"Il ponte delle spie" (Bridge of Spies) di Steven Spielgerg. Con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Sebastian Koch, Alan Alda, Peter McRobbie, Austin Stowell, Billy Magnussen e altri USA 2015 ★★★
Il film è fatto bene, forse un po' troppo lungo e a tratti lento (la mano dei fratelli Coen nella sceneggiatura si nota anche da questo), la storia (vera) avvincente, le capacità di Spielberg non si discutono però rimane pur sempre un'americanata. Il solito vecchio western in chiave Guerra Fredda, dove ci sono il buono e il cattivo, anzi: malvagio, col marcio che qualche volta fa capolino anche dalla parte dei "giusti", così come l'umano, a piccole dosi, nel regno del male, ma soprattutto c'è l'eroe puro sí come un giglio, portatore di tutte le Virtù Americane, compresa quella di poter denunciare (con il dovuto garbo, va da sé, e correttezza politica) anche le piccole pecche che affliggono perfino il Migliore dei Sistemi Possibili. In questa parte Tom Hanks è perfetto, con il suo volto infantile a dispetto dell'età ormai del dattero, e il nasino a patata all'insù da vero Americano d'Origine Irlandese, che già impersona da sé il riscatto dalla miseria del self-made-man e tutta la menata del Paese delle Infinite Possibilità che spunta lungo tutto l'arco della maratona da 140 minuti di pellicola; bravo, ma ancora più bravo di lui Mark Rylance, nella parte di Rudolf Abel, una spia sovietica scoperta e arrestata a Brooklyn nel 1957, in piena Guerra Fredda, assistito dall'Eroe Americano nei panni dell'avvocato Donovan (Hanks), un esperto di assicurazioni che viene nominato difensore d'ufficio, che intravede in lui il lato umano oltre alla possibilità di poterlo scambiare in un futuro con un'eventuale spia americana che dovesse finire nelle mani dei sovietici, e così riesce a convincere il giudice a evitargli la condanna a morte. Preveggente, perché l'occasione si presenta qualche anno dopo, quando i russi abbattono un aereo-spia statunitense (una scena da manuale, e per me bellissima ma mai come quella dell'attacco giapponese in Pearl Harbor, che mi procura orgasmi ogni volta che lo rivedo) catturandone il pilota e il governo, nelle pesti, si ricorda di lui, e così Donovan viene convocato dalla CIA e incaricato di procedere al negoziato per lo scambio ma senza copertura. Da New York la scena si sposta a Berlino, ricostruita in maniera esemplare, proprio nel momento in cui viene alzato il famigerato muro, che dal 1961 per 28 anni isolerà la parte Ovest della città dal resto della DDR (perché è questo il modo corretto di descrivere la vicenda, non il luogo comune della "città divisa in due", come per pigrizia mentale si suole dire) e Donovan riuscirà nel miracolo di inserire nel "pacchetto" anche un altro cittadino americano, uno studente americano tanto stupido quanto sprovveduto da farsi arrestare pretestuosamente dalla Stasi, che non vede l'ora di inserirsi nella trattativa per veder riconosciuto, assieme al suo ruolo, anche il Paese, almeno di fatto, dalla potenza avversaria. Naturalmente tutto è bene quel che finisce bene, e lo scambio si fece come voleva Donovan, pago uno e prendo due, e avvenne anche nella realtà il 10 di febbraio del 1962 sul Ponte di Glienicke (da cui il titolo del film), e nello stesso luogo ne seguirono altri. Va da sé che a Est ci sono solo fanatici, nazistoidi, psicolatici, subumani, idioti, facce lombrosiane: un repertorio caricaturale già visto e rivisto, talmente manicheo da far perdere credibilità anche a una storia tratta dalla realtà: questo se uno ha un minimo di onestà intellettuale (cosa che a Spielberg fa notoriamente difetto), mentre va detto che il punto di forza del film sono l'ambientazione, fedele e realistica fin nei minimi dettagli, e la fotografia. Insomma, come americanata, e film per le feste, non è niente male e a prescindere dall'intento propagandistico, nemmeno così subliminale, considerati il periodo, la situazione "sul campo" e l'avversario, che alla fine dei conti rimane sempre lo stesso.
Il film è fatto bene, forse un po' troppo lungo e a tratti lento (la mano dei fratelli Coen nella sceneggiatura si nota anche da questo), la storia (vera) avvincente, le capacità di Spielberg non si discutono però rimane pur sempre un'americanata. Il solito vecchio western in chiave Guerra Fredda, dove ci sono il buono e il cattivo, anzi: malvagio, col marcio che qualche volta fa capolino anche dalla parte dei "giusti", così come l'umano, a piccole dosi, nel regno del male, ma soprattutto c'è l'eroe puro sí come un giglio, portatore di tutte le Virtù Americane, compresa quella di poter denunciare (con il dovuto garbo, va da sé, e correttezza politica) anche le piccole pecche che affliggono perfino il Migliore dei Sistemi Possibili. In questa parte Tom Hanks è perfetto, con il suo volto infantile a dispetto dell'età ormai del dattero, e il nasino a patata all'insù da vero Americano d'Origine Irlandese, che già impersona da sé il riscatto dalla miseria del self-made-man e tutta la menata del Paese delle Infinite Possibilità che spunta lungo tutto l'arco della maratona da 140 minuti di pellicola; bravo, ma ancora più bravo di lui Mark Rylance, nella parte di Rudolf Abel, una spia sovietica scoperta e arrestata a Brooklyn nel 1957, in piena Guerra Fredda, assistito dall'Eroe Americano nei panni dell'avvocato Donovan (Hanks), un esperto di assicurazioni che viene nominato difensore d'ufficio, che intravede in lui il lato umano oltre alla possibilità di poterlo scambiare in un futuro con un'eventuale spia americana che dovesse finire nelle mani dei sovietici, e così riesce a convincere il giudice a evitargli la condanna a morte. Preveggente, perché l'occasione si presenta qualche anno dopo, quando i russi abbattono un aereo-spia statunitense (una scena da manuale, e per me bellissima ma mai come quella dell'attacco giapponese in Pearl Harbor, che mi procura orgasmi ogni volta che lo rivedo) catturandone il pilota e il governo, nelle pesti, si ricorda di lui, e così Donovan viene convocato dalla CIA e incaricato di procedere al negoziato per lo scambio ma senza copertura. Da New York la scena si sposta a Berlino, ricostruita in maniera esemplare, proprio nel momento in cui viene alzato il famigerato muro, che dal 1961 per 28 anni isolerà la parte Ovest della città dal resto della DDR (perché è questo il modo corretto di descrivere la vicenda, non il luogo comune della "città divisa in due", come per pigrizia mentale si suole dire) e Donovan riuscirà nel miracolo di inserire nel "pacchetto" anche un altro cittadino americano, uno studente americano tanto stupido quanto sprovveduto da farsi arrestare pretestuosamente dalla Stasi, che non vede l'ora di inserirsi nella trattativa per veder riconosciuto, assieme al suo ruolo, anche il Paese, almeno di fatto, dalla potenza avversaria. Naturalmente tutto è bene quel che finisce bene, e lo scambio si fece come voleva Donovan, pago uno e prendo due, e avvenne anche nella realtà il 10 di febbraio del 1962 sul Ponte di Glienicke (da cui il titolo del film), e nello stesso luogo ne seguirono altri. Va da sé che a Est ci sono solo fanatici, nazistoidi, psicolatici, subumani, idioti, facce lombrosiane: un repertorio caricaturale già visto e rivisto, talmente manicheo da far perdere credibilità anche a una storia tratta dalla realtà: questo se uno ha un minimo di onestà intellettuale (cosa che a Spielberg fa notoriamente difetto), mentre va detto che il punto di forza del film sono l'ambientazione, fedele e realistica fin nei minimi dettagli, e la fotografia. Insomma, come americanata, e film per le feste, non è niente male e a prescindere dall'intento propagandistico, nemmeno così subliminale, considerati il periodo, la situazione "sul campo" e l'avversario, che alla fine dei conti rimane sempre lo stesso.
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