"Le due vie del destino" (The Railway Man) di Jonathan Teplitzky. Con Colin Firth, Nicole Kidman, Jeremy Irvine, Stellan Skarsgad, Sam Reid, Tanroh Ishida, Hiroyuki Sanada e altri. Australia, GB 2013 ★★+
Buone le intenzioni, per un film pacifista tratto dal romanzo autobiografico di Eric Lomax, ufficiale del genio britannico prigioniero di guerra dei giapponesi dopo la caduta di Singapore nel 1942, ma mediocre il risultato nonostante la generosa prova di un tris di ottimi interpreti come Colin Firth, Stellan Skarsgad e Hiroyuki Sanada, mentre è meglio stendere un velo pietoso sulla sempre più plastificata Nicole Kidman. La parte buona è il messaggio, quello della inutilità di ogni guerra, del lato peggiore che inevitabilmente scatena nell'uomo, opportunamente manipolato e reso convinto della giustezza della sua parte, e si basa sull'esperienza compiuta sulla propria pelle da Eric Lomax, che una volta rientrato in patria non riesce, per trent'anni, a superare lo shock dell'esperienza vissuta in Thailandia quando, costretto ai lavori forzati per partecipare alla costruzione della "Ferrovia della morte" (cfr "Il ponte sul fiume Kwai") insieme a decine di migliaia di prigionieri di guerra e civili da parte degli occupanti giapponesi, fu torturato e seviziato da un giovane e fanatico ufficiale membro del Kempeitai, la polizia militare. Lo ritrova più di trent'anni dopo quando, dopo essere tornato in patria e aver cercato di rimuovere il passato dedicandosi anima e corpo alla propria passione per le ferrovie (da qui il titolo originale), dopo essersi sposato con la dolce Patti ricade nel gorgo dell'angoscia e delle crisi di panico da cui uscirà soltanto quando tornerà sul luogo dell'orrore, dopo che la moglie e un ex commilitone decidono di comunicargli che il suo carceriere e torturatore è ancora vivo e fa l'interprete e la guida turistica proprio al museo dedicato alla "Ferrovia della morte". Ci ritorna per una resa dei conti, scoprendo però che anche il nemico è stato vittima degli stessi incubi e ha dovuto convivere con essi oltre che coi propri rimorsi di coscienza: nel film come nella vita si riconciliarono e divennero amici frequentandosi fino alla morte. Costruito con successivi flash back sulle tracce di innumerevoli altri grandi film di guerra (e reducismo), usufruisce di una bella fotografia per quanto riguarda la parte scozzese, penosa invece per il lato asiatico: col budget in dotazione, la produzione poteva tranquillamente risparmiarsi scenari palesemente di cartapesta che saltano agli occhi perfino di un miope sprovvisto di occhiali. Come se non bastasse, l'andamento è mortalmente lento, e la pellicola sembra durare ben più dei 116' minuti effettivi. Sullo stesso argomento Furyo era un'altra cosa. Peccato.
Buone le intenzioni, per un film pacifista tratto dal romanzo autobiografico di Eric Lomax, ufficiale del genio britannico prigioniero di guerra dei giapponesi dopo la caduta di Singapore nel 1942, ma mediocre il risultato nonostante la generosa prova di un tris di ottimi interpreti come Colin Firth, Stellan Skarsgad e Hiroyuki Sanada, mentre è meglio stendere un velo pietoso sulla sempre più plastificata Nicole Kidman. La parte buona è il messaggio, quello della inutilità di ogni guerra, del lato peggiore che inevitabilmente scatena nell'uomo, opportunamente manipolato e reso convinto della giustezza della sua parte, e si basa sull'esperienza compiuta sulla propria pelle da Eric Lomax, che una volta rientrato in patria non riesce, per trent'anni, a superare lo shock dell'esperienza vissuta in Thailandia quando, costretto ai lavori forzati per partecipare alla costruzione della "Ferrovia della morte" (cfr "Il ponte sul fiume Kwai") insieme a decine di migliaia di prigionieri di guerra e civili da parte degli occupanti giapponesi, fu torturato e seviziato da un giovane e fanatico ufficiale membro del Kempeitai, la polizia militare. Lo ritrova più di trent'anni dopo quando, dopo essere tornato in patria e aver cercato di rimuovere il passato dedicandosi anima e corpo alla propria passione per le ferrovie (da qui il titolo originale), dopo essersi sposato con la dolce Patti ricade nel gorgo dell'angoscia e delle crisi di panico da cui uscirà soltanto quando tornerà sul luogo dell'orrore, dopo che la moglie e un ex commilitone decidono di comunicargli che il suo carceriere e torturatore è ancora vivo e fa l'interprete e la guida turistica proprio al museo dedicato alla "Ferrovia della morte". Ci ritorna per una resa dei conti, scoprendo però che anche il nemico è stato vittima degli stessi incubi e ha dovuto convivere con essi oltre che coi propri rimorsi di coscienza: nel film come nella vita si riconciliarono e divennero amici frequentandosi fino alla morte. Costruito con successivi flash back sulle tracce di innumerevoli altri grandi film di guerra (e reducismo), usufruisce di una bella fotografia per quanto riguarda la parte scozzese, penosa invece per il lato asiatico: col budget in dotazione, la produzione poteva tranquillamente risparmiarsi scenari palesemente di cartapesta che saltano agli occhi perfino di un miope sprovvisto di occhiali. Come se non bastasse, l'andamento è mortalmente lento, e la pellicola sembra durare ben più dei 116' minuti effettivi. Sullo stesso argomento Furyo era un'altra cosa. Peccato.
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