, che teneva un cerchietto in mano e di un gatto che vi saltava dentro centrandolo alla perfezione, nella postura di un coniglio che facesse un tuffo a candela in acqua. Logica ha voluto che la visita avvenisse nel primo pomeriggio, visto che avevamo attraversato il Lago da Nord alla sua estremità meridionale per effettuare la prima tappa a Nampan, dove al mattino si svolgeva il mercato, e il monastero si trova in quella occidentale. Tassativo soltanto essere lì per prima delle quattro del pomeriggio, perché dopo i monaci chiudono le porte della sala di meditazione e la utilizzano per il suo scopo istituzionale. Alle due ad ogni buon conto ero già lì, per una buona mezz’ora unico visitatore per cui, sebbene in uno stato di tranquilla trepidazione in attesa dell’esibizione dei miei eroi, ho potuto godermi l’incantevole pace di questo luogo a cui si arriva solo in barca, circondato da orti e giardini galleggianti, e che di per sé vale una visita: completamente in tek, costruito nel 1854 conserva, proprio nella grande, ombreggiata e ventilata grande sala di meditazione, una collezione unica di antiche e ricchissime statue del Buddha in stile shan, tibetano, bagan e awa, poste su basi in legno intarsiato lavorato con tale finezza da essere esse stesse delle opere d’arte. Una parte della sala aveva il pavimento ricoperto di linoleum ed eccoli lì, i protagonisti, le star che, viste dietro il palcoscenico, hanno l’aspetto di normalissimi gatti meticci, di taglia piuttosto piccola, che stazionano, chi dormendo in una parte soleggiata, chi aggirandosi pigramente, chi facendo un’accurata toilette, attorno a un bonzo accovacciato su una splendida panca sempre in tek, e che evidentemente è il maestro di cerimonie, come evinco da una foto che lo ritrae con i famosi cerchi in mano e un gatto che vi salta dentro. Dall’espressione sorniona sembra un gatto anche lui: me ne accorgo quando arriva un nutrito plotone di yankee orridamente abbigliati tra cui un gruppo di donne dall’età indefinibile talmente liftate da sembrare incartapecorite, marionette di cartapesta sul punto di disfarsi da un momento all’altro. Alla sua domanda da quali Stati provenissero, a chi rispondeva, col noto accento esageratamente strascicato e ad alto volume “Kelifounie”, chi “Seaufkeuolaine”, chi “Uestuiginie”, chi “Geùgiò”, il bonzo fa, con pronuncia pressoché oxfordiana: “Nessuno del Colorado? Della zona delle Rocky Mountains? Peccato, non ci stato mai stato”, sistemandoli a dovere. Insomma gli artisti stavano lì, a farsi i fatti loro, indifferenti al pubblico che si infittiva, come degli atleti che fanno riscaldamento prima della prestazione, o musicisti durante il sound check che precede l’esibizione: e mi è tornata in mente l’attesa spasmodica dell’uscita sul palco, in puntuale ritardo sull’orario previsto, quando arriva il giusto punto di ebollizione, della “Greatest Rock‘n Roll Band in the World: Ladies and Gentlemen: The Rolling Stones” alla loro ennesima tournée. Invece, anche se sono almeno trent’anni che so dell’esistenza di questi curiosi e a loro modo straordinari gatti acrobati attivi in un misterioso monastero in un luogo isolato della lontana Birmania, mi accorgo che sto sorridendo, che non sento alcuna fibrillazione, che mi pare naturale essere lì, tanto da non essere nemmeno tentato di chiedere quando giungerà il momento: “Que será, será”, per rimanere in ambito musicale. Del resto la vera sorpresa della giornata l’ho avuta al mattino quando i miei chaperón, istruiti della mia predilezione per i piccoli ma più perfetti felini, delle autentiche tigri in miniatura come li ha definiti Desmond Morris, che in proposito ha scritto un famoso libro, mi hanno portato allo “Inpawkhon Village”, un ristorante su palafitte molto elegante dove ha sede anche la Inthar Heritage House (c’è anche un sito web: www.intharheritagehouse.com), per la preservazione del gatto di razza birmana, dal carattere dolcissimo e dal morbido pelo corto di un marrone caldo e uniforme, che uno si aspetterebbe con gli occhi azzurri, come i siamesi, e invece li ha gialli: uno più bello dell’altro, meravigliosi. L’aristocrazia felina. Tanto ero rincoglionito a guardarli, giocarci, accarezzarli, che ho dimenticato di chiudere e perfino di avere lo zainetto in spalla, quello che avevo dentro si è sparso dappertutto e ho pure perso il copri-obiettivo della macchina fotografica. Senza neanche prendermela con me stesso (è l’effetto-gatto, oltre all’effetto-viaggio) mentre di solito in tali occasioni tiro giù madonne e sacramenti insieme a tutto il coro dei santi al completo, oltre al capo dell’intera banda. Invece gli artisti erano lì, incuranti, fino al momento in cui è sopraggiunta una donna con in mano un cerchio di metallo imbottito di stoffa e tre o quattro dei mici si sono radunati attorno a lei e due di loro hanno dato via allo show, davvero curioso anche se di breve durata. A tutta evidenza erano stanchi, così come lo era il direttore d’orchestra in tunica zafferano, che si erano già esibiti fin dalla mattina: insomma avevamo sbagliato l’orario, e non è detto che stamattina non rimedi. Comunque l’esibizione, per quanto ridotta all’osso, ha pienamente soddisfatto le mie aspettative perché ha comunque dello stupefacente. Perché se non c’è nulla di strano che un gatto sappia saltare in un cerchio (offrono ben altre prove di intelligenza, a cominciare dall’imparare per conto loro ad aprire e all’occorrenza richiudere sportelli che li separano da qualcosa di loro interesse o azionare per il verso giusto le maniglie per aprire una porta o una finestra a loro piacimento), quello che ha dell’incredibile è che lo facciano a comando di qualcuno che li convinca a farlo. E qui ci vuole la pazienza e concentrazione di un monaco buddhista.
mercoledì 1 febbraio 2012
Il Lago Inle, il Titicaca e le loro insospettabili fonti

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