lunedì 8 settembre 2025

I Roses

"I Roses" (The Roses) di Jay Roach. Con Olivia Colman, Benedict Cumberbatch, Andy Samberg, Kate McKinnon, Allison Janney, Sunita Mani, Ncuti Gatwa, Zoe Chao, Jamie Demetriou e altri. USA 2025 ★★1/2

Eccoci al rifacimento, 36 anni dopo, de La guerra dei Roses, tratto dall'omonimo romanzo di Warren Adler e diretto da Danny De Vito: commedia noir sulla disastro finale di una relazione coniugale apparentemente perfetta, almeno fino allo scoppio della crisi, era un film di una cattiveria fumigante, scorretto, rimasto nella memoria anche per l'interpretazione superba dei due protagonisti, Michael Douglas e Kathleen Turner. Questo ne è la versione edulcorata e buonista, se non pensata espressamente per l'infanzia, per un livello di apprezzamento non molto più in là, non a caso  prodotta dalla Disney: i dissidi di coppia sono perlopiù verbali e si sostanziano in battute spesso sagaci di humor tipicamente inglese, che contrastano con l'ambientazione invece californiana. E inglese è la coppia di interpreti, che di per sé è l'unico aspetto che giustifica il prezzo del biglietto, dove Cumberbatch è Theo, un ambizioso architetto frustrato dai dormitori a forma di cubo che gli tocca progettare nello studio in cui lavora e la Colman è Ivy, una fantasiosa e irriverente chef di un ristorante alla moda dove le archistar londinesi usano cenare. Lui si intrufola in cucina, si punzecchiano verbalmente e si amano al primo scambio di frecciate. Nascono due figli e la coppia si trasferisce in California (non si capisce bene perché) e quando i ragazzi ormai sono sui 10 anni e non hanno più bisogno che la madre li segua tutto il giorno, Ivy, su idea del marito, apre un modesto ristorantino per rinverdire la sua passione gastronomica. Gli yankees, si sa, sono degli analfabeti in materia ed è sufficiente che qualcuno proponga qualcosa di diverso da hot dogs, donuts, thamurgers, tacos e quella cosa che loro osano chiamare pizza per ottenere un successo che diventa travolgente quanto inaspettato. Nel frattempo, Theo ha costruito un suggestivo e stravagante museo nella cittadina sulla costa in cui vivono, dotato di una vela sul tetto: durante un violento nubifragio, questa non solo si stacca ma causa il crollo dell'intera struttura. Come se non bastasse, il tutto, compreso Theo che smadonna e si dispera, viene filmato e divulgato in rete, diventando virale. Carriera rovinata, i ruoli della coppia si ribaltano e sarà lui dovere occuparsi della casa e dell'educazione della prole mentre lei seguirà il locale, che avrà così tanto successo da avere delle gemmazioni, in franchising, in tutto lo Stato. I rancori e la frustrazione covano sotto la cenere benché Ivy, generosamente, incarichi Theo di progettare e costruire, in mezzo ai boschi e con vista Oceano, la casa dei loro sogni: un progetto all'altezza delle sue (esagerate) ambizioni professionali. Quando vedrà finalmente la luce, e sforato ampiamente ogni budget grazie alle fisime estetizzanti e cervellotiche tipiche dell'architetto à la page, e i ragazzi, indirizzati in modo maniacale all'atletismo dal padre, subodorando la crisi  di coppia hanno ormai preso il largo con la scusa di una borsa di studio sportiva in un liceo della Florida, dall'altro capo degli States, complice una cena di inaugurazione con due coppie di amici locali, uno più deficiente dell'altro, il conflitto, cresciuto a forza di invidia, competizione, risentimento, si scatena e avrà per oggetto la proprietà della casa in caso di divorzio, ma occupa uno spazio molto minore rispetto alla prima versione cinematografica, è platealmente poco credibile, e anche l'epilogo, con la morte di entrambi i contendenti, è di fatto uno happy end, cosa che manca del tutto nel film di De Vito, che è a ben altri livelli rispetto a questo Jay Roach, autore di pellicole sul cazzone andante. A loro modo divertenti ma senza mordente. Cose da bambini per l'appunto. Però qualche sommessa risata perfino I Roses riescono a strapparla. 

mercoledì 3 settembre 2025

L'ultimo turno

"L'ultimo turno" (Heldin) di Petra Biondina Volpe. Con Leonie Benesch, Sonia Riesen, Alireza Bayram, Selma Jamal Aldin, Urs Biehler, Jasmin Mattei, Andreas Beutler, Lale Yavas e altri Svizzera, Germania 2025 ★★★★★

Un film splendido, nella sua semplicità, perché vero e interpretato in maniera così credibile da far venire il dubbio che si tratti di un documentario oppure davvero del personale di un ospedale cantonale della Svizzera tedesca alle prese con dei pazienti reali. Siamo in un'affollata corsia di un reparto di medicina interna, che nel turno pomeridiano viene gestito da sue sole infermiere: Floria, la bravissima Leonie Benesch, a la collega Bea, che si occupa dell'altro settore, con l'unico supporto di una giovane tirocinante da istruire. La telecamera della regista la segue passo passo durante le sue frenetiche ore di servizio in lunghi piani sequenza che consentono allo spettatore di identificarsi con la protagonista: efficiente, precisa, ma soprattutto umana, riesce a stare dietro a tutti i ricoverati: chi in attesa ansiosa di un referto o della visita di un medico (non ne transiterà uno in tutto il pomeriggio, e Floria incontrerà una chirurga, altrettanto stressata dopo una giornata in sala operatoria, che rispondendole in malo modo rimanderà alla mattinata successiva il colloquio con un malato che l'attendeva ansioso fin dall'inizio della giornata), chi rassegnato alla fine, chi affetto da demenza senile, chi disobbediente, chi indisponente come un assistito con assicurazione privata sistemato in camera singola a pagamento, che pretenderebbe di avere un servizio da Grand Hotel senza rendersi minimamente conto della realtà in cui si trova a operare il personale della struttura. Come se non bastasse, le tocca avere a che fare anche coi parenti di una moribonda e gestirli dopo averne annunciato il decesso. Sempre in prima linea, anche  con problemi di comunicazione in una realtà, quella elvetica, dove la presenza di immigrati non del tutto integrata è ben più massiccia che in Italia. Un vero angelo, oltre che una eroina (Heldin), come da titolo in tedesco. E di eroismo del personale sanitario si era parlato ai tempi dell'epidemia di Sars CoV-2, alias Covid19, in tempi che oggi sembrano remoti, tanto li abbiamo rimossi dal nostro immaginario, eppure sono trascorsi soltanto quattro anni dalla fase più acuta, senza che dall'allucinante si sia imparata alcuna lezione. Se possibile, la situazione su lato sanitario è perfino peggiorata, specie nel settore pubblico, a causa dei continui tali di spesa (nell'UE si preferisce finanziare il riarmo e perfino concedere agli Stati di indebitarsi ulteriormente per esso), ma quello che è messo peggio è proprio il personale infermieristico, quello a più stretto contatto con i degenti: un lavoro durissimo che non è possibile fare se, oltre ad averne le capacità professionali e uno spirito di sacrificio sovrumano (i pazienti di Floria, compreso alla fine quello più odioso, le riconosceranno una caratura angelica) non si è dotati di un'empatia e una dedizione fuori dal comune. Bastano 90 minuti filmati in maniera essenziale quanto efficace per descrivere una realtà e denunciare una situazione che sta assumendo dimensioni drammatiche: in una dicitura al termine della pellicola si rimarca che in un Paese come la Svizzera, con un sistema sanitario che altri Paesi europei, a cominciare dal nostro, possono soltanto sognarsi e con degli stipendi di ben altro livello rispetto ai nostri, più di un terzo degli infermieri abbandona il lavoro dopo 4 anni di servizio ed entro il 2030 ne mancheranno almeno 30 mila di quelli specializzati. Questo con una popolazione che inesorabilmente invecchia in tutto il Continente. Sarebbe ora che chi governa (?) se ne occupi. Invece nei media prevalgono la propaganda bellica e il pettegolezzo sui VIP, tanto siamo messi male. E, per quanto riguarda il cinema, l'argomento è come si veste chi sfila sul red carpet sul Lido di Venezia alla Mostra del Cinema in corso. Oltre che ben fatto, un film necessario: ma lavori come questo un premio prestigioso non lo vinceranno mai. Nemmeno alla Berlinale, uno dei pochi festival seri rimasti, dove pure è stato presentato quest'anno.

giovedì 28 agosto 2025

Anora

"Anora" di Sean Baker (II). Con Mikey Madison, Mark Eydelshteyn, Yuriy Borisov, Karen Karagulian, Vache Tovmasyan, Ivy Volk, Lindsey Normington, Alena Gurevich, Paul Weissman, Darya Ekamasova, Aleksey Serebryakov e altri. USA 2024 ★★★-

Secondo "ripescaggio" estivo, Palma d'Oro a Cannes e cinque premi Oscar (tra cui miglior film, miglior regia e migliore attrice protagonista) nel 2024, un battage pubblicitario esagerato in cui è caduta la critica più corriva hanno fatto di Anora del semisconosciuto Sean Baker il fenomeno della passata stagione cinematografica, quando è nulla più di un film tipicamente newyorkese (che palle!), un assemblaggio di situazioni già viste mille volte, una commedia sexy-sentimentale-drammatico-gangsteristica con sfumature noir, che può essere tanto divertente quanto noiosa e a tratti irritante (140 minuti sono decisamente troppi), a seconda dei gusti e dell'umore dello spettatore. Anora (detta Ani) è una ventitreenne spogliarellista dall'aspetto esotico e particolarmente snodata specializzata in lap dance, che su richiesta offre servizi pagamento, insomma una sex worker, come si usa dire oggi, che "esercita" in un locale notturno di Brooklyn: una sera viene spedita in un privé dove è apparso Vanja, figlio scavezzacollo e alquanto cretino di un noto oligarca russo coi suoi amici, perché è l'unica a conoscerne la lingua, imparata dalla nonna uzbeka. I due si piacciono, lei fisicamente a lui, i sui soldi e la giocosità di Vanja a lei, tantoché dopo un paio di convegni erotici Anora viene ingaggiata dal ragazzo per fare la "fidanzata" in esclusiva per una settimana. Tra sesso e alcol a go-go, ci scappa un viaggio a Las Vegas dove, guarda caso, Anora riceve una proposta di matrimonio che, novella Pretty Woman, non può rifiutare perché la sua vita svolterebbe, ma anche quella di Vanja, che detesta i suoi genitori ed è negli USA con un permesso di studio: sposando una jankee, otterrebbe la tanto ambita Green Card che lo affrancherebbe dalla famiglia. La quale però gli manda alle calcagna T'oros, il faccendiere armeno di fiducia di stanza a New York che tiene d'occhio l'inaffidabile erede, e i suoi due scagnozzi, allo scopo di far annullare il matrimonio. Prima cercano di convincere la novella sposa, che non vuole mollare l'osso, e la "sequestrano", poi Vanja sparisce e il quartetto, ragazza compresa, lo cerca in un delirante viaggio notturno nei vari luoghi che avrebbe potuto frequentare, e lo beccano nell'ex locale in cui lavorava Anora a trastullarsi con la sua peggiore nemica tra le ex colleghe. Nel frattempo sbarcano a New York anche i genitori di Vanja e tutti insieme appassionatamente si ritrasferiscono a Las Vegas alla ricerca di un avvocato divorzista. Vanja alla fine cede ai genitori e Anora abbozza in cambio di 10 mila dollari e dell'anello di matrimonio, che ne vale ben di più e che non si trova: l'ha intascato e conservato Igor, uno degli scagnozzi, quello "buono" e dal cuore tenero che nel frattempo si è innamorato della ragazza, la quale per ringraziarlo gli si concede per una sveltina in macchina, ma quando lui tenta di baciarla, Anora scoppia in lacrime. Fine del film. Che subliminalmente vuole, forse, lanciare qualche messaggio, oltre ai soliti luoghi comuni sui russi, slavi e caucasici in generale: l'attrazione irresistibile per il denaro, tutto ciò che luccica, lo sfarzo, la volgarità. Battute a raffica, situazioni altamente improbabili, una buona dose di grottesco rendono la pellicola movimentata e sopportabile la sua durata, e relativamente divertente, ma non certo irrinunciabile. Insomma, tanto rumore, e tanto sberluccichio per poca roba, tutto sommato. Bravina (specie nelle contorsioni) Mikey Madison (Anora), sopra le righe, come da parte, Mark Eydelshteyn (Vanja), gli interpreti più convincenti risultano però Yuriy Borisov (Igor, il "gorilla" innamorato), Karen Karagulian (T'oros), e Darya Ekamasova (Galina Zacharova, la madre di Vanja). In gamba il regista a rendere alla fine abbastanza gradevole questa specie di delirio visivo. 

domenica 24 agosto 2025

La zona d'interesse

"La zona d'interesse" (The Zone of Interest) di Jonathan Glazer. Con Christian Friedel, Sandra Hüller, Johann Karthaus, Luis Noah Witte, Nele Ahrensmeier, Lilli Falk, Ralf Herforth, Max Beck e altri, GB, Polonia, USA 2023 ★★★+

La pressoché totale desertificazione della programmazione cinematografica estiva mi ha dato l'opportunità di ripescare un paio di film che mi ero perso nelle stagioni passate. Il primo, che ha ricevuto l'Oscar come miglior film internazionale e quello per il suono nel 2024, è La zona d'interesse. Sono numerose le pellicole sui campi di concentramento nazisti, ma questa è unica nel suo genere, perché non descrive lo sterminio metodico che avveniva all'interno di quello più famoso, Auschwitz, bensì la carriera professionale e la vita famigliare di chi lo aveva costruito e lo dirigeva: Rudolf Höß (qui reso in maniera eccellente da Christian Friedl). La "zona di interesse" era, per l'appunto, l'area di circa 25 mila miglia che lo circondavano, dove abitavano il comandante e la moglie Hedwig (la sempre brava Sandra Hüller) coi loro cinque pargoli, in una elegante villa dotata di tutti i comfort, piscina compresa, divisa soltanto da un muro dalle baracche in cui sopravvivevano a stento e ammassati i prigionieri e i forni dove venivano eliminati quelli non più abili al lavoro. Un'esistenza tranquilla e serena da famiglia borghese esemplare, Frau Höß a dirigere il personale domestico (ragazze locali, qualche volta per i lavori pesanti veniva reclutato qualche detenuto), dividersi tra la amiche vestiti e gioielli sottratti agli internati, ché tanto a loro non sarebbero più serviti, e soprattutto occuparsi del suo amato giardino, a cui si era devotamente occupata negli ultimi anni e di cui andava orgogliosa. Certo, qualche inconveniente c'era: qualche volta l'abbaiare furioso dei cani, fumi dall'olezzo dolciastro e persistente, ceneri "misteriose" che si depositavano nel torrente in cui in estate si andava a bagnarsi e il marito, occasionalmente, a pesca. Parallelamente, la carriera di Rudolf, che si lamentava dell'inefficienza della "macchina" nnché dei suoi sottoposti, e proponeva piani per il miglioramento della "produzione", specie dopo che a partire dal 1940 venne avviata la "soluzione finale" della questione ebraica: fu lui a incentivare l'utilizzo del Zykon B utilizzato nelle camere a gas. Quando nell'autunno del 1942 verrà richiamato a Oranienburg, presso Berlino, la moglie convinse il consorte di chiedere ai suoi superiori di autorizzarla a non seguirlo, perché i bambini potessero continuale a vivere all'aperto, in campagna, e respirare "aria pulita" invece che in città diventate ormai insicure e a Höß venne affidato un piano intitolato a suo nome, l'Aktion Höß, che prevedeva il trasporto capillare di 700 mila ebrei ungheresi nei vari campi di concentramento e che il nostro ufficiale delle SS portò a termine con la consueta minuziosa precisione permettendogli di tornare in quell'angolo di "piccolo paradiso famigliare" ad Auschwitz, dove entrò in funzione anche li secondo campo, quello di Birkenau. Insomma, l'illustrazione visiva ed acustica (non a caso, come accennato, il film è stato premiato per il sonoro) e subliminalmente olfattiva di quella che Hannah Arendt avrebbe descritto nel suo sempre citato (e sempre troppo poco letto) La banalità del male del 1963, un rapporto del processo contro Eichmann, tenutosi a Gerusalemme due anni prima. Anche qui abbiamo a che fare con un burocrate del genocidio alla sua altezza: fu invece giudicato a Norimberga e impiccato nel 1947 proprio davanti all'ingresso del campo di Auschwitz, ma di questo il film non parla, mostrandoci soltanto l'interno dell'attuale museo dell'Olocausto, straniante quanto il film nella sua quotidianità di attrazione turistica (con tanto di supermercati, caffè e negozi di souvenir, a sua volta orripilante banalizzazione dell'orrore: sconsiglio a chiunque di metterci piede, dopo averlo fatto di persona una ventina di anni fa). Insomma un film da vedere e su cui riflettere, inquietante e con uno sguardo originale quanto penetrante sull'argomento. E sui mostri che ci circondano e di cui volenti o nolenti facciamo parte (vedi Gaza).

venerdì 8 agosto 2025

Una sconosciuta a Tunisi

"Una sconosciuta a Tunisi" (Aïcha) di Mehdi Bersaoui. Con Fatma Sfarr, Nidhal Saadi, Yassmine Dimassi, Hela Ayed, Mohamid Ali Ben Jemaa, Ala Benhamad, Saoussen Maalej e altri. Francia, Tunisia, Italia, Qatar 2024 ★★★★

Il secondo lungometraggio di Mehdi Bersaoui ha ampiamente mantenuto tutte le aspettative che avevo, memore del notevole film d'esordio del regista tunisino, Un figlio,  presentato pure esso e premiato a suo tempo alla Mostra del Cinema di Venezia del 2019: mentre quello era un dramma famigliare che si svolgeva sullo sfondo della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011 in Tunisia, questo si ispira a un fatto di cronaca avvenuto in seguito a quella rivolta, in un Paese sì pacificato e liberato dalla dittatura ma pur sempre in preda di profonde contraddizioni, fra tradizione e presente, città e campagna, emancipazione femminile e retaggi maschilisti: in più, dopo anni di oppressione, difficile fidarsi di uno Stato inefficiente, in questo caso rappresentato dalla polizia. Mehdi Bersaoui si affida alla vena di Fatma Sfarr, nella sua metamorfosi da Aya ad Amira infine ad Aïsha, adeguandosi alla trasformazione sia fisica sia psicologica di una giovane donna. Quasi trentenne, Aya vive a Tozeur, nel Sud del Paese, mantenendo dai suoi 14 anni i genitori col suo lavoro di cameriera in un resort di lusso dove si reca quotidianamente a bordo di un minivan assieme ad altri impiegati dell'albergo. Fallito e muto il padre, la madre vorrebbe imporle un matrimonio combinato con un anziano abbiente al solo scopo di ricevere ancora più soldi, vantaggi e, magari, prestigio sociale. Come se non bastasse Aya, che oltre a non aver potuto proseguire negli studi, come avrebbe desiderato, non ha mai nemmeno visto il mare, ha una relazione tossica col direttore dell'albergo, che da anni le promette di lasciare la moglie per cominciare una nuova vita insieme ma ovviamente svicola. Un giorno il pullmino sul quale compie il suo tragitto quotidiano ha un incidente e precipita in un burrone: Aya, l'unica sopravvissuta, riesce a uscire dalle lamiere prima che bruci dopo l'esplosione del serbatoio e, sapendo che l'autista aveva preso a bordo un'ulteriore passeggera non compresa nella lista, coglie al balzo l'occasione perché il corpo della sconosciuto risulterà il suo, e lei sarà libera. Recupera quindi di nascosto del denaro nascosto dal suo amante in una cassaforte dell'albergo e con quello va a Tunisi, dove assume l'identità di Amira, prenderà in affitto senza documenti e sulla parola una stanza nell'appartamento di una studentessa, Lobna, che la introduce nella sfavillante vita notturna della capitale, che inizia a frequentare assieme a una coppia di amici, di cui uno, Rafik, un traffichino "intoccabile", si rende corresponsabile della morte di un ragazzo, Karim, con cui Amira aveva soltanto scambiato qualche sguardo in discoteca. La ragazza, priva di documenti, viene costretta da Rafik a rendere falsa testimonianza (nel pestaggio di Karim c'entrano anche due poliziotti che lavoravano in nero come buttafuori nel locale), così il caso viene derubricato a "incidente" e quindi insabbiato, anche per volere della commissaria responsabile dell'indagine. A non starci, però, è l'ispettore Fares, entrato in polizia proprio perché anni prima il fratello era deceduto in circostanze simili, mai chiarite. Il caso monta per iniziativa di parenti e amici della vittima, anche per la diffusione di notizie in rete, Amira/Aya va in crisi, molla la stanza e la amica, nel frattempo sono spariti pure i suoi soldi, e si rifugia presso la panettiera del quartiere in cui vive che diventa una sorta di madre e amica che non ha mai avuto. Una falla del sistema informatico la dà ancora in vita come Aya, ma sarà Fares a fornirle un'ulteriore, e stavolta sicura nuova identità in cambio della sconfessione della sua iniziale falsa testimonianza, assieme a un certificato di morte di Aya (in virtù del quale i genitori avranno un adeguato risarcimento con cui potranno pagare i propri debiti e l'avida madre avere soddisfazione), cosicché la ragazza, finalmente libera da legami, ricatti e catene, potrà davvero iniziare una nuova e consapevole esistenza come Aïcha. Come accennato i livelli del racconto sono diversi e, così come avviene la metamorfosi della protagonista. il film passa dalla commedia drammatica, al poliziesco, al film di denuncia ma anche e soprattutto di documentazione credibile dei contrasti di un Paese complesso e in evoluzione così come i suoi abitanti, Paese peraltro molto vicino e che con l'Italia ha legami stretti da millenni. Sicura la mano del regista, fotografia degna di nota, colonna sonora azzeccata, Fatma Sfarr magnifica ma bravi anche gli altri interpreti, specie quelle femminili, di personaggi non sempre positivi, come la madre di Aya/Aïcha, la commissaria, la convivente e "mezzana" Lobna. Gran bel film.

martedì 29 luglio 2025

100 litri di birra

"100 litri di birra" (100 litraa sahtia) di Teemu Nikki. Con Pirjo Lonka, Elina Knihtilä, Ville Tiihonen, Ria Kataja, Jakob Öhrman, Pekka Strang, Elmer Bäck, Jari Pekkonen, Pertti Sveholm, Vilma Melasniemi, Rami Rusinen e altri. Finlandia, Italia 2024 ★★★1/2

Una conferma per Teemu Nikki dopo il successo di La morte è un problema dei vivi, uscito lo scorso anno, pure in quel caso una produzione italo-finnica: se lì la coppia protagonista era quella di due stralunati becchini, qui sono due energiche sorelle sulla cinquantina che convivono una "nonostante" l'altra, in un insano rapporto simbiotico (la cui portata verrà rivelata sul finale del film), portando avanti la tradizione di famiglia, ossia la produzione di sahti, un tipo particolare di birra, con un processo artigianale che si tramanda da secoli, con l'obiettivo di ottenere la votazione massima, il 10, da parte del padre, sommelier e autorità massima nel paese sperso nella campagna finlandese in cui si svolge la vicenda. Tra un assaggio e l'altro, risse, alterchi coi clienti, abbondanti libagioni in coppia o di gruppo di cui non hanno alcun ricordo il giorno dopo, doposbronze catastrofici, Taina e Pirrko (rispettivamente Pirjo Lonka e Elina Knihtilä, una più dirompente dell'altra) si ritrovano con la cantina desolatamente vuota nell'imminenza del matrimonio della terza sorella, Päivi, trasferitasi a Helsinki dopo un incidente automobilistico (ovviamente conseguenza di una delle colossali bevute di tutti i trasportati) la cui responsabilità era caduta su Taina, cerimonia che si svolgerà nella cittadina natale e per il quale ha chiesto come regalo la produzione di 100 litri del prezioso nettare. La missione risulta pressoché impossibile, considerata sia l'inestinguibile sete e il conseguente costante stato di alterazione delle due sorelle e del loro stralunato aiutante Hauki, sia l'odio nei confronti del principale produttore rivale, l'unico che avrebbe a disposizione un quantitativo adeguato da vendere. Così, dopo aver vanamente cercato di recuperare i crediti coi vari clienti in maniera assai poco urbana, non rimane loro che provare di rubare del sahti in una delle feste che si svolgono in quei mesi estivi nel borgo: quella di laurea di una ragazza e un matrimonio, il tutto con esiti disastrosi, perché il maltolto finisce in fondo al lago e Pirrko finirà pure ricoverata in ospedale ferita e in coma etilico. E' a questo punto che, dopo 30 anni, si sciolgono i nodi del rapporto della strana coppia, e Taina scoprirà di averli vissuti in un costante senso di colpa alimentato proprio da Pirrko, che ha affogato nell'alcol le sue responsabilità nella menomazione di cui è stata vittima Päivi, fagocitando la sorella più debole. Nonostante tutto recupereranno il loro dono di matrimonio acquistando il sahti proprio dall'avversario storico (nonché cugino) e cedendogli pure l'attrezzatura in loro possesso da generazioni grazie alla quale riuscivano a ottenere risultati così spettacolari. Una storia dolce-amara, grottesca e spumeggiante quanto può esserlo una commedia scandinava, ma con quel tocco di follia tipicamente finlandese che caratterizza i film di Teemu Nikki e che ha il suo impareggiabile maestro in Ari Kaurisimäki, e che la rende gradevole in una calda serata estiva anche per il desolante stato della programmazione in sala di questa stagione estiva. 

giovedì 24 luglio 2025

El Jockey

"El Jockey" di Luis Ortega. Con Nahuel Pérez Biscayart, Úrsula Corberó, Mariana di Girolamo, Daniel Fanego, Daniel Giménez Cacho, Roberto Carnaghi e altri. Argentina, Spagna, Danimarca, Messico 2024 ★★★★1/2

Presentato in concorso all'ultima edizione del Festival di Venezia, El Jockey, pluripremiato in America Latina, non era passato inosservato ma non aveva entusiasmato i critici di mestiere, quelli che pascolano nel milieu cinematografaro, per cui è già un miracolo che sia stato distribuito in Italia, non a caso dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti, grazie alla cui apertura mentale appaiono sui nostri schermi anche film poco convenzionali come questo. Disdicevole, poi, come ho già avuto più volte modo di far notare, è la scarsa attenzione al cinema del Continente Desaparecido, a cominciare da quello brasiliano e cileno, ma soprattutto argentino, benché almeno la metà della popolazione sia di origine italiana e perfino il castigliano parlato a quelle latitudini sia talmente italianizzato, tanto per il vocabolario quanto per la cadenza, da essere facilmente comprensibile anche senza l'ausilio dei sottotitoli (che comunque sono previsti nell'edizione originale che circola da noi da alcune settimane). Cinematografie di Paesi e realtà che ci sono molto più vicine e familiari di altre che ci vengono proposte e spesso imposte a profusione, a cominciare da quelle nordamericane o scandinave. Tornando a bomba, Remo Manfredini (Nahuel Pérez Byscayart, un Buster Keaton del Terzo Millennio, di una bravura strabiliante) è un fantino dal talento inarrivabile, che assieme alla fidanza Abril (Úrsula Corberó, universalmente nota come l'interprete di Tokyo ne La casa di carta) lavora per il Clan Sirena, ma è dipendente da alcol e da qualsiasi additivo chimico gli capiti a tiro, con risultati disastrosi per la carriera. Quando non è in condizione di montare, lo fa Abril al posto suo, pur essendone incinta, ma nella gara più importante della sua carriera, e dopo l'acquisto milionario (in dollari) di un cavallo giapponese da parte dei suoi capi, gli tocca correre di persona per saldare i debiti che ha accumulato coi suoi datori di lavoro. Pur essendo tenuto strettamente sotto controllo dagli scagnozzi del boss (tutte facce stupendamente inquietanti, pescate probabilmente nei bassifondi di Buenos Aires, e straordinariamente vere) riesce a bombarsi in maniera tale da tirare dritto sull'ovale del famoso Hípodromo Argentino de Palermo della capitale, sfondandone le transenne, accoppando il cavallo e fracassandosi completamente. Da lì in poi il Clan Sirena gli darà la caccia per fargli la pelle. Traumatizzato e con probabili lesioni al cervello, lo ritroviamo in ospedale con una fasciatura a turbante che gli dà un aspetto femminile: messo sull'allerta da Abril, raccatta una pelliccia lasciata su una sedia e una borsetta e si avventura per le strade di Buenos Aires senza una meta precisa, ma in fuga. Non solo dai Sirena, ma anche dalla sua vita e identità precedente, insomma da sé stesso, senza nemmeno rendersene conto. Perché, come già l'aveva avvertito Abril, cambiare registro si può, ma "ammazzando" l'io precedente. Lo aiuta un vagabondo alcolizzato che incontra in un sordido bar de barrio, e che poi raggiunge nel suo tugurio pur non sapendone l'indirizzo, e che si dimostra il suo unico e vero amico disinteressato e gli consente di difendersi dai Sirena procurandogli una rivoltella. Di cui Manfredini farà buon uso, ma finendo in un ospedale psichiatrico, dove lo ritroviamo ormai completamente femminilizzato, in permanente, sobriamente truccato, che di mestiere ora fa la parrucchiera. Del tutto surreale, a tratti picaresco, ironico e grottesco (i riferimenti a Almodóvar, Jodorowski e soprattutto Kaurisimäki sono evidenti), il film è però tipicamente argentino, i rock "leningradesi" del maestro finlandese sono sostituiti dai tango canción di Gardel, di cui proprio quest'anno ricorrono i 100 anni dalla scomparsa (nonostante ciò, nella considerazione dei porteños, El Troesma "cada día canta mejor"), ma anche da ritmi house parossistici sui quali la coppia Remo/Abril si esibisce con movenze disarticolate ed esilaranti. Potrebbe sembrare un film che ammicca al transgender, ma se lo fa è solo marginalmente, perché il tema vero è l'identità. E per quanto uno possa cercare la propria essenza e cercare di sfuggire agli schemi in cui è costretto dalle circostanze (famiglia, società, il coro stesso), ostaggio di convenzioni o regole rimarrà comunque un individuo, se va bene, in libertà vigilata. E sotto stretta sorveglianza. 96', conciso, timing perfetto, divertente, suggestivo ed evocativo. Io poi ci ho ritrovato un mondo e un ambiente umano che conosco abbastanza bene: un tuffo nel passato che per una volta non mi ha riempito soltanto di malinconia, perché è una realtà che ha una sua vitalità, nonostante tutto. Di Luis Ortega era già uscito, 6 anni fa, L'angelo del crimine, che non mi aveva del tutto convinto, con El Jockey ha fatto dei grandi passi in avanti. Spero di averne presto la riprova.