"Viviane" (Gett: Le procès de Viviane Amsalem) di Ronit e Shlomi Elkabetz. Con Ronit Elkabetz, Menashe Noy, Simon Abkarian, Sasson Gabai, Eli Gornstein, Rami Danon, Robert Polak. Israele, Francia, Germania 2014 ★★★½
Film che si svolge per intero all'interno dell'aula di un tribunale rabbinico in cui si discute del divorzio chiesto da una donna, Viviane Ashalem, madre di quattro figli, che da tre anni ha abbandonato il tetto coniugale per incompatibilità col marito rifugiandosi dalla sorella, è molto interessante e istruttivo sotto due aspetti: racconta molto della realtà israeliana e di alcuni meccanismi universali delle relazioni di coppia e ricorda, sotto entrambi gli aspetti, il bellissimo "Una separazione", dell'iraniano Asghar Farhadi. Confermando che Israele e Iran hanno molti più aspetti in comune di quello che si possa pensare, e il fatto che si rispecchino l'uno nei difetti dell'altro è probabilmente il motivo per cui si detestano così radicalmente: lo Stato ebraico, tanto decantatato per la sua supposta laicità, il rispetto dei diritti umani e l'uguaglianza tra i sessi (in realtà soltanto nell'esercito) e per il fatto di essere l'unica nazione democratica del Medio Oriente, come se le elezioni, che dalla rivoluzione khomeinista del 1979 anche in Iran si tengono regolarmente, bastassero a qualificarlo come tale, è in sostanza una teocrazia né più e né meno del suo acerrimo nemico, con in più dei connotati razzisti sconosciuti agli sciiti persiani. Come svela il film, in Israele non esiste matrimonio se non religioso e dunque il divorzio può concederlo esclusivamente un tribunale rabbinico, ed è sufficiente che il marito di Viviane non si presenti reiteratamente alle udienze, insista nel non cedere, invocando l'unità e la salvaguardia della famiglia nonché principi superiori, o si affidi alle testimonianze stravaganti di partenti e amici e ai cavilli cervellotici del suo difensore (il fratello, a sua volta studioso della Torah) per tirare la causa all'infinito, fornendo così ai rabbini il pretesto per procrastinare all'infinito la decisione, tant'è vero che a cinque anni dall'inizio della sacrosanta causa i due coniugi sono ancora lì, affrontandosi finalmente di persona nella scena finale. La vicenda è narrata in forma di dramma legale, in cui non mancano momenti ironici, grotteschi e perfino esilaranti, e tra gli interpreti, tutti bravissimi ed estremamente verosimili, spicca l'intensa ed espressiva Ronit Elkabetz, regista assieme al fratello Shlomo, che dà vita a un personaggio, Viviane, ricco di sfaccettature, una donna semplice, integerrima, intelligente, conscia di essere ingabbiata in un sistema religioso-sociale pieno di pregiudizi e che nega la libertà individuale e la parità all'interno della coppia, la quale persegue con determinazione l'affermazione della propria dignità.
Film che si svolge per intero all'interno dell'aula di un tribunale rabbinico in cui si discute del divorzio chiesto da una donna, Viviane Ashalem, madre di quattro figli, che da tre anni ha abbandonato il tetto coniugale per incompatibilità col marito rifugiandosi dalla sorella, è molto interessante e istruttivo sotto due aspetti: racconta molto della realtà israeliana e di alcuni meccanismi universali delle relazioni di coppia e ricorda, sotto entrambi gli aspetti, il bellissimo "Una separazione", dell'iraniano Asghar Farhadi. Confermando che Israele e Iran hanno molti più aspetti in comune di quello che si possa pensare, e il fatto che si rispecchino l'uno nei difetti dell'altro è probabilmente il motivo per cui si detestano così radicalmente: lo Stato ebraico, tanto decantatato per la sua supposta laicità, il rispetto dei diritti umani e l'uguaglianza tra i sessi (in realtà soltanto nell'esercito) e per il fatto di essere l'unica nazione democratica del Medio Oriente, come se le elezioni, che dalla rivoluzione khomeinista del 1979 anche in Iran si tengono regolarmente, bastassero a qualificarlo come tale, è in sostanza una teocrazia né più e né meno del suo acerrimo nemico, con in più dei connotati razzisti sconosciuti agli sciiti persiani. Come svela il film, in Israele non esiste matrimonio se non religioso e dunque il divorzio può concederlo esclusivamente un tribunale rabbinico, ed è sufficiente che il marito di Viviane non si presenti reiteratamente alle udienze, insista nel non cedere, invocando l'unità e la salvaguardia della famiglia nonché principi superiori, o si affidi alle testimonianze stravaganti di partenti e amici e ai cavilli cervellotici del suo difensore (il fratello, a sua volta studioso della Torah) per tirare la causa all'infinito, fornendo così ai rabbini il pretesto per procrastinare all'infinito la decisione, tant'è vero che a cinque anni dall'inizio della sacrosanta causa i due coniugi sono ancora lì, affrontandosi finalmente di persona nella scena finale. La vicenda è narrata in forma di dramma legale, in cui non mancano momenti ironici, grotteschi e perfino esilaranti, e tra gli interpreti, tutti bravissimi ed estremamente verosimili, spicca l'intensa ed espressiva Ronit Elkabetz, regista assieme al fratello Shlomo, che dà vita a un personaggio, Viviane, ricco di sfaccettature, una donna semplice, integerrima, intelligente, conscia di essere ingabbiata in un sistema religioso-sociale pieno di pregiudizi e che nega la libertà individuale e la parità all'interno della coppia, la quale persegue con determinazione l'affermazione della propria dignità.
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