mercoledì 26 marzo 2025

Follemente

"Follemente" di Paolo Genovese. Con Edoardo Leo, Pilar Fogliati, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta, Claudia Pandolfi, Vittoria Puccini, Marco Giallini, Maurizio Lastrico, Rocco Papaleo, Claudio Santamaria. Italia 2025 ★★★★+

Evviva! Vedere due film italiani divertenti e del tutto riusciti nell'arco di una settimana e uscire dalla sala soddisfatti e col sorriso sulle labbra è un evento così raro da far pensare che il nostro cinema tutto sommato sia in salute e la capacità di girare una commedia come Follemente, che da un lato riflette alcuni tratti comuni indigeni e dall'altro è in grado di parlare alle donne come agli uomini (e ridere di sé stessi) al di là delle frontiere (come e forse più a suo tempo di Perfetti sconosciuti) non sia andata persa. Il che è confortante. La storia, raccontata in unità temporale, insomma "tutto in una sera", è quella del primo appuntamento tra Lara (Pilar Fogliati) e Piero (Edoardo Leo), lei sui trenta e lui verso i cinquanta, entrambi già scottati sentimentalmente, che vogliono darsi una seconda possibilità: l'occasione per verificare la validità e le eventuali prospettive di un'attrazione reciproca è una cena a casa di lei, in ansia fino all'ultimo su cosa indossare e sull'illuminazione del suo caotico appartamento e lui, con mazzo di fiori e vassoio di gelato d'ordinanza, indeciso sulla scelta del preservativo (non si sa mai...) davanti al distributore automatico di una farmacia, sobillato da una voce interiore, quella di Marco Giallini, che ne elenca i diversi tipi disponibili. Già, perché oltre ai due protagonisti "reali" della vicenda ci sono gli spiritelli, una via di mezzo tra l'angelo custode e il demone, quattro donne e quattro uomini, che rappresentano le pulsioni contraddittorie di entrambi, i quali dirigono le operazioni da due location diverse, la caotica tana dell'universo mentale di Leo e il salotto perfettino della mente di Lara. Tutti bravissimi, ma spiccano Emanuela Fanelli (Trilli) e Claudio Santamaria (Eros), le due côté "carnali" delle rispettive personalità, che puntano "al sodo" e quelle più razionali, e dogmatiche, affidate rispettivamente a Claudia Pandolfi e Marco Giallini: per contrasto, lo spasso è assicurato, tra battute brillanti e azzeccate, buon senso comune, ironia sugli imbarazzi dei due "protetti". Niente di rivoluzionario e di trascendentale, gli ingredienti della "commedia all'italiana" ci sono tutti, ma assemblati in maniera intelligente e originale come da sempre sa fare Paolo Genovese, navigando tra finzione e verosimiglianza come nei suoi film precedenti, in particolare di Perfetti sconosciuti, finora quello di suo maggiore successo, di cui segue le tracce ma, a mio parere, con ancora maggiore successo, quello che gli auguro vivamente di doppiare. Oltre alla bravura di Genovese come sceneggiatore, avvalendosi della collaborazione di colleghi rodati e fidati, da lodare la grande attenzione all'ambientazione, senza mai sbavature e il grandissimo merito di non non fare mai film romanocentroci pur essendo ambientati sempre nella capitale e avvalendosi prevalentemente di attori romani e la capacità di farli lavorare assieme: i suoi sono sempre film corali in cui, più ancora della scrittura (sempre brillante e mai volgare), conta l'affiatamento tra gli interpreti, che danno sempre l'impressione di divertirsi e di essere a loro volta creatori e coautori del lavoro, complici e non solo un tramite per le idee del regista. Un'ora e mezzo di intrattenimento sano, rilassante e intelligente, probabilmente uno dei migliori incassi dell'a stagione: Genovese e la sua tribù se lo meritano.

domenica 23 marzo 2025

Hokage - Ombra di fuoco

"Hokage - Ombra di fuoco" di Shin'ya Tsukamoto. Con Shuri, Ouga Tsukao, Hiroki Kôno, Mirai Moriyama, Gô Rijû, Tatsuri Ohmori e altri. Giappone 2023 ★★★★1/2

Film che chiude una trilogia che Tsukamoto ha dedicato alle devastanti conseguenze della guerra, preceduto da Nobi (2014) e Zan (2018), non ha bisogno di immagini cruente o di lunghe e tormentate spiegazioni e analisi psicologiche dei personaggi, ma si affida unicamente alle immagini, ai suoi riflessi ex post, appunto come "ombre di fuoco", negli sguardi degli interpreti e nei dettagli, specie in interni, in cui si svolge la vicenda. Che sono quelli di un piccolo ristorante di famiglia, situato vicino a un affollato mercato nero, gestito da una giovane vedova costretta, per necessità, a concedere a pagamento anche il suo corpo ai clienti, oltre al saké e ai poveri piatti che riesce a cucinare col poco che rimedia. Un giorno compare nel suo locale un piccolo orfano, il fenomenale Shuri (grande merito al regista saperlo guidare in un'interpretazione memorabile, di assoluta naturalezza) con l'intento di rubacchiare qualcosa, e tra i due si instaura per qualche tempo un legame compensatorio: nel conflitto appena concluso sono morti sia il figlio della donna, sia i genitori del bambino; a loro si aggrega, per qualche giorno, un altro personaggio, un reduce, già insegnante di scuola media,  affetto da crisi da sindrome post traumatica così pesanti che, nonostante le buone intenzioni, la precaria convivenza del terzetto risulta impossibile. Proprio nel momento in cui la donna sta affezionandosi al piccolo, quest'ultimo viene "reclutato" da un altro reduce, attivo al mercato nero, più a posto con la testa del primo ma deciso a vendicarsi di un alto ufficiale (uno che subito dopo il conflitto è tornato senza problemi a un'esistenza agiata e senza problemi) a cui vuol fare pagare le colpa di averlo disumanizzato e costretto a compiere azioni che non avrebbe mai fatto e reso in definitiva complice di atrocità che gli rimaranno sulla coscienza per tutta la vita: quest'altro giovane, per sicurezza, aveva affidato proprio al bambino il compito di custodire la pistola con cui voleva realizzare il suo proposito. Ambientato nella locanda la prima parte del film, all'esterno, tra mercato e campagna, la seconda, in cui il soldato e l'orfano vanno a stanare l'ufficiale: in mezzo l'unica immagine, definitiva e più devastante, della guerra appena conclusa, quella di Horishima vista dall'alto, sorvolata e filmata dopo il criminale e vigliacco sganciamento della prima bomba atomica, quella che ha cambiato definitivamente il mondo facendolo diventare vieppiù il carnaio demenziale e fuori controllo gestito dagli eterni guerrafondai sopravvissuti a tutto. A dispetto della gente, di ogni etnia, credo o parte del mondo che le guerre è costretta a combatterle, subirle e pagarle. Pellicola stilisticamente impeccabile, fotografia eccezionale, interpretazioni eccellenti, quella del piccolo Shuri sopra tutte. E da sbattere in faccia ai sostenitori di qualsiasi riarmo.

giovedì 20 marzo 2025

La città proibita

"La città proibita" di Gabriele Mainetti. Con Enrico Borello, Yaxi Liu, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Chunyu Shanshan, Luca Zingaretti, Sheena Hao e altri. Italia, 2025 ★★★★

Abilissimo nel contaminare i generi e come nessuno in Italia nel rendere spettacolari le scene d'azione senza cadere nel ridicolo, Gabriele Mainetti non è un regista prolifico: La città proibita è il suo terzo lungometraggio e, dopo Lo chiamavamo Jeeg Robot, che lo ha rivelato al grande pubblico, e la conferma di Freaks Out, mantiene la linea di navigazione su ottimi livelli con un film ancora una volta sorprendente, una sorta di Kung Fu Movie in versione capitolina d'ispirazione tarantiniana (in particolare Kill Bill) e non solo, adrenalinico, romantico ma capace pure di una non banale capacità di osservazione sociologica. La vicenda prende le mossa da un villaggio rurale nella Cina del 1979, quando vigeva ancora la politica del figlio unico, e Mei, la secondogenita di un padre maestro di arti marziali, è costretta a vivere nascosta per evitare i controlli delle autorità, all'ombra della sorella Yun, ma la supererà nella attitudine al combattimento, che esplode quando la vedremo per la prima volta in azione allorché, reclutata da trafficanti di donne da piazzare all'estero per i loro affari, indotta a spogliarsi per essere "valutata" e avviata alla prostituzione, sgomina i presenti, fugge lungo misteriosi sotterranei e sbuca in Piazza Vittorio, a Roma, cuore dell'Esquilino, il rione più multietnico della capitale e da lì va alla ricerca della sorella, che le risulta lavorare al servizio di Wang, un capo della Triade proprietario, per copertura, del ristorante La città proibita. E' fuggendo da lì che incontra (e scontra) per caso con Marcello (Borello, convincente), che lavora nella cucina del ristorante di famiglia, Da Alfredo, una tipica tradizionale osteria romana, vicino e concorrente di quello cinese e nelle mire di Wang. Le loro storie si intrecciano da quel momento sempre più fittamente perché Alfredo, il padre, si scoprirà essere sparito proprio con Yun, e a tirare la carretta sono rimasti il figlio e la moglie Lorena (Ferilli, brava) oltre all'amico di sempre Annibale, un altro trafficone e sfruttatore di poveri cristi come Wang, però autoctono e angosciato dal vedere stravolto il tessuto sociale del "suo" quartiere e di tutta la città. Se la coté mélo è abbastanza prevedibile, con l'incontro/scontro tra i due giovani che devono affidarsi al traduttore dello smartphone per tentare capirsi, è invece pieno di sorprese lo sviluppo di tutta la vicenda, con la scoperta della natura contraddittoria delle manovre di Annibale per conservare la "romanità" del ristorante, i tentativi di sedurne la proprietaria, manipolare il figlioccio e tutelare i propri interessi, e la verità sulla sparizione di Yun e di Alfredo, per cui non entro nei particolari per non svelare nulla. Detto delle grandi qualità di Manetti nel rendere spettacolare un film già movimentato di suo, sottolineata l'ottima fotografia e l'accuratezza dell'ambientazione, la parte "atletica" si regge sulle spalle della sorprendente Yaxi Liu, davvero cresciuta in una famiglia cultrice di arti marziali e diventata non a caso stunt woman e qui reinventata, con successo, come attrice; se nel suo ruolo di criminale del mileiu romano Giallini è imbattibile, altrettanto lo è la Ferilli in quello di moglie abbandonata e di madre, così come molto bene si difende Chunyu Shanshan come boss cinese in via di romanizzazione, con inaspettate punte di ironia e bontà d'animo, pur essendo un delinquente scafato, però a suo modo "umano". Insomma: come nel caso dei precedenti film di Gabriele Manetti, mi sono divertito molto e rimango in attesa di venire piacevolmente colpito la prossima volta.

domenica 9 marzo 2025

Il seme del fico sacro

"Il seme del fico sacro" (Dāne-ye anjīr-e ma'ābed) di Mohammad Rasoulof. Con Soheila Golastani, Missagh Zareh, Mahsa Rostami, Satareh Maleh, Niousha Akshi, Reza Akhlaghirad, Shiva Ordooie, Amineh Mazrouie Arani e altri. Iran, Germania, Francia 2024 ★★★★+

Presentato al 77° Festival di Cannes l'anno scorso, Il seme del fico sacro era stato candidato all'Oscar come miglior film straniero dalla Germania, dove il regista Rasoulov si era nel frattempo rifugiato dopo una serie di condanne subite in Iran, mentre Soheila Golastani, la bravissima protagonista, risulta tuttora agli arresti domiciliari a Teheran, è sicuramente un film politico, ma sarebbe riduttivo definirlo semplicemente come un coraggioso esempio di cinema militante: parla anche di rapporti famigliari, tra i sessi e generazionali che hanno valore universale e delle gabbie mentali che si creano, rendendo arduo capire la vera natura e le motivazioni perfino dei parenti più vicini in relazioni basate sul silenzio e sulla finzione, al di là di una vita in sostanziale reclusione come quella che vivono i personaggi della vicenda. Proprio nel periodo delle ultime manifestazioni di piazza e di massa, con il loro strascico di repressione durissima specie nei confronti dei giovani, il capofamiglia, Imam, dopo anni di lavoro in tribunale è finalmente riuscito a ottenere la promozione a giudice istruttore, il che per la sua ambiziosa moglie (Golastani: superba), figlia di un personaggio controverso, significa anche una casa più grande, vantaggi, insomma una promozione sociale: quello che Imam tace, è che il suo incarico consiste di fatto nel controfirmare le richieste di condanna degli oppositori del regime, comprese quelle, numerose, a morte e fare, in sostanza, il passacarte della pubblica accusa. Per la sua sicurezza, gli viene consegnata una pistola col suo carico pallottole, che però a un certo punto sparisce, e il magistrato entra in paranoia, perché se non la ritrova le conseguenze per lui sarebbero gravissime. A completare il quadro famigliare, le due figlie Rezvan e Sana, studentesse, che simpatizzano per i manifestanti seguendo le proteste sui loro cellulari o, quando possono, anche dal vivo e, peggio ancora, convincono la madre a ospitare una loro amica che ha avuto il volto sfregiato durante un pestaggio da parte dei "Guardiani della Rivoluzione", cosa di cui Imam è tenuto all'oscuro. I segreti si accumulano, e la loro gestione diventa vieppiù complicata. Il racconto procede come un thriller, in uno stato di crescente tensione, e la vicenda, che assume toni sempre più drammatici, si trasferisce dall'appartamento di Teheran (il film è stato girato quasi totalmente in interni, con le attrici a capo scoperto, e gli esterni consistono in materiale documentaristico d'archivio) alla casa di famiglia di Imam in un villaggio rurale disabitato fuori dalla capitate immerso in un paesaggio brullo e desolato, dove si svolge la parte finale, il "chiarimento" definitivo ossia il redde rationem che, ovviamente, non sto a svelare e che mette a nudo tutte le dinamiche accennate sotto traccia precedentemente: i nodi vengono al pettine, con un bel pugno nello stomaco. Regista con le idee chiare, sceneggiatura solida, interpretazioni all'altezza, Golastani su tutti: del resto il cinema iraniano è da sempre garanzia di grande qualità e, pur trattando della drammatica situazione del Paese, e delle sue contraddizioni, è sempre in grado di parlare a tutti perché alcuni temi di fondo, a cominciare dai complicati rapporti tra le persone, sono universali. 

mercoledì 5 marzo 2025

Becoming Led Zeppelin

"Becoming Led Zeppelin" di Bernard MacMahon. Con Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e John "Bonzo" Bonham. GB 2025 ★★★★★

Imperdibile per chi ha vissuto la gloriosa era dei primi Settanta (con i suoi prodromi), Becoming Led Zeppelin è qualcosa di totalmente diverso da un documentario con tanto di interviste a sedicenti esperti, colleghi, critici, manager, all'occorrenza groupies, di stelle del rock dell'epoca, e non è nemmeno un film-concerto: Bernard MacMahon l'ha concepito esattamente come gli Zeppelin, a cominciare dalla loro "mente" Jimmy Page, hanno concepito sé stessi, fondendo nel gruppo esperienze e influssi totalmente diversi e presentando il "prodotto finito", senza farsi condizionare e manipolare da discografici, intermediari convenienze. Parlano solo i quattro componenti della band, compreso John "Bonzo" Bonham, il loro poderoso batterista, in una delle rarissime interviste concesse in vita (deceduto nel 1982, il gruppo, solidissimo e solidale e che si concepiva come un intero, si era immediatamente sciolto appena dopo la sua scomparsa. Per dire, i Rolling Stones erano perfettamente concepibili, e infatti sono andati avanti, perfino migliorando, dopo la defezione di Brian Jones, Mick Taylor, Bill Wyman: gli Zeppelin no, senza uno dei loro membri non avrebbero avuto senso e a saperlo erano loro per primi) e l'argomento sono la musica, comprese questioni tecniche di non poco conto, che spiegano la straordinaria alchimia che si è creata tra quattro artisti di formazione e influenze diverse, ma tutti musicisti che si erano fatti le ossa come turnisti (John Paul Jones soprattuto come arrangiatore) già da giovanissimi nella Londra degli anni Sessanta (Page fece l'assolo nel tema di 007 Goldfinger cantato da Shirley Bassey ad appena 17 anni...) oppure erano già conosciuti nel circuito come Bonzo e Plant, nati e cresciuti entrambi nelle Midlands. Il film racconta la formazione di questo primo, straordinario  "Supergruppo" (che non era nato come tale, a differenza di Cream, Toto e altri) e la sua esplosione, nell'arco di un solo anno, con un percorso inverso rispetto agli altri gruppi britannici di quegli anni. Mentre Beatles, Stones e decine di altre band ebbero successo dapprima in Gran Bretagna, nutrendosi di musica americana, gli Zeppelin incisero il primo disco, nell'arco di un mese, negli USA, con la Atlantic, gloriosa etichetta newyorkese, presentando il lavoro finito (una "fissa", come accennavo sopra, di Jimmy Page, che lo aveva prodotto da solo, grazie alla sua già immensa esperienza da studio), seguito da un tour, organizzato dal lungimirante manager americano, da Ovest a Est: tra il  concerto al Fillmore East di San Francisco del 9 gennaio 1969, peraltro data di nascita di Page (classe 1944, per inciso), e quello del 9 gennaio del 1970 alla Royal Albert Hall di Londra, ritorno a casa dei "figliol prodigi" e relativa consacrazione, corrono solo 12 mesi e un altro album, Led Zeppelin II, il più dirompente, quello di Whole Lotta Love, un pezzo definitivo, che ha segnato la storia della musica. Giustamente Page e soci non vogliono sentir parlare di generi: il loro mix, che dipendeva dalla sensibilità e storia di ognuno dei componenti, era unico, e gli stili e preferenze dei singoli hanno sempre trovato spazio sia nei loro lavori in studio sia nei loro concerti, inarrivabili come potenza e complessità ma che riservavano sempre largo spazio per la creatività di ognuno. Un piacere sentirli parlare, con la grande modestia e riservatezza che hanno sempre avuto (non si sono mai autopromossi, hanno sempre impedito che qualcun altro mettesse le mani sia sui loro lavori sia che manipolasse la loro vita privata), che mostra da un lato professionalità e rispetto per sé stessi ma dall'altro sincerità e autenticità, di cui hanno sempre dato prova. Il pubblico, già 50 anni fa, lo percepiva fisicamente. Io compreso. Ero al Vigorelli di Milano, 16 anni, appena rimandato in greco e latino al ginnasio, il 5 luglio 1971, unica loro esibizione italiana: 15' di concerto, interrotto per una battaglia campale tra "autoriduttori" (il biglietto era a 1500 lire, l'equivalente, inflazione compresa, di non più di 10 € attuali) e polizia, che lanciavano irresponsabilmente lacrimogeni da un lato e bottiglie incendiarie dall'altro (in un velodromo costruito in legno...): impianto di amplificazione staccato, la voce di Robert Plant, a 50 metri di distanza, in mezzo ai botti e alle sirene, si udiva ancora. Energia pura. Questo erano i Led Zeppelin. E la loro musica stratificata e raffinata molto oltre le apparenze e le solite classificazioni di comodo e luogocomuniste, tipo i "fondatori dello Heavy Metal" o "emblemi dello Hard Rock" da parte di chi non ha mai preso in mano uno strumento e che al posto dell'orecchio ha sì e no un imbuto. In moplen...

domenica 2 marzo 2025

Fiume o morte!

"Fiume o morte!" di Igor Bezinović. Con la partecipazione della cittadinanza di Rijeka/Fiume tra cui Izet Medošević,Ćenan Beljulji, Albano Vučetić, Tihomir Buterin, Andrea Marsanich, Massimo Ronzani, Milovan Večerina Cico e altri. Croazia, Italia, Slovenia 2025 ★★★★1/2

Presentato in anteprima esattamente un mese fa al Film Festival di Rotterdam, dove ha ottenuto il Premio Tiger, Fiume o morte!, che rievoca la cosiddetta Impresa di Gabriele D'Annunzio che durò 16 mesi, dal settembre 1919 al dicembre successivo, e distribuito da Wanted, è uscito con delle proiezioni di prova a partire dal 17 febbraio in alcune sale del Friuli Venezia Giulia, una per provincia: il positivo riscontro di pubblico, in una regione particolarmente sensibile al tema, e dove era lecito attendersi reazioni negative, ha fortunatamente indotto alla distribuzione a livello nazionale, che avverrà a breve. Un bene, perché si tratta di una ricostruzione da un lato estremamente accurata (basata su meticolose ricerche d'archivio, testimonianze, materiale fotografico e filmati dell'epoca) e dall'altro riproposte in maniera molto originale, coinvolgendo la cittadinanza e sovrapponendo l'azione dei volontari attuali (persone comuni reclutate nei mercati o lungo il Corso cittadino) che posano negli stessi luoghi delle foto di allora o mimano e declamano azioni e discorsi significativi dell'occupazione durata 16 mesi della città. Mi incuriosiva il fatto che il film è proposto in lingua originale: il realtà il croato, sottotitolato in italiano, è usato solo nella prima parte del film (o docufilm, come lo si è voluto definire: secondo me è un film a tutto tondo, almeno quanto lo sono quelli tanto celebrati di Wes Anderson, per quanto con un impianto teatrale. Io lo definirei situazionista, e per me un complimento), quando Bezinović, fiumano di Sušak, la parte meridionale della città, oltre il Fiumara (l'Eneo) già ai tempi popolata quasi esclusivamente da croati, intervistava i concittadini per strada chiedendo loro se sapessero chi fosse D'Annunzio e qualcosa dell'occupazione della città da parte dei suoi Arditi: tra i più giovani nessuno ne sapeva nulla, solo col crescere dell'età qualcuno ne aveva una idea più o meno precisa: "un fascista italiano", "un esaltato", "un occupatore", "un delirante". Tra loro, il regista ha reclutato dei volontari per interpretare gli "invasori" di allora, in particolare 11 calvi, per la parte di D'Annunzio, e durante le prove e le "azioni", i personaggi parlavano in fiumano, dialetto che anche buona parte degli slavi di Rijeka conoscono e parlano tuttora, spesso anche tra loro, come può testimoniare chiunque frequenti come me la zona così come tutta l'Istria e la Costiera Dalmata. L'effetto è da un lato straniante e dall'altro divertente: non c'è nulla di anti-italiano o di "panslavista": la vicenda fiumana, tra il cialtronesco e il demenziale, com'era inevitabile, gestita da un personaggio egolatra e farneticante come D'Annunzio, non a caso chiamato allora e perfino adessoVate in Italia, benché avesse anche ragioni e contenuti comprensibili (il trattamento riservato all'Italia nel primo Dopoguerra nonché la sorte dei reduci di guerra, una gioventù che faticava a reintegrarsi e nutriva pulsioni di rivalsa: il vitalismo ed estetismo dannunziano era fatto apposta per attirarli) è raccontata cronologicamente e con rigore storico, la sovrapposizioni dei manipoli giovani croati in divisa grigioverde italiana ed elmetto nelle strade di oggi, dei vari "D'Annunzi" a tenere discorsi, sono esilaranti. Esempio di antiretorica e pacifismo da manuale che inevitabilmente entra in collisione con l'indole parolaia e, attualmente, di nuovo bellicista e con la scarsa memoria storica del nostro Paese, dove al contempo ha ancora credibilità la favola dell'italiano brava gente e bonaccione. Intendiamoci: mediamente è così, per quanto riguarda la gente comune in Italia come in tutti i Paesi del mondo, altra cosa quando si parla di politici e rapporti di potere. Sarà retorica e luogo comune pure questo, ma io la vedo così. Andrebbe proiettato ogni 10 febbraio, nel Giorno del Ricordo (in un Paese che ne è del tutto privo) istituito nel 2004 per "celebrare" l'esodo degli istriani e dei fiumano-dalmati nel secondo Dopoguerra. Giusto per raccontarne i prodromi. 

mercoledì 26 febbraio 2025

Amadeus


"Amadeus" di Peter Schaffer, uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Con Ferdinando Bruni, Daniele Fedeli, Valeria Andreanò, Riccardo Buffonini, Matteo de Mojana, Alessandro Lussiana, Ginestra Paladino, Umberto Petranca, Luca Torraca. Luci Michele Ceglia; suono Gianfranco Turco; assistente ai costumi Elena Rossi; assistente alla regia Giorgia Bolognani; realizzazione costumi Elena Rossi, Alessia Lattanzio, Monica Fedora Colombo, Grazie Ieva; realizzazione scene Marina Conti, Giancarlo Centola, Tommaso Serra. Produzione Teatro dell'Elfo con il contributo di NEXT, Laboratorio delle idee per la Produzione e la programmazione dello spettacolo lombardo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano, fino al 2 marzo

Erano più di due anni che, per causa di forza maggiore, non assistevo a uno spettacolo dell'Elfo, e ne sentivo fortemente la mancanza: mi sono rifatto domenica scorsa con Amadeus di Peter Schaffer, da cui 40 anni fa Miloš Forman aveva tratto l'omonimo film che ai tempi aveva conquistato qualcosa come 5 Oscar: un successo planetario. Rigorosamente aderente al testo, di cui Ferdinando Bruni ha curato la traduzione, oltre a essere mattatore assoluto dello spettacolo nella parte di Antonio Salieri, voce narrante, che in punto di morte racconta la sua versione dei fatti dei rapporti con Mozart, millantando il "merito" della morte in disgrazia a soli 35 anni, 33 prima di quella del suo presunto "assassino", che ha goduto sì di fama durante la sua lunga vita (questo il suo "patto con Dio, stretto nella natìa Legnago, nel Veronese, per diventare, nella sua lunga carriera, Maestro di Cappella e compositore di corte degli Asburgo a Vienna) ma non la fama imperitura, arrisa invece al suo più giovane e ben più geniale rivale. Sempre che di rivalità si possa parlare tra due persone divise da un abisso caratteriale e soprattutto, di talento. E' dunque Salieri/Bruni a dialogare col pubblico fin dalla prima scena in cui, ridotto in carrozzella, gli chiede provocatoriamente se sia vera o falsa, come sostengono i "venticelli", che sia stato lui ad avvelenare il salisburghese, autentica e inarrivabile rock star dell'epoca: rotto il patto con Dio, che gli ha sì dato successo e notorietà ma presentato il conto preferendogli un avversario imbattibile sul piano musicale, quello a cui Salieri teneva, e che gli ha fatto bere l'amaro calice di vedere svanire la propria fama e quella delle sue opere molto accademiche ancora in vita mentre cresceva a esponenzialmente quella di Mozart, soprattutto dopo la sua tragica scomparsa in miseria fino all'immortalità: piuttosto che andarsene nell'anonimato, è Salieri stesso ad avvalorare la voce di esserne stato l'assassino, a costo di passare per un infame e un malvagio. Parte ardua, quella di Salieri, pienamente nelle corde di Bruni, capace di passare da un registro di voce all'altro con una facilità impressionante (da sempre il cofondatore dell'Elfo assieme a Gabriele Salvatores cura in modo particolare l'aspetto vocale) così come nell'espressione e nella postura, senza perdere mai misura e compostezza; così come non era facile quella del giovane Daniele Fedeli in quella del capriccioso, irriverente, infantile, a tratti ingenuo ex bambino prodigio Wolgang Ama-Deus (un nome che per Salieri suona come un tradimento): inevitabile il raffronto, per chi ne conserva il ricordo, con la esplosiva e perfino esagerata vitalità, a tratti buffonesca, di Tom Hulce nel film di Forman, ma assolutamente nella parte, così come l'ancor più giovane Valeria Andreanò, solo ventiduenne, in quella di Costanze Weber, la moglie del genio che ha rivoluzionato la musica, in cui gli "Elfi" hanno, probabilmente a ragione, intravisto una sicura promessa del palcoscenico, e all'altezza tutti gli altri interpreti. Suoni e luci da manuale, costumi impeccabili e una scena essenziale quanto funzionale, usuali punti di forza della compagnia milanese, completano e assicurano il successo di uno spettacolo divertente quanto istruttivo, incentrato sul rapporto tra la mediocrità di massa, e dunque collettiva, con la solitudine del genio, che vive in un mondo a sé stante, quasi incapace di comprendere l'umanità che lo circonda ed entrare in rapporto con essa, in un corto circuito reciproco. Spettacolo in prima nazionale, l'augurio è che vada presto in tournée attraverso la Penisola!