lunedì 31 agosto 2015
venerdì 28 agosto 2015
Taxi Teheran
"Taxi Teheran" (Taksojuth) di Jafar Panahi. Con Jafar Panahi, Omid, Hana Saedi, Nasrin Sotoudeh e altri (inconsapevoli). Iran 2014 ★★★★★
Condannato a sei anni di reclusione e rilasciato col divieto di uscire dal Paese e soprattutto con quello di esprimersi in "opere di ingegno artistico e intellettuale" e dunque di scrivere sceneggiature e girare dei veri e propri film, Jafar Panahi aveva già aggirato il divieto con due lungometraggi in interni, This is not a Film del 2011 e Closed Courtain del 2013, ma questa volta è uscito di casa e ha usato l'espediente di trasformarsi in tassista riprendendo l'interno dell'automezzo (e quindi una sua pertinenza e non in esterni) grazie a una telecamera fissa montata sul cruscotto e l'ausilio di smartphone azionati dai "clienti" durante una giornata di lavoro nelle vie di Teheran, in sostanza una docu-fiction tanto apparentemente realistica quanto studiata nei minimi dettagli per farsi beffe dell'occhiuta e ottusa censura del regime islamico. Il regista, dal volto bonario e sempre sorridente, ironico (ricorda un Romano Prodi più giovane nei momenti di buonumore) e imbranato nel suo ruolo di autista (non conosce una delle strade che gira abbastanza a caso nella capitale) accoglie man mano per brevi percorsi una varia umanità con cui conversa in (vigilata) libertà e riesce a rendere con poche pennellate tutta l'assurda situazione che vive l'Iran, stretto fra un regime oscurantista e integralista e una vitalità intellettuale fuori dal comune, che fa il paio con la contraddizione tra le norme e i divieti più assurdi in nome della religione e la fame di libertà e modernità: ossia tra costumi (imposti) e consumi (spesso altrettanto imposti). Tra le varie figure un borsaiolo che discute di lotta alla criminalità con una giovane insegnate progressista; Omid, uno "spacciatore" di DVD pirata che riconosce immediatamente il regista (e che naturalmente possiede i suoi film nel proprio catalogo); due anziane sorelle superstiziose con una boccia contenente pesci rossi; un uomo vittima di un incidente motociclistico che, credendosi in fin di vita, si fa riprendere da un cellulare mentre detta le sue ultime volontà in modo che i suoi averi vadano alla moglie e non finiscano nelle grinfie dei fratelli; la deliziosa, saputella e linguacciuta nipote di Panahi, un'attrice nata (Hana, la stessa che ha ritirato l'Orso d'Oro a Berlino in febbraio), che ha ambizioni cinematografiche e facendogli domande consente al regista un excursus sull'argomento; infine la radiosa e sorridente avvocata e attivista per i diritti civili Nasrin Satoudeh, anch'essa detenuta dal 2010 al 2013 nelle carceri iraniane, interdetta all'esercizio pubblico della sua professione come Panahi. Il tutto apparentemente per caso, ma così ovviamente non è. Il risultato, in 82 soli minuti, è un film poetico quanto spassoso, realistico e surreale insieme, una dichiarazione d'amore al cinema e alla libertà. E' un grande film, e la vittoria a Berlino per una volta non è adeguamento al "politicamente corretto" ma omaggio a un grande artista e uomo coraggioso e saggio.
Condannato a sei anni di reclusione e rilasciato col divieto di uscire dal Paese e soprattutto con quello di esprimersi in "opere di ingegno artistico e intellettuale" e dunque di scrivere sceneggiature e girare dei veri e propri film, Jafar Panahi aveva già aggirato il divieto con due lungometraggi in interni, This is not a Film del 2011 e Closed Courtain del 2013, ma questa volta è uscito di casa e ha usato l'espediente di trasformarsi in tassista riprendendo l'interno dell'automezzo (e quindi una sua pertinenza e non in esterni) grazie a una telecamera fissa montata sul cruscotto e l'ausilio di smartphone azionati dai "clienti" durante una giornata di lavoro nelle vie di Teheran, in sostanza una docu-fiction tanto apparentemente realistica quanto studiata nei minimi dettagli per farsi beffe dell'occhiuta e ottusa censura del regime islamico. Il regista, dal volto bonario e sempre sorridente, ironico (ricorda un Romano Prodi più giovane nei momenti di buonumore) e imbranato nel suo ruolo di autista (non conosce una delle strade che gira abbastanza a caso nella capitale) accoglie man mano per brevi percorsi una varia umanità con cui conversa in (vigilata) libertà e riesce a rendere con poche pennellate tutta l'assurda situazione che vive l'Iran, stretto fra un regime oscurantista e integralista e una vitalità intellettuale fuori dal comune, che fa il paio con la contraddizione tra le norme e i divieti più assurdi in nome della religione e la fame di libertà e modernità: ossia tra costumi (imposti) e consumi (spesso altrettanto imposti). Tra le varie figure un borsaiolo che discute di lotta alla criminalità con una giovane insegnate progressista; Omid, uno "spacciatore" di DVD pirata che riconosce immediatamente il regista (e che naturalmente possiede i suoi film nel proprio catalogo); due anziane sorelle superstiziose con una boccia contenente pesci rossi; un uomo vittima di un incidente motociclistico che, credendosi in fin di vita, si fa riprendere da un cellulare mentre detta le sue ultime volontà in modo che i suoi averi vadano alla moglie e non finiscano nelle grinfie dei fratelli; la deliziosa, saputella e linguacciuta nipote di Panahi, un'attrice nata (Hana, la stessa che ha ritirato l'Orso d'Oro a Berlino in febbraio), che ha ambizioni cinematografiche e facendogli domande consente al regista un excursus sull'argomento; infine la radiosa e sorridente avvocata e attivista per i diritti civili Nasrin Satoudeh, anch'essa detenuta dal 2010 al 2013 nelle carceri iraniane, interdetta all'esercizio pubblico della sua professione come Panahi. Il tutto apparentemente per caso, ma così ovviamente non è. Il risultato, in 82 soli minuti, è un film poetico quanto spassoso, realistico e surreale insieme, una dichiarazione d'amore al cinema e alla libertà. E' un grande film, e la vittoria a Berlino per una volta non è adeguamento al "politicamente corretto" ma omaggio a un grande artista e uomo coraggioso e saggio.
mercoledì 26 agosto 2015
domenica 23 agosto 2015
Sotto la quarta non è vero amore
mercoledì 19 agosto 2015
lunedì 17 agosto 2015
Il Trentino truffaldino
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Piazza della Mostra, Trento |
In fuga da sagre paesane, rievocazioni storiche farlocche, grigliate campestri e frittate di maccheroni da bagnasciuga, per Ferragosto mi sono rifugiato a Trento, lontano dal chiasso, dalla confusione e dall'ovvio, città graziosa quanto vivibile e ricca di stimoli culturali, oltre che enogastronomici, da cui mancavo da decenni. L'occasione era fornita dalla mostra L'Europa in guerra - Tracce del secolo breve, traslocata da Trieste (dove l'avevo persa) in riva all'Adige e aperta fino al 6 settembre prossimo: molto interessante e ben fatta (quanto mal segnalata all'interno del castello: ma come verificherò è una costante cittadina) e priva di retorica patriottarda, aspetto tanto più apprezzabile perché ha coinvolto le due città "irredente" per definizione e che, secondo una visione più equilibrata delle vicende storiche, non erano poi così arse dal fuoco sacro di essere annesse al Regno d'Italia come ci hanno far credere decenni di sermoni nazionalistici, soprattutto non a costo di un milione di morti e due di feriti, tra una parte e l'altra, sul fronte italiano. Fin qui tutto bene, come anche l'ottimo pranzo al Ristorante al Vo e l'altrettanto ghiotta cena presso Il Libertino, il teroldego e il marzemino che li hanno accompagnati, la sempre interessante visita al bellissimo Duomo di San Vigilio e il gradevole girovagare nelle vie e piazze del centro storico per finire con gli indiavolati ritmi afro-brasiliani dei SovverSamba al Bar della Funivia a chiudere allegramente la serata. Anche il tempo è stato piuttosto clemente rispetto al resto della Penisola: una spruzzatina refrigerante nel primissimo pomeriggio e una leggera pioggerellina la sera; implacabile invece il drappello di vigili urbani sguinzagliato tra le 13.45 e le 14, guarda caso l'ora in cui normalmente si sta seduti a tavola, a maggior ragione il giorno dell'Assunta, vera festa nazionale del nostro Paese, a fare multe (e cassa) in Piazza della Mostra (quella antistante l'entrata principale del Castello del Buonconsiglio, foto in alto). Multe per divieto di sosta (cumulata a quella per divieto di transito e mancata esposizione del contrassegno) per l'importo di 122 € a botta, quanto il costo di una camera a notte nel migliore albergo cittadino, ridotti a 86,40 se pagate entro 5 giorni dalla notifica (ma perdendo, in tal caso, la facoltà di fare ricorso: ennesimo cavillo da burocrazia fraudolenta) e impossibilità tanto di contestazione quanto di conciliazione immediata se non a voce e senza effetto, secondo quel che affermavano gli stessi agenti così alacremente all'opera, chiamati, a loro dire, dai "residenti", piccati di trovare occupato il "loro" parcheggio.
domenica 16 agosto 2015
venerdì 14 agosto 2015
Predestination
"Predestination" di Michael e Peter Spierig. Con Nathan Hawke, Sarah Snook, Noah Taylor, Christopher Kirby, Madeleine West e altri. Australia 2014 ★★★★
Bel film, ben girato, ben recitato, molto ben fotografato, che mi ha pienamente soddisfatto anche se non ci ho capito un emerito cazzo. Càpita, con i film di fantascienza: confesso che mi era successo anche con una pietra miliare come 2001 - Odissea nello spazio. Nel caso di Predestination non siamo a simili vette e non siamo proiettati nel futuro, bensì nel passato, benché recente e tale da aver lasciato ancora le sue tracce nella nostra memoria. I movimenti avanti e indietro consentiti all'agente temporale di un ente governativo si limitano a una trentina d'anni, in una direzione e nell'altra, e questi viene incaricato di sventare un tremendo attentato terroristico che si verificherà nel 1985 a New York. Per impedirlo, e con questo portare a termine la sua missione e quindi riassumere la propria dimensione spazio-temporale deve però compiere viaggi sempre più frequenti con la macchina che è occultata nel fodero di uno strumento musicale, fino a individuare in Jane/John, un personaggio che gli racconta la propria incredibile vicenda, la chiave di volta della sua indagine, ma man mano i suoi vuoti di memoria aumentano venendo a meno la capacità di concentrarsi e quindi la chiarezza sul da farsi. E' questo il momento nevralgico del racconto, alquanto labirintico ma con una sua logica paradossale, che si avvita su sé stesso come un cane che si morda la coda, e anche il finale, che spiega tutto e al contempo nulla, di fatto non lo è in questo meccanismo circolare da cui non si può uscire. Non si tratta di una novità in campo cinematografico, e tra i film recenti mi riferisco a Sliding Doors oppure a Source Code, ma il risultato è più che apprezzabile, e molto è dovuto alla patina rétro dell'ambientazione, ricostruita con grande precisione ed efficacia. Sorprendente.
Bel film, ben girato, ben recitato, molto ben fotografato, che mi ha pienamente soddisfatto anche se non ci ho capito un emerito cazzo. Càpita, con i film di fantascienza: confesso che mi era successo anche con una pietra miliare come 2001 - Odissea nello spazio. Nel caso di Predestination non siamo a simili vette e non siamo proiettati nel futuro, bensì nel passato, benché recente e tale da aver lasciato ancora le sue tracce nella nostra memoria. I movimenti avanti e indietro consentiti all'agente temporale di un ente governativo si limitano a una trentina d'anni, in una direzione e nell'altra, e questi viene incaricato di sventare un tremendo attentato terroristico che si verificherà nel 1985 a New York. Per impedirlo, e con questo portare a termine la sua missione e quindi riassumere la propria dimensione spazio-temporale deve però compiere viaggi sempre più frequenti con la macchina che è occultata nel fodero di uno strumento musicale, fino a individuare in Jane/John, un personaggio che gli racconta la propria incredibile vicenda, la chiave di volta della sua indagine, ma man mano i suoi vuoti di memoria aumentano venendo a meno la capacità di concentrarsi e quindi la chiarezza sul da farsi. E' questo il momento nevralgico del racconto, alquanto labirintico ma con una sua logica paradossale, che si avvita su sé stesso come un cane che si morda la coda, e anche il finale, che spiega tutto e al contempo nulla, di fatto non lo è in questo meccanismo circolare da cui non si può uscire. Non si tratta di una novità in campo cinematografico, e tra i film recenti mi riferisco a Sliding Doors oppure a Source Code, ma il risultato è più che apprezzabile, e molto è dovuto alla patina rétro dell'ambientazione, ricostruita con grande precisione ed efficacia. Sorprendente.
mercoledì 12 agosto 2015
Metropolis
"Metropolis" di Fritz Lang. Con Gustav Frölich, Brigitte Helm, Rudolf Klein-Rogge, Fritz Rasp, Theodor Loos, Erwin Biswanger, Heinrich George, Olaf Storm, Hans Leo Reich. Germania 1927 ★★★★★
Non mi stupisce che Fritz Lang, a mio parere un vero genio del cinema, a differenza del tanto celebrato Sergej Eizenstein, riferendosi al suo capolavoro abbia affermato: "Mentre lo facevo lo amavo, poi l'ho detestato". Io stesso, a quasi 90 anni di distanza, uscendo dalla sala del "Visionario" dove il sempre benemerito CEC proietta in questi giorni la versione restaurata del film nella sua versione più completa disponibile, quella integrata da 25' di "girato" recuperati nel 2008 a Buenos Aires, richiesto di un commento a caldo ho risposto di getto: "Grandioso, però è un film nazista". Lang era ben lontano dall'esserlo, e non solo perché ebreo per parte di madre (e quindi per definizione), ma la sua moglie dell'epoca, la scrittrice Thea von Harbou, sceneggiatrice del film, lo sarebbe diventata, iscrivendosi alla NSDAP di Hitler (che non a caso, assieme ai gerarchi, apprezzava la "morale" del film, soprattutto il finale "conciliatorio"). "E' il cuore che deve mediare tra la mente e le mani", questo il succo della lunga parabola, di impianto teatrale e abbondante di elementi didascalici, che vede al centro due "mediatori" tra il mondo alto e quello basso che convivono nella mostruosa Metropolis: sono Freder, figlio di Frederer, il padrone assoluto della città in superficie, futuribile, stupefacente, automatizzata, e Maria, che si occupa dei figli degli operai, che vivono confinati nel sottosuolo, schiavizzati e ridotti come automi a servire i macchinari che consentono alla città in alto di sopravvivere. Freder si invaghisce di Maria quando lei porta in superficie un gruppo di laceri bambini a vedere il giardini del "mondo di sopra" (come un tempo la domenica dalle periferie le famigliole dei lavoratori sciamavano in centro "a vedere i signori che mangiano il gelato") e, sceso negli inferi, scopre la condizione degli operai (inevitabilmente mi è tornato in mente "La situazione della classe operaia in Inghilterra" che Friedrich Engels scrisse nel 1845, uno dei libri che più mi ha formato e che ho amato): sarà lui il "mediatore", per definizione, tra "alto" e "basso", ma prima dello Happy End ci si mette in mezzo Rotwang, lo scienziato folle, che rapisce Maria e dona le sue sembianze a un robot che istiga gli operai alla rivolta (un umanoide, dunque, in grado di manipolarli: e qui ci vuole del genio). Trama semplice, melodrammatica, da feuilleton, se vogliamo, ma l'aspetto più formidabile del film sta nella visionarietà di Lang e nella resa del gigantesco conglomerato urbano così simile alle megalopoli in cui buona parte dell'umanità ormai vive. Si parla, a proposito di "Metropolis", di un film di fantascienza che descrive una realtà distopica, ma in realtà di distopico non c'è nulla, perché la società che Lang descrive è né più né meno quella che in cui si stava "evolvendo" quella europea in quegli anni e quella tedesca in particolare, così come quella sovietica che ne era lo specchio, sotto un regime totalitario come quello che sarebbe stato quello nazista dal 1933 in poi, e distopica doveva invece apparire New York, a cui a tutta evidenza Lang si è ispirato dopo un viaggio negli USA allo scopo di acquistare macchinari per realizzare la pellicola, agli occhi di un mitteleuropeo che aveva visto crollare il suo mondo nel giro di pochi anni (e qui mi viene in mente inevitabilmente Stefan Zweig, viennese come lui e quasi coetaneo). Insomma, la grandiosità di Lang sta nel fatto che aveva già capito tutto 90 anni fa. Nonostante sia un film muto (ma fornito di una colonna sonora stupefacente a attuale) e duri la bellezza di 149', la prima volta che ho sbirciato l'orologio per rendermi conto a che punto fosse, era già passata un'ora e mezzo. Obbligatorio, per chiunque dica di amare il cinema e non l'ha mai visto o no se lo ricordasse, vivamente consigliato a chi già lo conosce perché così come è curata quest'edizione è un'altra cosa.
Non mi stupisce che Fritz Lang, a mio parere un vero genio del cinema, a differenza del tanto celebrato Sergej Eizenstein, riferendosi al suo capolavoro abbia affermato: "Mentre lo facevo lo amavo, poi l'ho detestato". Io stesso, a quasi 90 anni di distanza, uscendo dalla sala del "Visionario" dove il sempre benemerito CEC proietta in questi giorni la versione restaurata del film nella sua versione più completa disponibile, quella integrata da 25' di "girato" recuperati nel 2008 a Buenos Aires, richiesto di un commento a caldo ho risposto di getto: "Grandioso, però è un film nazista". Lang era ben lontano dall'esserlo, e non solo perché ebreo per parte di madre (e quindi per definizione), ma la sua moglie dell'epoca, la scrittrice Thea von Harbou, sceneggiatrice del film, lo sarebbe diventata, iscrivendosi alla NSDAP di Hitler (che non a caso, assieme ai gerarchi, apprezzava la "morale" del film, soprattutto il finale "conciliatorio"). "E' il cuore che deve mediare tra la mente e le mani", questo il succo della lunga parabola, di impianto teatrale e abbondante di elementi didascalici, che vede al centro due "mediatori" tra il mondo alto e quello basso che convivono nella mostruosa Metropolis: sono Freder, figlio di Frederer, il padrone assoluto della città in superficie, futuribile, stupefacente, automatizzata, e Maria, che si occupa dei figli degli operai, che vivono confinati nel sottosuolo, schiavizzati e ridotti come automi a servire i macchinari che consentono alla città in alto di sopravvivere. Freder si invaghisce di Maria quando lei porta in superficie un gruppo di laceri bambini a vedere il giardini del "mondo di sopra" (come un tempo la domenica dalle periferie le famigliole dei lavoratori sciamavano in centro "a vedere i signori che mangiano il gelato") e, sceso negli inferi, scopre la condizione degli operai (inevitabilmente mi è tornato in mente "La situazione della classe operaia in Inghilterra" che Friedrich Engels scrisse nel 1845, uno dei libri che più mi ha formato e che ho amato): sarà lui il "mediatore", per definizione, tra "alto" e "basso", ma prima dello Happy End ci si mette in mezzo Rotwang, lo scienziato folle, che rapisce Maria e dona le sue sembianze a un robot che istiga gli operai alla rivolta (un umanoide, dunque, in grado di manipolarli: e qui ci vuole del genio). Trama semplice, melodrammatica, da feuilleton, se vogliamo, ma l'aspetto più formidabile del film sta nella visionarietà di Lang e nella resa del gigantesco conglomerato urbano così simile alle megalopoli in cui buona parte dell'umanità ormai vive. Si parla, a proposito di "Metropolis", di un film di fantascienza che descrive una realtà distopica, ma in realtà di distopico non c'è nulla, perché la società che Lang descrive è né più né meno quella che in cui si stava "evolvendo" quella europea in quegli anni e quella tedesca in particolare, così come quella sovietica che ne era lo specchio, sotto un regime totalitario come quello che sarebbe stato quello nazista dal 1933 in poi, e distopica doveva invece apparire New York, a cui a tutta evidenza Lang si è ispirato dopo un viaggio negli USA allo scopo di acquistare macchinari per realizzare la pellicola, agli occhi di un mitteleuropeo che aveva visto crollare il suo mondo nel giro di pochi anni (e qui mi viene in mente inevitabilmente Stefan Zweig, viennese come lui e quasi coetaneo). Insomma, la grandiosità di Lang sta nel fatto che aveva già capito tutto 90 anni fa. Nonostante sia un film muto (ma fornito di una colonna sonora stupefacente a attuale) e duri la bellezza di 149', la prima volta che ho sbirciato l'orologio per rendermi conto a che punto fosse, era già passata un'ora e mezzo. Obbligatorio, per chiunque dica di amare il cinema e non l'ha mai visto o no se lo ricordasse, vivamente consigliato a chi già lo conosce perché così come è curata quest'edizione è un'altra cosa.
domenica 9 agosto 2015
venerdì 7 agosto 2015
Presidente Emerdito
"Non si può tornare indietro sulla riforma del Senato". Perché lo dice Lui. Quando il tempo NON è galantuomo: questo figuro andrà avanti a fare danni anche da morto.
mercoledì 5 agosto 2015
Ex Machina
"Ex Machina" di Alex Garland. Con Domhall Gleeson, Oscar Isaac, Alicia Vikander, Sonoya Mizuno, Chelsea Li, Corey Johnson. USA, GB 2014 ★★★½
Convincente l'esordio alla regia per il romanziere inglese Alex Garland, che già aveva affrontato la fantascienza sceneggiando "28 giorni dopo" e soprattutto lo struggente "Non lasciarmi" che, in qualche modo, aveva a che fare con la clonazione: solo che in quel caso si trattava di esseri umani allevati apposta per fornire organi da trapiantare in individui malati, mentre in "Ex Machina" l'argomento è un esperimento di intelligenza artificiale alimentata dalla "mente collettiva" estrapolata dai dati raccolti su scala planetaria dal maggiore motore di ricerca esistente. Caleb, un giovane programmatore di questo colosso informatico, viene scelto, in modo apparentemente neutro attraverso una sorta di concorso interno, per testare la validità dell'ultimo esperimento del mitico, pressoché irraggiungibile fondatore della Corporation, che isolato vive in mezzo alle montagne in una specie di eremo a cui si accede solo via elicottero e superando una serie di barriere elettroniche da lui stesso predisposte. Lì Natan ha creato Ava, una ragazza cibernetica che, sottoposta ai test di Caleb, si conferma raziocinante e autoconsapevole, al punto di far venire più di un sospetto che a essere testato sia proprio il giovane, ingenuo programmatore, che a sua volta scopre man mano di essere stato manovrato dal suo superiore, di per sé alle prese con la sindrome di Frankenstein, e sempre più convinto di possedere qualità demiurgiche. In un gioco psicologico di inganni reciproci, non stupisce che a rilevarsi più umano e a suscitare le simpatie dello spettatore finisca per essere l'ultimo modello di androide nonché quelli che l'hanno preceduto, e che vengono scoperti da Caleb nel corso della sua settimana nel rifugio-laboratorio di Natan, perché se non altro è conscio dei propri limiti che, per definizione, non può superare. Cosa che non potrà mai fare l'umano: perché per quanti confini l'uomo possa porsi in nome dell'etica e della morale, ognuno li intende a modo suo e comunque ci sarà sempre qualcuno che cercherà di oltrepassarli (Prometeo insegna, da almeno tremila anni). Il tema è ricorrente nella fantascienza e quindi il film non affronta nulla che non sia già stato detto e raccontato, però è ben girato, la vicenda non lontana dall'essere credibile e comunque verosimile in un futuro assai prossimo, e suscita inevitabilmente riflessioni che portano a sperare che a questo punto non si sia già arrivati a nostra insaputa: non tanto che gli androidi girino tra noi ma che, senza rendercene conto, siamo noi stessi ad esserlo diventati. Se così fosse, meglio non saperlo nemmeno. La pellicola è ben girata, le tensione che si crea è quella giusta e le sorprese ben disseminate lungo lo sviluppo del racconto e le interpretazioni di buon livello: per un caldo pomeriggio agostano va più che bene così!
Convincente l'esordio alla regia per il romanziere inglese Alex Garland, che già aveva affrontato la fantascienza sceneggiando "28 giorni dopo" e soprattutto lo struggente "Non lasciarmi" che, in qualche modo, aveva a che fare con la clonazione: solo che in quel caso si trattava di esseri umani allevati apposta per fornire organi da trapiantare in individui malati, mentre in "Ex Machina" l'argomento è un esperimento di intelligenza artificiale alimentata dalla "mente collettiva" estrapolata dai dati raccolti su scala planetaria dal maggiore motore di ricerca esistente. Caleb, un giovane programmatore di questo colosso informatico, viene scelto, in modo apparentemente neutro attraverso una sorta di concorso interno, per testare la validità dell'ultimo esperimento del mitico, pressoché irraggiungibile fondatore della Corporation, che isolato vive in mezzo alle montagne in una specie di eremo a cui si accede solo via elicottero e superando una serie di barriere elettroniche da lui stesso predisposte. Lì Natan ha creato Ava, una ragazza cibernetica che, sottoposta ai test di Caleb, si conferma raziocinante e autoconsapevole, al punto di far venire più di un sospetto che a essere testato sia proprio il giovane, ingenuo programmatore, che a sua volta scopre man mano di essere stato manovrato dal suo superiore, di per sé alle prese con la sindrome di Frankenstein, e sempre più convinto di possedere qualità demiurgiche. In un gioco psicologico di inganni reciproci, non stupisce che a rilevarsi più umano e a suscitare le simpatie dello spettatore finisca per essere l'ultimo modello di androide nonché quelli che l'hanno preceduto, e che vengono scoperti da Caleb nel corso della sua settimana nel rifugio-laboratorio di Natan, perché se non altro è conscio dei propri limiti che, per definizione, non può superare. Cosa che non potrà mai fare l'umano: perché per quanti confini l'uomo possa porsi in nome dell'etica e della morale, ognuno li intende a modo suo e comunque ci sarà sempre qualcuno che cercherà di oltrepassarli (Prometeo insegna, da almeno tremila anni). Il tema è ricorrente nella fantascienza e quindi il film non affronta nulla che non sia già stato detto e raccontato, però è ben girato, la vicenda non lontana dall'essere credibile e comunque verosimile in un futuro assai prossimo, e suscita inevitabilmente riflessioni che portano a sperare che a questo punto non si sia già arrivati a nostra insaputa: non tanto che gli androidi girino tra noi ma che, senza rendercene conto, siamo noi stessi ad esserlo diventati. Se così fosse, meglio non saperlo nemmeno. La pellicola è ben girata, le tensione che si crea è quella giusta e le sorprese ben disseminate lungo lo sviluppo del racconto e le interpretazioni di buon livello: per un caldo pomeriggio agostano va più che bene così!
domenica 2 agosto 2015
The Interview
"The Interview" di Seth Rogen, Evan Goldberg. Con James Franco, Seth Rogen, Randall Park, Lizzy Caplan, Diana Bang, Tommy Chang e altri. USA 2014 ★★★★★
Liberatorio, libertario, scorretto, pulp, esilarante, demenziale spinto: quindi un film altamente meritorio, necessario e imperdibile, almeno dal mio punto di vista. Erano anni che non mi veniva un attacco di stupidera conclamata durante la visione di un film per di più casalinga: uscito solamente in poche sale indipendenti negli USA e disponibile (per ora?) soltanto su piattaforme on demand (tra cui SKY) in Europa, "The Intervierw" è quella pellicola che nell'autunno scorso aveva innescato la violenta reazione del governo Nord Coreano perché prende di mira il Leader Supremo Kim Jong-un, l'attacco informatico alla Sony, la casa produttrice del film, la decisione di non distribuire il film e il successivo "rammarico" di Obama per questa decisione. In realtà, non è soltanto lo Stranamore Nordcoreano a essere sbertucciato, ma almeno altrettanto i media USA, e in particolare i talk show, e il loro modo di inculcare pregiudizi sui "nemici" del momento, la cialtronaggine del mondo dell'informazione e l'idiozia profonda di quello politico-militare a cui fa da valletto e di cui i servizi di "intelligence" sono la massima espressione. David Skylark (James Franco) è l'anchor man di un programma televisivo di gossip becero (tra gli ospiti Eminem che fa outing della sua omosessualità) che pensa di riscattarsi professionalmente quando il suo produttore, amico ed eminenza grigia Aaron Rapoport (Seth Rogen), perché lui è un cretino sotto vuoto spinto, gli procura un'intervista al dittatore asiatico (Randall Park), che scoprono essere un fan della trasmissione dopo averlo contattato per via diplomatica. Prima della partenza per Pyongyang dove sono invitati ufficialmente per realizzare l'intervista in esclusiva all'uomo più pericoloso del mondo, vengono contattati dalla CIA e convinti, più che dalle argomentazioni e da mozioni patriottiche da quelli più prosaici usati dalla seducente agente Lacey (Lizzy Caplan), a eliminare Kim Jong-un avvelenandolo. Dall'arrivo nella capitale Nordcoreana in poi si scatena il delirio: da un lato Il Leader Supremo seduce David con le sue confidenze e i due si capiscono al volo scoprendosi essere una sorta di fratelli separati alla nascita, dall'altra il Paese non si mostra così compatto come sembra dietro alla sua guida e perfino il suo paranoico entourage militare è spaccato in due tra fedelissimi e complottisti, tra cui la fascinosa Suk (Diana Bang), incaricata d prendersi cura dei due ospiti americani. Non anticipo nulla per non guastare la visione ai rari e veri intenditori del genere che sicuramente sapranno apprezzare come si deve questa sguaiata presa per il culo: 112 minuti, che volano via in un baleno, di sghignazzo garantito. Da notare che autori e buona parte del cast sono canadesi, e non statunitensi.
Liberatorio, libertario, scorretto, pulp, esilarante, demenziale spinto: quindi un film altamente meritorio, necessario e imperdibile, almeno dal mio punto di vista. Erano anni che non mi veniva un attacco di stupidera conclamata durante la visione di un film per di più casalinga: uscito solamente in poche sale indipendenti negli USA e disponibile (per ora?) soltanto su piattaforme on demand (tra cui SKY) in Europa, "The Intervierw" è quella pellicola che nell'autunno scorso aveva innescato la violenta reazione del governo Nord Coreano perché prende di mira il Leader Supremo Kim Jong-un, l'attacco informatico alla Sony, la casa produttrice del film, la decisione di non distribuire il film e il successivo "rammarico" di Obama per questa decisione. In realtà, non è soltanto lo Stranamore Nordcoreano a essere sbertucciato, ma almeno altrettanto i media USA, e in particolare i talk show, e il loro modo di inculcare pregiudizi sui "nemici" del momento, la cialtronaggine del mondo dell'informazione e l'idiozia profonda di quello politico-militare a cui fa da valletto e di cui i servizi di "intelligence" sono la massima espressione. David Skylark (James Franco) è l'anchor man di un programma televisivo di gossip becero (tra gli ospiti Eminem che fa outing della sua omosessualità) che pensa di riscattarsi professionalmente quando il suo produttore, amico ed eminenza grigia Aaron Rapoport (Seth Rogen), perché lui è un cretino sotto vuoto spinto, gli procura un'intervista al dittatore asiatico (Randall Park), che scoprono essere un fan della trasmissione dopo averlo contattato per via diplomatica. Prima della partenza per Pyongyang dove sono invitati ufficialmente per realizzare l'intervista in esclusiva all'uomo più pericoloso del mondo, vengono contattati dalla CIA e convinti, più che dalle argomentazioni e da mozioni patriottiche da quelli più prosaici usati dalla seducente agente Lacey (Lizzy Caplan), a eliminare Kim Jong-un avvelenandolo. Dall'arrivo nella capitale Nordcoreana in poi si scatena il delirio: da un lato Il Leader Supremo seduce David con le sue confidenze e i due si capiscono al volo scoprendosi essere una sorta di fratelli separati alla nascita, dall'altra il Paese non si mostra così compatto come sembra dietro alla sua guida e perfino il suo paranoico entourage militare è spaccato in due tra fedelissimi e complottisti, tra cui la fascinosa Suk (Diana Bang), incaricata d prendersi cura dei due ospiti americani. Non anticipo nulla per non guastare la visione ai rari e veri intenditori del genere che sicuramente sapranno apprezzare come si deve questa sguaiata presa per il culo: 112 minuti, che volano via in un baleno, di sghignazzo garantito. Da notare che autori e buona parte del cast sono canadesi, e non statunitensi.
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