Era nato un
secolo fa, il 24 giugno del 1912, ed è ancora vivo nel ricordo di molti: Mario,
mio padre, qui sopra in una foto che gli ho scattato di sorpresa nel suo
studio. Invece è morto la mattina del 7 agosto del 1983, un ultimo guizzo di
vita nelle sue grandi mani, una sorta di stretta che aveva sempre avuto forte,
percettibile anche durante il coma, come se attendesse l’arrivo mio e di mio
cugino Italo, accorsi lui da Roma e io da Milano, per dargli l’ultimo saluto.
Per noi, e per altri membri della grande famiglia, era una specie di mito. L’ha
fottuto il fegato, già rovinato dopo il ritorno dalla campagna di Russia,
l’ultima, fallimentare, e la più idiota tra le iniziative del Duce: nel primo
dopoguerra gli avevano diagnosticato una cirrosi epatica incurabile e concesso
sì e no sei mesi di vita. Così si era improvvisato rappresentante di giocattoli,
aveva mollato lo studio di architettura (collaborava col cognato Cesare Scoccimarro, sulla
cresta dell’onda all’epoca, fratello di Mauro, tra i fondatori del PCI,
ministro delle Finanze nel governo Parri e nei primi due governi De Gasperi,
senatore sempre rieletto) e partì per Sud America. Avrebbe potuto
nascerci, a La Plata, in Argentina, come alcuni suoi fratelli maggiori: il
nonno Antonio, meccanico specializzato
in telai tessili, vi era andato per montarli e aveva finito per lavorare
alla costruzione delle ferrovie con gli inglesi e aveva fatto fortuna. La
leggenda di famiglia narra che sia tornato in Italia perché la moglie
Elisabetta, detta Isa, veneziana, una delle sarte di fiducia della regina
Elena, non sopportava il clima. In realtà nessuno sa perché, però all’inizio
dello scorso secolo si erano stabiliti a Pordenone (ma lui era originario di
Gradiscutta di Varmo, vicino a Codroipo, attualmente in provincia di Udine, e
dai dintorni affonda le radici tutta la schiatta degli Scaini: il nome pare che
venga da Asquini, altro vecchio cognome friulano, e sia di radice tedesca, e
non da “scabini” come si era ritenuto, nonostante uno dei mestieri di famiglia
fosse quello di funzionari amministrativi della Serenissima, che lì confinava
con le terre del Patriarcato e poi imperiali; sono i luoghi del Nievo de le
“Confessioni di un Italiano”) e il nonno si era messo a costruire biciclette e
motocicli e a vendere automobili (Ford, e avrebbe potuto avere l’esclusiva che gli era stata offerta: mio
padre lo odiò per non averla accettata) e a dedicarsi alla politica: radicale e
poi socialista, fu tra i protagonisti della locale Società Operaia, consigliere
comunale e anche prosindaco di Pordenone facente funzione per un periodo
durante la Grande Guerra. La rotta di Caporetto nel 1917 segnò mio padre: la
famiglia sfollò a Firenze, la città che più avrebbe amato dopo Venezia, e ci
iniziò le elementari, a Santa Croce. Anche per come si esprimeva: in un ottimo
e ricco italiano senza accento, e lo scriveva altrettanto bene, con la sua calligrafia chiara e minuziosa. Anche
suo padre Antonio, di formazione risorgimentale e post garibalidina, aveva
interdetto l’uso del natìo furlàn (anche se i Pasolini erano di casa,
in particolare Richetta, che fu balia di mio padre, la zia di Pierpaolo e Guido, sorella di Susanna, che ne era la madre), considerandolo la "marilenghe", a torto, un
dialetto e così in famiglia si è sempre parlato un italiano pulito, tutt’al più
con inflessione veneta, come del resto venete e legate particolarmente a
Venezia erano (e sono) Pordenone e Sacile, i due centri maggiori del Friuli Occidentale,
e in quel campo mia nonna Isa era un’autorità. Non sono mai andati d’accordo,
mio nonno e il suo penultimo figlio: erano 11 in tutto. Il più irrequieto, indocile, indipendente.
Un discolo: la pecora nera. Si davano del lei (non del voi: la famiglia era
notoriamente antifascista. Ma potente, e nessuno ha mai torto un
cappello a un suo membro). Il dispotico Antonio non riusciva a domarlo, e Mario continuò a
ribellarsi fino a quando, a 14 anni, se ne andò di casa e si rifugiò, con la
complicità della madre, che per questo suo figlio autentico “Rosso Malpelo” (o Gian Burrasca) aveva un debole, presso i parenti veneziani: non rivolse la parola a suo padre
fino a guerra finita. Ipercinetico, ribelle, avventuroso: la scuola non lo
interessava, falsificò la data di nascita sui documenti ed entrò nella marina
mercantile come mozzo. Furono un paio di anni di imbarchi in giro per il mondo.
Rimase abbagliato dal Brasile (che rimase sempre nel suo cuore) e affascinato
dalla Cina: riemergeva il lato veneziano, oltretutto a Tienstin, ai tempi
esisteva una “concessione” italiana, operativa fino al 1943. Per interposta
madre, il vecchio patriarca fece in modo che anche il suo figlio "degenere" ricevesse almeno un’istruzione superiore (era un suo dogma, e valeva anche per
le numerose figlie femmine) e complice probabilmente non disinteressato fu mio
zio Ado Furlan, lo scultore, in procinto di divenire cognato di Mario
sposandone la sorella Ester, che insegnava all’equivalente del Liceo Artistico
a Venezia. Riuscì a fargli recuperare gli anni persi e fargli conseguire la
maturità in un anno, così che mio padre si trovò diplomato, come si direbbe
oggi, pressoché “a sua insaputa” e non gli rimase che iscriversi ad
Architettura. Più per logica conseguenza che per passione, ha sempre ammesso, perché era l’unico
sbocco plausibile al suo “baccalaureato”. E comunque mai sarebbe stato una
sorta di arido ingegnere, e per di più commerciante senza fantasia e coraggio
come suo padre, il parsimonioso Antonio, chiamato in famiglia anche “l’ebreo”.
Mario i soldi non li disprezzava: li volatilizzava. Generoso, altruista,
espansivo: aveva preso da sua madre le “mani bucate” e ne andava orgoglioso. La
meschinità di suo padre gli faceva pena. Un pitocco, un micragnoso, lo
definiva. “Non ha mai saputo vivere”. Si mantenne agli studi gareggiando nelle
discipline più improbabili, sci e bob compresi (sport che lo appassionò molto,
come lo hockey su ghiaccio: fu amico, nel dopoguerra, di Eugenio Monti ed era
un assiduo del “Palaghiacco” quando a Milano venivano a giocare Alleghe,
Cortina, Bolzano e Merano, la squadra per cui simpatizzavo io), tre anni di
Università a Venezia, dove ebbe problemi, guarda caso, con le “autorità accademiche”, uno a
Milano, dove continuarono, si laureò finalmente al Politecnico di Torino a metà degli anni Trenta, dopo una pausa
sotto le armi in Etiopia nel 1935/36: battaglione misto genio della Terza
Divisione Alpina Julia, di stanza a Udine, cominciò fra il Tropico del Cancro e
l’Equatore la sua lunga e involontaria carriera militare, che avrebbe compreso
anche le sciagurate campagne di Grecia ed Albania (e sui monti del Pindo mi
trovo ora a pubblicare questo post) tra il 1940 e il 1942, e quella ancora più
demenziale in Russia. Nel frattempo si era stabilito a Milano, dove lavorava
come accennato col cognato Cesare Scoccimarro, tra l’altro alla sede del Banco
di Roma (oggi Unicredit) che si trova a fianco delle Poste Centrali al Cordusio, a Milano: lì
ebbe in uso gratuito, fino a metà degli anni Settanta, nell’attico, da dove si dominava la sua “zona” (cioè quel che rimaneva ed è rimasto, dopo i
bombardamenti, delle “Cinque Vie” adiacenti alla Via Torino), il suo studio. Si
rifiutò di seguire il corso ufficiali, benché fosse laureato e rimase sergente.
Non portava mai la pistola d’ordinanza e non ha mai sparato a qualcuno. Nonostante
ciò fu perfino decorato al valor militare, perché sul Don andò a recuperare un
commilitone ferito sotto il fuoco dei russi. Percepiva per questo una pensione
di guerra di ben 18 mila lire al mese, manco 9 euro di oggi, dallo Stato di
merda per cui ha perso almeno 7 anni della sua esistenza, rischiando la pelle e rimettendoci il fegato.
Nell’esercito stava nella sussistenza, addetto ai rifornimenti: che
scarseggiavano regolarmente. Riusciva e recuperare di tutto, trafficando sia
coi tedeschi sia coi locali, soprattutto quello che era stato imboscato nelle
retrovie. Mario è sempre stato capace di reperire ciò che serviva: “der
Kümmerer”, lo chiamava la sua amica e in futuro zia Rita, il “sistematore”, una
sorte di Wolf tarantiniano che riusciva a risolvere ogni situazione e procacciare
di tutto. Istinto di sopravvivenza, credo, e italianissima arte di arrangiarsi. Rimase memorabile il suo ritorno a Milano,
nella primavera del 1943, da Varsavia, in vagone-letto, carico di ogni ben di dio
(mai arrivare a mani vuote era un suo principio inderogabile), compresi salami,
formaggi e del caffè vero con cui comparve a casa della sorella e del cognato.
E di una cassa di legno verde, piena di divise, fotografie, mappe e carte
relativi alla campagna di Russia e alla penosa ritirata. Mai riaperta, che io mi
ricordi, mia madre disgraziatamente la eliminò durante un trasloco. Lui pesava
poco più di 45 chili, quando tornò in Italia nel 1943, e avrebbe superato il
quintale vent’anni dopo. La marcia di ritorno la fece prevalentemente a piedi,
insieme a una compagnia di Panzer Division tedesca, sfondando le linee russe a
Nikolajevska, poi fino a Charchov e poi Kiev. Parlava poco della guerra, mio
padre, perlopiù per dire quanto fosse stupida, e che con chiunque, a livello
individuale, ci si riesce ad intendere per quanto riguarda le cose essenziali e
quindi venire a patti, e che è il Potere, e la sua adorazione, a distruggere
sistematicamente qualsiasi armonia, insita nell’essere umano. Nozioni che mi ha
trasmesso senza dovermele insegnare o imporre. Ricordava, sempre divertito, di
quanto li sfottessero, loro alpini, equipaggiati come per una missione
invernale di tutto punto mentre attraversavano le pianure russe, lisce come
tavoli da biliardo, durante l’avanzata della caldissima estate del ’42, con
tanto di muli che trasportavano sci e candide tute mimetiche “da neve”, e di
quanto si sarebbe rilevata utile quell’apparentemente incongruente abbondanza
più avanti, solo qualche mese dopo, in quello che fu l’inverno più rigido del
secolo (l’altro fu il 1985). E ancora di come il suo gruppo, insieme a dei carristi
tedeschi, giunti in avanscoperta fino a Stalingrado sfuggirono per un pelo alla
morsa russa tenendo per buono un primo ordine di ritirata e non il secondo,
arrivato poco dopo, di resistere a oltranza venuto direttamente da Hitler e che
fu quello che intrappolò e perse i 270 mila uomini della Sesta Armata tedesca
comandati da Von Paulus. Il Corpo d’armata alpino fu l’unico a non uscire mai
sconfitto nella catastrofica campagna di Russia. Nonostante perdite gravissime,
molti di loro tornarono, a differenza dei poveri fanti e bersaglieri, mandati a
combattere in braghe di tela e scarpe di cartone a 40 gradi sottozero. “La
guerra è idiota e gli alti ufficiali dei cretini”, ripeteva mio padre, ma portava
affetto e rispetto per il generale Umberto Ricagno, che comandava la “Terza
Julia”. Dopo la guerra, dato per spacciato, ebbe per quarant’anni una seconda
vita: gliela regalò, con ogni probabilità, la “fuga” in Sud America. Sulle orme
del padre fu per un periodo a Buenos Aires e poi, visto che dopo i sei mesi di
vita pronosticatigli campava ancora, si spostò in Brasile, il suo vero amore, e
lasciò perdere i giocattoli con cui si era trastullato a Rio e tornò al suo
lavoro di architetto, attivo per qualche tempo a San Paolo. In Brasile potè
dare sfogo a una delle sue passioni: la musica e il ballo: era il Paese per
lui, che il ritmo lo aveva nel sangue e sarebbe sempre stato un ballerino provetto nonostante la mole che acquistò col
passare degli anni. Del resto aveva sempre avuto rapporti stretti col mondo dello spettacolo, prima e dopo la guerra: quando tornò a Milano, nei primi anni Cinquanta e poi durante il “boom”, fu frequentatore assiduo di locali storici come l’”Aretusa” e il “Santa Tecla” e più tardi il “Derby”; fu amico di Fred Buscaglione, conosceva Modugno, visse gli esordi di Mina e Celentano, prevedendone il successo, poi Jannacci. Anche mia madre la conobbe tramite la sorella di mia nonna, la citata Rita, che era un’attrice di rivista di una compagnia tedesca, la Schwarz, famosa negli anni Trenta in Italia e rimasta nel Belpaese: mia madre veniva a trascorrere le vacanze dalla zia, amica di vecchia data “del Mario”, tra Milano e il Lido di Venezia. Fu mio padre a farmi conoscere Gerschwin, i tanghi di Carlos Gardel, i “Platters”, Elvis Presley e più avanti perfino un certo Jimi Hendrix, che lui aveva visto dal vivo all’inizio del 1969 a Düsseldorf definendolo un genio. Ma anche mia madre ci metteva del suo: mi ricordo, per dire, che per i 14 anni, sempre nel 1969, mi regalò “Albatros”, il primo LP dei “Fleetwood Mac”, oggi introvabile, con ancora Peter Green nella formazione e che conteneva “Black Magic Woman”, resa poi celebre da Santana. Il negozio dove lo comprò, in Corso di Porta Romana a Milano, dove abitavamo, era di proprietà di Natalino Otto e Flo Sandon’s. Non fu però mio padre a farmi appassionare al calcio: piuttosto mio cugino Italo, che per qualche anno abitò con noi, tifoso torinista ma con abbonamento all’Inter e frequentazioni morattiane. Mi condusse sulla retta via. Padre e madre milanisti, simpatizzavo tiepidamente per i rossoneri (e per Dino Sani), ma mi convertii alla Beneamata nel corso di un derby primaverile del 1963 finito 1-1 a cui mi aveva portato Italo. Mario simpatizzava anche per la Triestina (l’”Uniòn”, la chiamava lui), Il Padova, il Torino e la Fiorentina, tutte compagini allenate da Nereo Rocco, suo pressoché gemello triestino (nato il 20 maggio del 1912, di un mese e qualche giorno più vecchio), che peraltro conosceva e capitava di frequentare all’”Assassino” di Milano o da “Giulio”, in Caneva, a Trieste, per un’”ombra”. In realtà sono convinto che tifasse per il “Parón” in persona. Triestin "de Cecco Beppe" l'uno, "venexian de tera ferma" l'altro. Il “boom” economico lo visse tutto, nel suo epicentro, Milano; poi cominciò a stufarsi dei suoi committenti, spesso palazzinari brianzoli (vi viene in mente qualcuno, per caso?) che lesinavano sul quattrino e di conseguenza sulla qualità dei materiali: uomo di cantiere più che da tavolo da disegno, mio padre non transigeva e non gliele mandava a dire, per cui si guastò il mercato, per il suo carattere e per quel suo dire sempre quel che pensava (questa l'abituale rampogna di mia madre). Già, mia madre: più diversi non potevano essere, a cominciare dal divario d’età. Lei aveva 22 anni quando nacqui, lui 43. Mio padre teorizzava che non avrebbe mai voluto una madre italiana per suo figlio (eppure quella che lo foraggiava di nascosto lo era, o forse per questo…), perché gli premeva che fosse educato “alla tedesca”: così sposò un’austriaca. Così come da scapolo una suditrolese gli faceva da "governante". Un'austriaca, mia madre Helga, che veniva regolarmente scambiata per una di loro dalla comunità israelita che abitava nelle vicinanze per il suo aspetto mediterraneo, mentre il tedesco, biondo rossiccio com’era prima di incanutire precocemente come tutti gli Scaini, occhio ceruleo e pelle candida, era lui. Che pur essendo esuberante di carattere, era un vero maniaco della precisione, anche in questo teutonico: i suoi armadi stracolmi di vestiti e accessori in perfetto ordine erano leggendari. Per non parlare dei set di portamine e matite per cui aveva una cura maniacale. “Ordine nelle cose, ordine nella testa”, ripeteva. E io gli davo poco ascolto sotto questo aspetto. Ovviamente mio padre era sempre in movimento (dovrò pure avere preso da qualcuno…) e mia madre stanziale. Non risparmiava, mio padre, meno che mai sull’abbigliamento, le scarpe (un autentico feticista), automobili, cibo e soprattutto vino. E non si risparmiava: la vita lui la divorava. A metà degli anni Sessanta, il centro dei suoi interessi professionali si spostò a Est, nel Friuli in cui era nato, a Pordenone, dove finì per trasferirsi stabilmente anche se non volle mai lasciare l’abitazione milanese, che “custodivo” io. Lì aprì uno studio professionale insieme a suo nipote Giannino Furlan, fratello di Italo, uno dei figli del cognato scultore che aveva raddrizzato la sua zoppicante carriera studentesca (e così anche questo cerchio si chiude). E lì lasciò le sue tracce più visibili, ad esempio nel “Grattacielo Santin”, l’unico della città, che resistette senza grossi problemi alle scosse del terremoto del 1976. Walter Gropius e la “Bauhaus” erano il suo ovvio punto di riferimento, considerando gli anni della sua formazione, non impazziva per Le Corbusier, che pure aveva visto all’opera in Brasile, gli piaceva però il coetaneo Oscar Niemeyer, ma per lui il maestro rimaneva Mies van der Rohe, che definiva “il poeta dell’architettura”. Architetto più per scelta che per vocazione, fini per appassionarsi alla sua professione, in cui era meticoloso come nella sistemazione dei suoi armadi, e aveva una predilezione per l’arredamento, il design e l’architettura dei giardini. La sua vera passione però erano, oltre al vino, al cibo e alle donne, i tessuti, sotto qualsiasi forma, in particolare abiti e accessori di ogni genere. Oltre a svuotare (e riempire di nuovo) intere cantine, saccheggiava metodicamente boutique di alta moda: da “Excellence” a Venezia aveva il conto aperto (e alla “Madonna”, a Rialto, era di casa per il “granzo poro” e il risotto ai frutti di mare) e da Bardelli a Milano, in Corso Magenta a due passi dallo studio, gli stendevamo le passatoie rosse. Ha speso capitali in vestiti e scarpe e parecchi sono ancora in uso tra i famigliari che li hanno ereditati: indistruttibili. Aveva occhio e comprava solo il meglio. Che sarebbe durato per sempre. Aveva una straordinaria capacità di osservazione e aveva fiuto: sarebbe stato un ottimo giornalista, ma non era abbastanza cialtrone. Gli piacevano Biagi, che conosceva di persona, e Vergani, ovviamente anche Montanelli anche se non ne condivideva le posizioni, salvo che su Venezia. Pur dichiaratamente di sinistra, e da sempre elettore del PCI, in realtà disprezzava i politici, anzi: “politicanti: tutti menarosti” e come il buon Indro era fondamentalmente un anarchico, e lo si poteva definire tuttalpiù un liberale progressista anziché conservatore. Detestava profondamente le “americanate” e tutto ciò che gli USA rappresentavano (figurarsi se fosse vivo ora!), musica e cinema a parte (ma la prima l’hanno portata i neri, che non sono considerati cittadini e il secondo gli ebrei tedeschi sfuggiti al nazismo, diceva). Al termine dell'unico viaggio che fece negli USA, ricordo le sue esilaranti descrizioni del cibo americano, che secondo lui, e giustamente, è la parabola di tutto il resto: grande, colorato, inodore, insapore. Di plastica. Finto come quell’abominio di inglese che biascicano. Sei quello che mangi: nutrendosi di merda, gli yankee erano, per lui, delle merde. Da bravo italiano ammirava i tedeschi ma non li amava, non sopportava i francesi, gli piacevano i cinesi e i brasiliani, meno gli argentini (“sono tristi”: forse gli ricordavano suo padre) e andava d’accordo con gli slavi (croato di Fiume era il suo migliore amico nonché mio padrino) e sulle coste istriane, quarnerine e dalmate trascorreva ogni fine settimana da Pasqua a settembre. Famosi erano i “weekend alla Mario”, che avevano inizio nel tardo pomeriggio di giovedì, "perché così si evita il traffico", giusto in tempo per una cena pantagruelica a base di scampi a Laurana o Umago, e terminavano il lunedì sera (sempre perché così si evitano le code) con una puntata da “Giulio” a Trieste per un’ultima “ombra”. In frontiera ormai non gli chiedevano più i documenti: era ormai come un parente. Mia madre non era esattamente entusiasta delle escursioni del “vecio”, spesso in compagnia dei nipoti e talvolta del figlio, e diceva che tutte le puttane della Jugoslavia facevano festa appena lui varcava la dogana, avvertite dagli agenti dell’arrivo imminente del vecchio satiro. Ma non aveva bsogno di pagare le donne: le affascinava, lei compresa. Stravedevano per lui, a ogni età. Ci sapeva fare, senza mai essere un cicisbeo. Avrebbe voluto tornare in Argentina e in Brasile con me, prima di morire: non ne ha avuto il tempo. L’ho fatto io per te, papà, più volte. E ti ho portato dentro.
passare degli anni. Del resto aveva sempre avuto rapporti stretti col mondo dello spettacolo, prima e dopo la guerra: quando tornò a Milano, nei primi anni Cinquanta e poi durante il “boom”, fu frequentatore assiduo di locali storici come l’”Aretusa” e il “Santa Tecla” e più tardi il “Derby”; fu amico di Fred Buscaglione, conosceva Modugno, visse gli esordi di Mina e Celentano, prevedendone il successo, poi Jannacci. Anche mia madre la conobbe tramite la sorella di mia nonna, la citata Rita, che era un’attrice di rivista di una compagnia tedesca, la Schwarz, famosa negli anni Trenta in Italia e rimasta nel Belpaese: mia madre veniva a trascorrere le vacanze dalla zia, amica di vecchia data “del Mario”, tra Milano e il Lido di Venezia. Fu mio padre a farmi conoscere Gerschwin, i tanghi di Carlos Gardel, i “Platters”, Elvis Presley e più avanti perfino un certo Jimi Hendrix, che lui aveva visto dal vivo all’inizio del 1969 a Düsseldorf definendolo un genio. Ma anche mia madre ci metteva del suo: mi ricordo, per dire, che per i 14 anni, sempre nel 1969, mi regalò “Albatros”, il primo LP dei “Fleetwood Mac”, oggi introvabile, con ancora Peter Green nella formazione e che conteneva “Black Magic Woman”, resa poi celebre da Santana. Il negozio dove lo comprò, in Corso di Porta Romana a Milano, dove abitavamo, era di proprietà di Natalino Otto e Flo Sandon’s. Non fu però mio padre a farmi appassionare al calcio: piuttosto mio cugino Italo, che per qualche anno abitò con noi, tifoso torinista ma con abbonamento all’Inter e frequentazioni morattiane. Mi condusse sulla retta via. Padre e madre milanisti, simpatizzavo tiepidamente per i rossoneri (e per Dino Sani), ma mi convertii alla Beneamata nel corso di un derby primaverile del 1963 finito 1-1 a cui mi aveva portato Italo. Mario simpatizzava anche per la Triestina (l’”Uniòn”, la chiamava lui), Il Padova, il Torino e la Fiorentina, tutte compagini allenate da Nereo Rocco, suo pressoché gemello triestino (nato il 20 maggio del 1912, di un mese e qualche giorno più vecchio), che peraltro conosceva e capitava di frequentare all’”Assassino” di Milano o da “Giulio”, in Caneva, a Trieste, per un’”ombra”. In realtà sono convinto che tifasse per il “Parón” in persona. Triestin "de Cecco Beppe" l'uno, "venexian de tera ferma" l'altro. Il “boom” economico lo visse tutto, nel suo epicentro, Milano; poi cominciò a stufarsi dei suoi committenti, spesso palazzinari brianzoli (vi viene in mente qualcuno, per caso?) che lesinavano sul quattrino e di conseguenza sulla qualità dei materiali: uomo di cantiere più che da tavolo da disegno, mio padre non transigeva e non gliele mandava a dire, per cui si guastò il mercato, per il suo carattere e per quel suo dire sempre quel che pensava (questa l'abituale rampogna di mia madre). Già, mia madre: più diversi non potevano essere, a cominciare dal divario d’età. Lei aveva 22 anni quando nacqui, lui 43. Mio padre teorizzava che non avrebbe mai voluto una madre italiana per suo figlio (eppure quella che lo foraggiava di nascosto lo era, o forse per questo…), perché gli premeva che fosse educato “alla tedesca”: così sposò un’austriaca. Così come da scapolo una suditrolese gli faceva da "governante". Un'austriaca, mia madre Helga, che veniva regolarmente scambiata per una di loro dalla comunità israelita che abitava nelle vicinanze per il suo aspetto mediterraneo, mentre il tedesco, biondo rossiccio com’era prima di incanutire precocemente come tutti gli Scaini, occhio ceruleo e pelle candida, era lui. Che pur essendo esuberante di carattere, era un vero maniaco della precisione, anche in questo teutonico: i suoi armadi stracolmi di vestiti e accessori in perfetto ordine erano leggendari. Per non parlare dei set di portamine e matite per cui aveva una cura maniacale. “Ordine nelle cose, ordine nella testa”, ripeteva. E io gli davo poco ascolto sotto questo aspetto. Ovviamente mio padre era sempre in movimento (dovrò pure avere preso da qualcuno…) e mia madre stanziale. Non risparmiava, mio padre, meno che mai sull’abbigliamento, le scarpe (un autentico feticista), automobili, cibo e soprattutto vino. E non si risparmiava: la vita lui la divorava. A metà degli anni Sessanta, il centro dei suoi interessi professionali si spostò a Est, nel Friuli in cui era nato, a Pordenone, dove finì per trasferirsi stabilmente anche se non volle mai lasciare l’abitazione milanese, che “custodivo” io. Lì aprì uno studio professionale insieme a suo nipote Giannino Furlan, fratello di Italo, uno dei figli del cognato scultore che aveva raddrizzato la sua zoppicante carriera studentesca (e così anche questo cerchio si chiude). E lì lasciò le sue tracce più visibili, ad esempio nel “Grattacielo Santin”, l’unico della città, che resistette senza grossi problemi alle scosse del terremoto del 1976. Walter Gropius e la “Bauhaus” erano il suo ovvio punto di riferimento, considerando gli anni della sua formazione, non impazziva per Le Corbusier, che pure aveva visto all’opera in Brasile, gli piaceva però il coetaneo Oscar Niemeyer, ma per lui il maestro rimaneva Mies van der Rohe, che definiva “il poeta dell’architettura”. Architetto più per scelta che per vocazione, fini per appassionarsi alla sua professione, in cui era meticoloso come nella sistemazione dei suoi armadi, e aveva una predilezione per l’arredamento, il design e l’architettura dei giardini. La sua vera passione però erano, oltre al vino, al cibo e alle donne, i tessuti, sotto qualsiasi forma, in particolare abiti e accessori di ogni genere. Oltre a svuotare (e riempire di nuovo) intere cantine, saccheggiava metodicamente boutique di alta moda: da “Excellence” a Venezia aveva il conto aperto (e alla “Madonna”, a Rialto, era di casa per il “granzo poro” e il risotto ai frutti di mare) e da Bardelli a Milano, in Corso Magenta a due passi dallo studio, gli stendevamo le passatoie rosse. Ha speso capitali in vestiti e scarpe e parecchi sono ancora in uso tra i famigliari che li hanno ereditati: indistruttibili. Aveva occhio e comprava solo il meglio. Che sarebbe durato per sempre. Aveva una straordinaria capacità di osservazione e aveva fiuto: sarebbe stato un ottimo giornalista, ma non era abbastanza cialtrone. Gli piacevano Biagi, che conosceva di persona, e Vergani, ovviamente anche Montanelli anche se non ne condivideva le posizioni, salvo che su Venezia. Pur dichiaratamente di sinistra, e da sempre elettore del PCI, in realtà disprezzava i politici, anzi: “politicanti: tutti menarosti” e come il buon Indro era fondamentalmente un anarchico, e lo si poteva definire tuttalpiù un liberale progressista anziché conservatore. Detestava profondamente le “americanate” e tutto ciò che gli USA rappresentavano (figurarsi se fosse vivo ora!), musica e cinema a parte (ma la prima l’hanno portata i neri, che non sono considerati cittadini e il secondo gli ebrei tedeschi sfuggiti al nazismo, diceva). Al termine dell'unico viaggio che fece negli USA, ricordo le sue esilaranti descrizioni del cibo americano, che secondo lui, e giustamente, è la parabola di tutto il resto: grande, colorato, inodore, insapore. Di plastica. Finto come quell’abominio di inglese che biascicano. Sei quello che mangi: nutrendosi di merda, gli yankee erano, per lui, delle merde. Da bravo italiano ammirava i tedeschi ma non li amava, non sopportava i francesi, gli piacevano i cinesi e i brasiliani, meno gli argentini (“sono tristi”: forse gli ricordavano suo padre) e andava d’accordo con gli slavi (croato di Fiume era il suo migliore amico nonché mio padrino) e sulle coste istriane, quarnerine e dalmate trascorreva ogni fine settimana da Pasqua a settembre. Famosi erano i “weekend alla Mario”, che avevano inizio nel tardo pomeriggio di giovedì, "perché così si evita il traffico", giusto in tempo per una cena pantagruelica a base di scampi a Laurana o Umago, e terminavano il lunedì sera (sempre perché così si evitano le code) con una puntata da “Giulio” a Trieste per un’ultima “ombra”. In frontiera ormai non gli chiedevano più i documenti: era ormai come un parente. Mia madre non era esattamente entusiasta delle escursioni del “vecio”, spesso in compagnia dei nipoti e talvolta del figlio, e diceva che tutte le puttane della Jugoslavia facevano festa appena lui varcava la dogana, avvertite dagli agenti dell’arrivo imminente del vecchio satiro. Ma non aveva bsogno di pagare le donne: le affascinava, lei compresa. Stravedevano per lui, a ogni età. Ci sapeva fare, senza mai essere un cicisbeo. Avrebbe voluto tornare in Argentina e in Brasile con me, prima di morire: non ne ha avuto il tempo. L’ho fatto io per te, papà, più volte. E ti ho portato dentro.
Marco, è un racconto bellissimo. Mi ha lasciato senza parole, e infatti non ne aggiungo altre se non per dire: è stato sicuramente molto contento, di avere avuto un figlio come te.
RispondiEliminaIl grattacielo Santin ha resistito al terremoto, purtroppo.
RispondiEliminaPer caso era Enzo Scaini tuo parente?
RispondiEliminahttps://www.ilfattoquotidiano.it/2018/07/23/non-ero-paolo-rossi-un-libro-inchiesta-per-ricordare-enzo-scaini-morto-dopo-unoperazione-al-ginocchio/4506605/