"Chiamatemi Francesco - Il Papa della gente" di Daniele Luchetti. Con Rodrigo de la Serna, Sergio Hernández, Muriel santa Ana, José Angel Egido, Alex Brandemühl, Pomeyo Audivert, Paula Baldini. Italia 2015 ★★★-
E' già sorprendente che io vada a vedere un film su un pontefice (Habemus Papam era un'altra faccenda), ancora di più che non mi sia dispiaciuto, benché Luchetti per me rappresenti comunque una seria garanzia. In questo caso che, checché ne dicano alcuni critici, non cadesse nell'agiografia, che pure era in agguato trattandosi di una produzione Medusa prevista anche in versione di Serie TV: quattro puntate da 50' che andranno in onda l'anno prossimo sulle reti Mediaset. E questo spiega uno dei lati negativi del film, frutto evidente di un fitto lavoro di taglia-e-cuci che non giova al suo equilibrio e a un ritmo narrativo interno fluido. A parte le scene iniziali, che vedono Bergoglio giunto a Roma per il conclave che lo eleggerà Papa domandarsi, alla vigilia del medesimo, che cosa ci stia a fare lì, riflettendo sulle tappe della sua esistenza che ve lo hanno portato, e quelle finali, dove alla risata liberatoria dell'attore che lo interpreta al giorno d'oggi, il cileno Sergio Hernández, segue il Bergoglio in carne e ossa in filmati d'archivio durante il suo primo discorso dal Balcone su Piazza San Pietro, il film è in tutto e per tutto argentino, e non soltanto perché è stato girato a Buenos Aires e con attori prevalentemente argentini, raccontando le fasi salienti della vita e della carriera di Jorge Mario Bergoglio, figlio, come una gran parte della popolazione, di immigrati italiani (piemontesi e liguri nel suo caso), ma anche per lo stile e, soprattutto, per i contenuti. Questo è il suo pregio ma racchiude in sé un difetto: il film può piacere, per la sua onestà, veridicità, per i riferimenti più o meno impliciti, a chi conosce bene quel Paese e la sua storia recente, almeno dal 1955 (anno del golpe che cacciò Perón, nonché della mia nascita) in poi, e in particolare abbia respirato quelle atmosfere, e a chi ne abbia seguito con ansia le sorti negli anni più duri, perché vi era nato, vissuto o aveva parenti o amici che stavano lì, col rischio di rimanere inghiottiti nel gorgo della repressione e sparire nel nulla, quelli dell'ultima dittatura militare, dal 1976 al 1983, su cui si sofferma gran parte della pellicola, dopo aver raccontato quelli giovanili che precedettero la vocazione, quando Bergoglio era un normalissimo studente di chimica, con amici peronisti e "sovversivi" e tanto di fidanzata. Erano anche gli anni, dal 1973 al 1979, in cui fu, nonostante la giovane età, provinciale (ossia responsabile) per l'Argentina dell'ordine dei gesuiti, e che furono al centro delle critiche a lui rivolte per non aver "coperto", con la sua autorità, alcuni sacerdoti esponenti della Teologia della Liberazione, attivi nelle vilas miseria e invisi al regime di Videla. In realtà Bergoglio era dichiaratamente ostile alla "Teologia" e si era limitato, per ordini superiori, ad "avvertire" del pericolo questi preti, tra cui un suo stesso docente; al contempo ne salvò altre decine, oltre a seminaristi e perseguitati per motivi politici, secondo concordi testimonianze, nascondendoli nel collegio da lui diretto e a proprio rischio e pericolo; in particolare il film racconta la sua amicizia profonda con una giudice che si occupava di diritti civili, che salvò dalla desaparición, e quella di lunga data con Esther Ballestrino, professoressa di biochimica marxista e femminista, che fu una delle fondatrici delle Madres de Plaza de Mayo (sua figlia fu sequestrata incinta di tre mesi e liberata grazie all'intercessione di Bergoglio) e "scomparsa" nel dicembre del 1977, probabilmente vittima di un "volo notturno" e gettata, come altre migliaia, nel Rio de la Plata. E' questa personalità combattuta, tra fedeltà agli ordini superiori e pulsioni solidaristiche; tra spiritualità e umanità (il cibo, il vino, il calcio, l'amicizia, le donne, il tango: quello dei clubes sociales e delle milongas de barrio), tra capacità organizzativa e predisposizione naturale al comando (non è stato eletto superiore dei Gesuiti per caso) e capacità di mediazione (vedi il suo lavoro coi villeros del centralissimo "Barrio 31", quando fu richiamato a Buenos Aires come vescovo ausiliario dall'arcivescovo Antonio Quarracino, suo predecessore in quella carica, dopo l'esilio cordobese) che viene raccontata efficacemente nel film e che ne emerge, grazie anche alla potente interpretazione di Rodrigo de la Serna che lo impersona negli anni giovanili, che già aveva dato il volto ad Alberto Granado, compagno di Che Guevara ne I viaggi della motocicletta e al calciatore Claudio Tamburrini in Cronaca di una fuga - Buenos Aires 1977. Insomma, manca qualcosa, ma rimane un film più che accettabile e utile a capire il personaggio, e anche un po' il Paese da cui proviene. Così lontano ma così vicino, per mentalità, pregi e difetti. E motivi genetici.
E' già sorprendente che io vada a vedere un film su un pontefice (Habemus Papam era un'altra faccenda), ancora di più che non mi sia dispiaciuto, benché Luchetti per me rappresenti comunque una seria garanzia. In questo caso che, checché ne dicano alcuni critici, non cadesse nell'agiografia, che pure era in agguato trattandosi di una produzione Medusa prevista anche in versione di Serie TV: quattro puntate da 50' che andranno in onda l'anno prossimo sulle reti Mediaset. E questo spiega uno dei lati negativi del film, frutto evidente di un fitto lavoro di taglia-e-cuci che non giova al suo equilibrio e a un ritmo narrativo interno fluido. A parte le scene iniziali, che vedono Bergoglio giunto a Roma per il conclave che lo eleggerà Papa domandarsi, alla vigilia del medesimo, che cosa ci stia a fare lì, riflettendo sulle tappe della sua esistenza che ve lo hanno portato, e quelle finali, dove alla risata liberatoria dell'attore che lo interpreta al giorno d'oggi, il cileno Sergio Hernández, segue il Bergoglio in carne e ossa in filmati d'archivio durante il suo primo discorso dal Balcone su Piazza San Pietro, il film è in tutto e per tutto argentino, e non soltanto perché è stato girato a Buenos Aires e con attori prevalentemente argentini, raccontando le fasi salienti della vita e della carriera di Jorge Mario Bergoglio, figlio, come una gran parte della popolazione, di immigrati italiani (piemontesi e liguri nel suo caso), ma anche per lo stile e, soprattutto, per i contenuti. Questo è il suo pregio ma racchiude in sé un difetto: il film può piacere, per la sua onestà, veridicità, per i riferimenti più o meno impliciti, a chi conosce bene quel Paese e la sua storia recente, almeno dal 1955 (anno del golpe che cacciò Perón, nonché della mia nascita) in poi, e in particolare abbia respirato quelle atmosfere, e a chi ne abbia seguito con ansia le sorti negli anni più duri, perché vi era nato, vissuto o aveva parenti o amici che stavano lì, col rischio di rimanere inghiottiti nel gorgo della repressione e sparire nel nulla, quelli dell'ultima dittatura militare, dal 1976 al 1983, su cui si sofferma gran parte della pellicola, dopo aver raccontato quelli giovanili che precedettero la vocazione, quando Bergoglio era un normalissimo studente di chimica, con amici peronisti e "sovversivi" e tanto di fidanzata. Erano anche gli anni, dal 1973 al 1979, in cui fu, nonostante la giovane età, provinciale (ossia responsabile) per l'Argentina dell'ordine dei gesuiti, e che furono al centro delle critiche a lui rivolte per non aver "coperto", con la sua autorità, alcuni sacerdoti esponenti della Teologia della Liberazione, attivi nelle vilas miseria e invisi al regime di Videla. In realtà Bergoglio era dichiaratamente ostile alla "Teologia" e si era limitato, per ordini superiori, ad "avvertire" del pericolo questi preti, tra cui un suo stesso docente; al contempo ne salvò altre decine, oltre a seminaristi e perseguitati per motivi politici, secondo concordi testimonianze, nascondendoli nel collegio da lui diretto e a proprio rischio e pericolo; in particolare il film racconta la sua amicizia profonda con una giudice che si occupava di diritti civili, che salvò dalla desaparición, e quella di lunga data con Esther Ballestrino, professoressa di biochimica marxista e femminista, che fu una delle fondatrici delle Madres de Plaza de Mayo (sua figlia fu sequestrata incinta di tre mesi e liberata grazie all'intercessione di Bergoglio) e "scomparsa" nel dicembre del 1977, probabilmente vittima di un "volo notturno" e gettata, come altre migliaia, nel Rio de la Plata. E' questa personalità combattuta, tra fedeltà agli ordini superiori e pulsioni solidaristiche; tra spiritualità e umanità (il cibo, il vino, il calcio, l'amicizia, le donne, il tango: quello dei clubes sociales e delle milongas de barrio), tra capacità organizzativa e predisposizione naturale al comando (non è stato eletto superiore dei Gesuiti per caso) e capacità di mediazione (vedi il suo lavoro coi villeros del centralissimo "Barrio 31", quando fu richiamato a Buenos Aires come vescovo ausiliario dall'arcivescovo Antonio Quarracino, suo predecessore in quella carica, dopo l'esilio cordobese) che viene raccontata efficacemente nel film e che ne emerge, grazie anche alla potente interpretazione di Rodrigo de la Serna che lo impersona negli anni giovanili, che già aveva dato il volto ad Alberto Granado, compagno di Che Guevara ne I viaggi della motocicletta e al calciatore Claudio Tamburrini in Cronaca di una fuga - Buenos Aires 1977. Insomma, manca qualcosa, ma rimane un film più che accettabile e utile a capire il personaggio, e anche un po' il Paese da cui proviene. Così lontano ma così vicino, per mentalità, pregi e difetti. E motivi genetici.
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