CERNÁ HORA (Repubblica Ceca) -
Come avevo accennato nel post di giovedì sarebbe stata dura, ma alla
fine ce l’abbiamo fatta e, grazie a una accorta strategia dei pit-stop
e dei cambi alla guida, ieri siamo riusciti nella ragguardavole impresa
di abbattere il muro della media di 50 km/h su strade polacche,
compiendo in sole 9 ore il tragitto che separa Grudziadz da Boboszów,
località di frontiera con la Repubblica Ceca: 512 chilometri. Che il
sito viamichelin
prevede di compiere in 8 ore e 5 minuti: immagino ipotizzati con
strade completamente deserte e con tutti i semafori sintonizzati sul
verde. E né io né il “Segretario” siamo gente che alla guida si dedica
alla pennica. Due i nodi gordiani oltre a quelli meno impegnativi dei
centri minori: Poznan (Posen in tedesco) e Wroklaw (Breslau),
rispettivamente quinta e quarta città della Polonia per numero di
abitanti, e anche fra le più belle, che avevamo visitato a fondo in un
viaggio di qualche anno fa. Il primo nodo, Poznan, è toccato a me
scioglierlo, perdendo oltre mezz’ora a percorrere una sorta di
tangenziale interna alla città, condita da svolte repentine che fanno
perdere il senso dell’orientamento. Della approssimazione del sistema di
segnaletica ho scritto ieri: se non si ha a fianco un compagno di
viaggio sveglio, con un occhio alla mappa e l’altro ai rari cartelli
stradali, quella di perdersi non riveste i contorni dell’eventualità ma
assume il carattere di una certezza. Regolatevi di conseguenza oppure
dotatevi di un navigatore satellitare: si rivelerà un ottimo
investimento in grado di far risparmiare tempo prezioso e scariche di
adrenalina a raffica, dannose per il sistema nervoso e le coronarie.
Comunque, nell’arco di mezz’ora ce l’ho fatta. Tagliare l’aggrovigliata
matassa di quello costituito da Wroklaw è stato compito del
“Segretario”: causa giganteschi lavori in corso sulla tangenziale,
attualmente occorre attraversare la città da Nord a Sud, passare un
fiume, l’Odra, due canali e dunque una serie di ponti intasati,
transitare per il centro aggirando il nucleo storico e districarsi in
una gimkana senza senso a passo d’uomo, circondati da una
consistente maggioranza di automobilisti catatonici. Tempo: un’ora per
riacciuffare il bandolo perduto, la fottuta Statale n° 8 che conduce
verso il paradiso delle strade ceche (è tutto dire) in direzione Praga. E
non era nemmeno l’orario di punta. Tra Poznan e Wroklaw, per ingannare
il tempo io e il “Segretario” abbiamo provato a calcolare il numero di
“porconi” tirati durante la nostra non breve esistenza (senza contare
quelli solo pensati). Calcolando 40 anni di carriera, per stare schìsci (bassi,
ossia per difetto, per i non milanesi) siamo arrivati a una stima di un
milione e mezzo a cranio, con vertici assoluti durante gli incontri di
calcio Italia-Francia, Italia-Brasile e, soprattutto, gli scontri delle
rispettive squadre del cuore con la Juventus nonché le stracittadine, il
“Segretario” sulla sponda rossonera e io su quella nerazzurra. Durante
la traversata di Breslavia, questo il nome in lingua italica, ieri
pomeriggio, queste cime abissali sono state ampiamente superate. Solo
per assurdo abbiamo provato a ipotizzare come reagiremmo se, una volta
morti, ci fossimo trovati davanti davvero San Pietro con le chiavi e LUI
in persona, col barbone bianco e i lunghi capelli ondulati, con tutta
la salmodiante compagnia, a cominciare dal prete che ci diceva che a
toccarci “lì” saremmo rimasti ciechi
o alle angherie subite da qualche suora all’asilo o durante un ricovero
ospedaliero, che ci avrebbero accolti con un “vi avevamo avvertito:
adesso sono cazzi vostri. E pure acidi”. Insomma è iniziata una sorta di
deriva mistica. O "percorso", secondo il linguaggio cattolico ma anche
neuromarxista. Per rimanere in questo clima elevato, e dopo che il
cielo si era sgomberato dalle ultime nuvole rimaste a gravitare su
Wroklaw, abbiamo deciso di ripercorrere la strada già fatta in senso
inverso quando eravamo venuti per la prima volta in Polonia 4 anni fa:
la strada panoramica che, dalla pittoresca Klodzko, si dirama dalla n° 8
per procedere, dopo il confine di Boboszów, verso Sumperk e da qui a
Olomouc o Brno, quest’ultima la nostra direzione, e poi oltre verso
Vienna, Graz e quindi la Terra dei Cachi quest’oggi. Bellissimi i
paesaggi collinari di questa zona (sopra a destra) della Bassa
Slesia, dove il passato tedesco si nota in modo particolarmente marcato
dall’aspetto delle costruzioni e dall’urbanistica dei centri abitati.
Nella precedente occasione non avevamo avuto modo di apprezzarli a causa
di una piogga battente, della cupezza della giornata (un Ferragosto che
cadeva di domenica) e del tramonto imminente. E’ stata la prima
ricompensa dopo aver espiato in modo preventivo, sulle strade polacche,
le nostre colpe, ma la vera epifania si sarebbe avuta un paio d’ore più
tardi, al termine della discesa attraverso Landskrun e Svitavy in
direzione Brno, nel cuore della Moravia. Dopo tre tentativi infruttuosi
di trovare una sistemazione in una camera con due letti separati a
Boskovice, centro turistico a sei chilometri a Est dalla strada
principale, abbiamo deciso di puntare su Tisnov, a Sud-Ovest. Imboccata
la deviazione per il nostro traguardo, dopo nemmeno un chilometro
abbiamo fatto il nostro ingresso a Cerná Hora (collina nera in ceco) e
qui è apparsa simultaneamente davanti
ai nostri occhi la Rivelazione: luminosa e calda come il sole, gialla come l’oro: l’omonimo Pivovar,
ovvero birrificio, in piena attività, il più antico della Moravia, anno
di fondazione il 1298, con tanto di spacci, un grande ristorante e,
soprattutto, annessa pensione! (cfr foto a sinistra) Mai ci
saremmo immaginati, noi miscredenti, una simile ricompensa per le nostre
fatiche. Ma avevamo portato a termine con successo una vera impresa e
meritavamo un premio speciale. Compagni di avventura qui alla pensione e
ieri sera nella taverna, un drappello di motociclisti, tutti di pelle
nera bardati. “Li vedo male, dopo la serata di ieri, i bikers cèchi su
queste strade”, ha avuto modo di affermare poco fa, icasticamente, il
“Segretario”, a dimostrazione che anche lui non era passato indenne dal
crescendo birresco e di grado alcolico, dai 10 (questi saccarometrici)
della non filtrata “Moravske Sklepni” passando per i 12 della “Lezak”,
prodotta secondo la più antica ricetta morava risalente a sei secoli fa,
fino ai 14 della “Kvasar”, birra speciale al miele: l’apoteosi finale.
Tutte alla spina, rigorosamente in boccali da mezzo litro, hanno
gioiosamente accompagnato un abbondante piatto di carne mista di maiale
con canederli di pane e di patate e crauti sia bianchi sia rossi,
chiamato "delizia del contadino", equivalente al tedesco
"Bauernschmaus". Ora siamo reduci da una sostanziosa colazione a base di
gustosi würstel, salumi, formaggio per la parte salata; pane,
burro marmellata e miele per il settore dolce. Niente birra, perché
bisogna guidare e il tasso alcolemico tollerato nella Repubblica Ceca è
zero. Conto totale per tutto questo, pernottamento e prima naturalmente
inclusa: 1400 corone, 50 €. In due. 25 a testa. Epilogo in gloria di
questo bel viaggio, e ora ritorno nel Paese dell’eterno carnevale. E dei
conti salati.
GRUDZIADZ (Polonia) –
Lasciata Vilnius questa mattina, per una volta imbroccando subito la
direttrice per Kaunas grazie a un’indicazione piazzata a pochi incroci
dalla via dell’albergo, preventivamente individuata e che non ci ha
risparmiato una escursione nell’intrico di raccordi che ci avrebbero
infine condotti sulla superstrada, siamo giunti a metà mattinata nella
seconda città del Paese, poco meno grande della capitale ma
infinitamente più dimessa e, in parte, desolante e all'apparenza priva
di vita. La città si trova alla confluenza tra i fiumi Nemunas e Neris e
il centro storico, situato nella penisola che ne risulta, coincide con
il perimetro della fortezza che, nel XIV secolo, resistette per oltre
cinquant’anni ai continui attacchi dei cavalieri dell’Ordine Teutonico,
che conquistandola avrebbero potuto dominare un territorio ininterrotto
dall’Estonia alla Prussia orientale, e congiunto i possedimenti di
quest’ultima con quelli della Livonia a Nord-Est. Dal 1440 fu annessa
alla Lega Anseatica e la sua importanza commerciale crebbe di
conseguenza. Nel 1795 passò alla Russia e divenne capoluogo di un
Governatorato fino ad assumere il ruolo, in seguito all’occupazione di
Vilnius da parte della Polonia (che non è solo stata vittima, nel corso
della sua storia, come vuole accreditarsi, ma a sua volta aggressore),
di capitale dello Stato lituano tra il 1920 e il 1940, ed essere
nuovamente contesa tra russi e tedeschi nel corso della Seconda Guerra
Mondiale. La visita è stata rapida, anche perché non è che vi sia
moltissimo da vedere: il lungo viale pedonalizzato che divide in due il
centro porta da un lato dalla cattedrale di San Pietro e Paolo all’ex
Palazzo Presidenziale; dall’altro da quest’ultimo alla bella piazza
dell’ex municipio (nella foto in alto), costruito a partire dal 1542,
con una torre campanaria alta oltre 50 metri che lo fa assomigliare a
una chiesa, simile a quella vera al suo lato, dedicata a San Francesco; a
poca distanza, quella di San Giorgio, parte di un monastero
cistercense. Affacciata al Nemunas, la chiesa di San Vito. A Est si
estende la città nuova, sviluppatasi a partire dal XIX secolo,
decisamente meno attraente. Una torre ricostruita e una parte delle mura
e del fossato sono ciò che resta del Castello di Kaunas, ossia quel che
rimane dell’antica città fortificata. A pochi chilometri dal centro, il
“Nono Forte”, costruito nell’Ottocento come fortificazione dai russi e
trasformato dai nazisti in campo di concentramento, dove furono
sterminate almeno 80 mila persone, tra cui quasi tutta la popolazione
ebraica della città. Nel Dopoguerra i sovietici completarono l’opera,
utilizzandolo come prigione e luogo delle esecuzioni. Per mancanza di
tempo, abbiamo dovuto saltarne la visita. Seconda in tutto rispetto alla
capitale, per certi versi come Milano nei confronti di Roma (e mi viene
un groppo allo stomaco a dirlo), Kaunas primeggia però nello sport: la
squadra di calcio del FBK Kaunas è la più titolata del Paese così come
la più celebre Žalgiris della pallacanestro, di cui fu stella, e ora
presidente e maggiore azionista, il fenomenale gigante Arvidas Sabonis,
probabilmente il migliore “centro” europeo di sempre, che gli
appassionati sicuramente ricorderanno. Infine, nell’ultima sosta in
terra lituana, e quindi occasione possibile, siamo riusciti a entrare in
possesso di due bottiglie di midus, l’idromele di cui andavano ghiotte le popolazioni medievali, prodotto dalla benemerita Stakliskes
con il procedimento originale, che avevamo cercato invano a Vilnius.
Per acquistarle abbiamo dovuto fare buon viso di fronte all’incredibile
scortesia e maleducazione della vecchia, orrida e acida bottegaia che
gestisce l’emporio. Nel contempo, però, le abbiamo sbolognato gli ultimi
litas rimastici
in tasca, investendoli in un acquisto fondamentale quanto prezioso. Di
fronte al negozio, un grazioso altarino innalzato a Michael Jackson (foto a sinistra). Da Kaunas sono soltanto un’ottantina i chilometri al confine con la Polonia, e all’inizio della via crucis
costituita dalle sue strade. Attraversarla a una velocità media
superiore ai 50 all’ora è un’impresa titanica e, fino a questa sera, ci
siamo riusciti. Via crucis in senso letterale, per la
profusione di croci e statue di Madonne lungo il percorso e in senso
figurato, perché un Paese così bello e interessante non si merita una
rete viaria così malridotta, la peggiore che abbia sperimentato nel
Continente dopo quella romena (a esclusione di quella della Russia, che
ho qualche perplessità a considerare propriamente Europa). Alla
strettezza delle carreggiate si aggiungono la sconnessione della
pavimentazione, le indicazioni mancanti e, quando presenti, spesso
demenziali nonché lo stile di guida degli indigeni, che definire carente
è un complimento. E’ caratterizzato dall’originale “svolta polacca”,
quella a destra in particolare, la cui manovra inizia con l’azionamento
della freccia di segnalazione, nei casi fortunati, e dal simultaneo
spostamento della vettura che precede nella carreggiata opposta, ossia
in senso contrario a quello indicato dai lampeggianti, e dalla brusca
sterzata a dritta, interrotta da un colpo di freni quando la vettura è
in posizione obliqua rispetto a chi segue, pressoché sulla tangente del
paraurti sinistro. Se il guidatore dell'automezzo che precede è un
cretino assoluto, in assenza di segni di vita da parte degli indicatori
di direzione, sarete convinti che stia preparandosi a sorpassare il
veicolo che precede: ebbene, nel 20% dei casi non è così. Estote parati.
Sempre. Un altro suggerimento è quello di prendere in considerazione le
strade secondarie rispetto alle statali: l’estate è periodo di grandi
cantieri sulla viabilità principale e in questo modo eviterete lunghe
attese ai semafori mobili e, al contempo, l’esasperante attraversamento
dei centri più importanti. Grazie a questa scelta che si è rilevata
geniale abbiamo avuto modo di goderci appieno i panorami
davvero incantevoli della zona dei Laghi Masuri (da qui il probabile etimo della mazurka, cfr foto a destra),
luogo di una delle prime battaglie sul fronte orientale durante la
Grande Guerra, un’area di circa 50 mila chilometri quadrati a Est della
Vistola, chiamata anche “Regione dei Mille Laghi” (in realtà i bacini
sono oltre duemila), una specie di Finlandia a Sud del Baltici che fino
al 1945 faceva parte della Prussia Orientale così come l’exclave
russa di Kaliningrad, ovvero la tedesca Königsberg, patria di Immanuel
Kant. Il che spiega in buona parte la presenza relativamente massiccia
di turisti germanici. Insignificante più ancora che brutto il capoluogo
Olsztyn, abbiamo deciso di proseguire fino a Grudziadz, già parte del
voivodato di Cuiavia-Pomerania, e fare tappa in questo centro, che si
trova su una delle direttrici principali del Paese, la Statale n° 5 che
collega da Nord a Sud Danzica a Poznan e Wroklaw (Breslavia), crocevia
verso la Germania e la Repubblica Ceca. Grudziadz, pur dotata di un
piacevole centro storico pedonalizzato, e nonostante abbia oltre 100
mila abitanti, alle otto di sera sembra una città fantasma se non fosse
per la presenza di personaggi dall’aspetto vagamente inquietante, a cui
bisogna pur rivolgersi per cercare di ottenere qualche indicazione al
fine di trovare un albergo e un luogo di ristorazione vista la totale
assenza di segnaletica. Alla fine non si riveleranno nemmeno
malintenzionati o insidiosi, soltanto un po’ strani e completamente
digiuni di qualsiasi idioma straniero, salvo, in un caso su dieci, di
qualche rudimento di tedesco. Stessa situazione nell’unico locale aperto
che non fosse soltanto una pizzeria, dove abbiamo dovuto improvvisarci
glottologi per cercare di scovare comuni radici indoeuropee nelle parole
stampate sul menù rigorosamente in polacco, ed è tornato utile il
fondamentale linguaggio dei gesti, in cui noialtri italiani siamo
particolarmente versati, considerata le generale insipienza nelle lingue
straniere mediamente pari a quella degli indigeni di Grudziaz. Ci è
andata bene: il risultato sono stati una cotoletta impanata per il
“Segretario” e un sapido polpettone in sugo di selvaggina e aneto, che
però si chiama ingannevolmente “kotlett”, per me. Immancabili e squisite
le patate, fritte (e non surgelate e precotte) oltre al cavolo
cappuccio, ai cetrioli e al pomodoro pallido, che qui chiamano insalata.
Ottima come sempre la birra, e da queste parti la fa da padrone la
“Zubr”, che significa bisonte, e dà il nome anche a una celebre vodka
polacca. Come dessert delle ricche omelette alle mele con
abbondante cannella, deliziose. Il conto, come sempre in questo Paese,
decisamente leggero rispetto ai livelli deliranti a cui siamo abituati
nella Terra dei Cachi.
VILNIUS (Lituania) –
Adagiata su sette colli, 550 mila abitanti, fondata da Gedimino,
granduca di Lituania attorno al 1320 in un’area però già abitata da
altri 1000 anni, Vilnius è una città vitale, quasi scanzonata, in cui si
respira un’aria completamente diversa da quella di Riga e, soprattutto
Tallinn. Il centro storico, molto esteso anche a causa dell’altezza
mediamente ridotta degli edifici, è il trionfo di un barocco piuttosto
originale, tanto da essere dichiarato dall’UNESCO quello più vasto
esistente al mondo e dunque anch’esso, come quello delle altre capitali
baltiche, Patrimonio dell’Umanità. Il primo approccio, ieri nel primo
pomeriggio, non è stato dei più felici: in città mancano completamente
le indicazioni stradali anche verso le mete principali, e il fatto di
essere attraversata da un fiume che compie un’ampia ansa e da un canale
secondario contribuiscono a confondere le idee. Per capire da quale lato
della città ci trovassimo, il “Segretario”, con una trovata degna del
suo leggendario pragmatismo, è sceso dalla macchina per controllare di
persona in che senso scorresse il fiume e stabilire una volta per tutte
le coordinate dei quattro punti cardinali. Questo dopo che un taxista, a
cui mi ero rivolto per sapere in che direzione fosse situata la
stazione ferroviaria, non aveva fornito l’informazione offrendosi in
compenso di scortarci fin lì per la bellezza di 15 euro. Ovviamente gli
abbiamo risposto col dito medio alzato, e poco dopo avremmo scoperto che
ne eravamo distanti non più di un chilometro.
Della
scorrettezza dei taxisti eravamo stati avvertiti così come della
petulanza davvero molesta dei mendicanti, i quali non risparmiano
nemmeno l’interno delle chiese e che non sono zingari né immigrati ma
indigeni, generalmente tutt’altro che anziani né particolarmente
disadattati, perfino vestiti del tutto normalmente: semplicemente
stronzi, così come i taxisti e buona parte dei guidatori, e qui gli
stramaledetti SUV e i macchinoni, perfino limousine americane
bianche o nere con tanto di vetri oscurati, abbondano molto più che
altrove nella regione, segno di una ricchezza anche un po’ ambigua che
puzza di mafia russa bene inserita nei meccanismi della città.
Personalmente a prima vista Vilnius mi ha ricordato Salisburgo in
grande, sia per l’abbondanza del barocco, che in alcuni casi come il
Duomo e soprattutto la chiesa di San Casimiro ricorda un laboratorio di
pasticceria, sia per la discompiacenza degli indigeni: sempre il
“Segretario”, che aveva poeticamente definito “intense” le donne di
Tallinn ed estoni in genere, “sorridenti” quelle lettoni e di Riga in
particolare, ha subito bollato come “sprezzanti” quelle di Vilnius. “Se
la tirano peggio delle milanesi”, così ha sentenziato al termine della
serata di ieri, confermando il giudizio dopo la giornata odierna. E’ una
città un po’ tsigana e casinista, e anche le fisionomie non
sono nordiche come quelle abituali nelle altre nazioni della regione: i
lituani hanno spesso il baricentro più basso (eppure sono noti più come
fenomenali cestisti che calciatori). E’ facile definirla “la Napoli
baltica”: pur non essendo un porto come Riga e Tallinn, è decisamente
più sporca. La Lonely Planet definisce i lituani “istintivi” e
cordiali, io aggiungerei un po’ anarcoidi ma in modo piacevole: del
resto “ognuno è il terrone di qualcun altro”, e i lituani lo sono degli
altri baltici; d’altronde tra Tallinn e Vilnius ci sono più chilometri
di distanza che fra Milano e Napoli. Detto questo la città è più che
gradevole: bei negozi, tanti bar e ristoranti piacevoli, musei e, come
detto, chiese a profusione. Non mancano, oltre a quelle cattoliche e
protestanti, quelle ortodosse, come quella verde smeraldo dei Romanov,
un pugno nell’occhio che si nota a chilometri di distanza, che
incrementano l’effetto “torta nuziale”. C’è da aggiungere che la
minoranza russofona qui è molto meno consistente che nelle altre due
nazioni baltiche, in particolare le Lettonia, e di conseguenza
l’omogeneità etnica dei lituani maggiore. A rendermi poi ancora più
simpatica Vilnius, la scoperta di un monumento dedicato a Frank
Zappa (foto a sinistra),
che del resto non deve meravigliare in una città che ama la musica ed è
una delle capitali del jazz europeo. Tra i musei, impressionante quello
delle Vittime di Genocidio che racconta le vicissitudini della nazione
lituana, tra l’occupazione tedesca, che decimò la popolazione ebraica
della città nell’ordine di qualche decina di migliaia di persone e
quella russa, durata fino al 1991, proseguita anch’essa con deportazioni
di massa in Siberia e altre zone invivibili dell’impero comunista e
uccisioni arbitrarie. Il palazzo in cui è ospitato, in pieno centro e
sulla via principale, Gedimino Prospektas, e sulla piazza dove si ergeva
la statua di Lenin, è stato, non a caso, il quartier generale della
Gestapo prima e della CEKA e del KGB poi, ben più a lungo: 45 anni. Nel
piano seminterrato, sono conservate, così com’erano, le celle dei
detenuti e le stanze in cui avvenivano interrogatori, torture ed
esecuzioni, nonché le centrali di ascolto per tenere sotto osservazione,
si potrebbe dire “sotto orecchio”, i cittadini, in una delle tipiche
manifestazioni persecutorie di quel regime paranoico. Il sistema si
chiamava, con grande sfoggio di fantasia, "OTO". La cosa più difficile,
oggi, è immaginarsi, del resto, una città come Vilnius in versione
sovietica, com’era soltanto fino a 18 anni fa. Vivace anche la vita
culturale, a testimonianza basti l’università, fondata dai gesuiti nel
1579 e da loro guidata per i successivi due secoli, la più antica
dell’Europa orientale. Infine, per la serie “quanto è piccolo il mondo”,
tra la Filarmonica di Vilnius e la chiesa di Santa Teresa, mi sento
chiamare per nome da una voce ben conosciuta durante vent’anni di
convivenza sul posto di lavoro: la “Segretaria”, che prima di essere mia
compagna di lavoro lo è stata di liceo e di università, nonché di
sindacato, finché non ho reso la tessera, e non vedevo da oltre un anno.
Ora pari grado e compagna di “parrocchia” dell’altro “Segretario” mio
compagno di avventure in questo viaggio, e a sua volta sposata e
accompagnata da un ulteriore “Segretario”, di vertice, questa volta ex,
altra mia vecchia conoscenza che mi ha fatto un grande piacere
rivedere. Al di là di essere circondato, a un tratto da ben tre
milanisti. Ma quando si vincono quattro “tituli” di fila anche
un’esperienza come questa ha i suoi risvolti piacevoli.
Con
i suoi circa 800 mila abitanti, Riga è la città più grande delle tre
Repubbliche Baltiche e quella che ha il maggiore peso culturale,
politico ed economico della regione. Arrivati ieri pomeriggio,
rinfrescati da una brezza frizzante che ha provveduto a rendere
movimentato il cielo e a evitare che i nuvoloni plumbei e zavorrati di
vapore scatenassero temporali sulla città, lasciando filtrare sciabolate
di sole fino a metà serata, abbiamo potuto subito constatare che è
l’unica città, visitata durante questo viaggio, in cui si respiri
nettamente un’atmosfera metropolitana. Anche qui, come a Tallinn, il
centro urbano è piuttosto compatto, ma più monumentale, e segnato da una
quantità sorprendente di edifici in stile Liberty (secondo l’UNESCO, Vecriga,
la città vecchia, ne ha per densità e qualità più di ogni altra città
al mondo, tanto da inserirla nella lista dei Patrimoni dell’Umanità), ma
anche fuori dal centro storico l’impianto della città rimane quello di
una capitale, con tanto di Esplanade, viali alberati, edifici
monumentali come ad esempio il Teatro dell’Opera (e i ministeri sono tra
i meno appariscenti) e sempre tanta Art Nouveau: più che a
Bruxelles e Vienna messe insieme, ed è proprio la capitale austriaca,
benché molto più estesa, a essermi venuta in mente come termine di
paragone.
Purtroppo
alle 17 chiese e musei chiudono, per cui non ci è rimasto che
gironzolare per il centro, che rimane peraltro il modo più gradevole per
conoscere e godersi questa città. Locali all’aperto con musica che va
dal blues al rock al jazz, ma senza essere fastidiosamente invadente,
una quantità di ristoranti, bar, caffetterie, pub, ma nulla che sembra
fatto apposta per i visitatori di passaggio: se li godono prima di tutto
i locali. E del fatto che il turismo sia semplicemente un accessorio
nella vita di Riga, e una componente secondaria della propria economia,
ce ne siamo resi ancor più conto questa mattina quando, a musei chiusi
essendo lunedì, come in quasi tutto il mondo, come prima cosa ci siamo
diretti al Mercato Generale, uno dei più grandi d’Europa e dei più
antichi, dato che risale almeno al 1201, data di fondazione della città
da parte del vescovo tedesco Albrecht von Buxthoeven, arrivato da Brema
con lo scopo di evangelizzare le popolazioni baltiche pagane della
Livonia. Dopo aver cambiato varie sedi, generalmente lungo la riva del
Daugava, il fiume che attraversa Riga prossimo allo sbocco al mare, il
mercato fu spostato nella sede attuale nel 1930, alle spalle della
stazione ferroviaria, quando il trasporto delle merci su rotaia aveva
preso il sopravvento su quello fluviale. Si fecero arrivare in città 5 hangar
Zeppelin, alti ciascuno 35 metri, che forniscono 57 mila metri quadrati
al coperto (e, in inverno, soprattutto riscaldamento) per oltre 1250
commercianti. Tenendo presente che un’area almeno altrettanto vasta è
occupata da bancarelle ambulanti e, più contano da baracche provvisorie,
ci si può fare un’idea di quanto sia estesa l’area e quanto sia
animata. Qui l’elemento russo, che è già prevalente in città (43% su 41%
di lettoni) diventa decisamente schiacciante, per divenire
incontrastato nelle zone più periferiche del mercato, cosa che si nota
immediatamente dal cattivo gusto dell’abbigliamento in vendita e
indossato dai frequentatori. Una chicca tra tutte il pantalone con
l’elastico della mutanda (griffata) sporgente incorporata. Non la
mutanda: proprio la “sporgenza”, il fascione elastico, come protesi
della braga a vita bassa, quello che anche le nostre giovani leve amano
esibire, insieme al solco delle chiappe. Possibilmente con un tatuaggio
angiolesco sul fondo schiena, le femmine. Dopo questo doveroso omaggio
alla vocazione mercantile di Riga, non per nulla città membro della Lega
Anseatica, e rimasta sostanzialmente in mano al ceto dei commercianti
tedeschi fino alla fine dell’Ottocento, nonostante il passaggio al
dominio prima svedese in seguito russo, siamo rientrati in centro per
visitare almeno la Piazza del municipio con di fronte la Casa delle
teste Nere, la confraternita dei commercianti celibi che la eresse nel
1344 (nella foto in alto con sullo sfondo il campanile di San Pietro), le chiese più importanti tra cui il Duomo (la sua animata piazza nella foto sopra a destra) il castello che dà sul fiume, quel che rimane delle mura di fortificazione, la zona dell’arsenale e la “Porta Svedese” (foto in basso),
quindi la Torre delle Polveri, l’unica sopravvissuta delle 18 che
facevano parte della cinta muraria. Lì a due passi, gli splendidi
palazzi della Gilda Grande e della Gilda Piccola, quest’ultima
visitabile, con facciate Jugendstiel ma risalenti al XIV
secolo, in buona parte conservate con elementi originali. Erano, per
l’appunto, corporazioni di commercianti e artigiani germanici: per
dispetto per non esservi accolto, all’inizio del Novecento un
commerciante lettone fece collocare le statue che riproducevano i suoi
due gatti neri, schiena arcuata e coda ritta, con il posteriore rivolto
in direzione del palazzo della Grande Gilda, in cima alla sua nuova
magione Liberty tinta di giallo canarino. In seguito a una
lunga vicenda giudiziaria la sua candidatura venne finalmente accettata,
a patto che ruotasse la posizione dei due gatti, da allora vero simbolo
di Riga, in posizione più consona. Tante le curiosità e le cose da
vedere in questa città stimolante, spigliata, intraprendente e positiva,
la cui visita ci ha lasciato completamente soddisfatti. E domani si
prosegue in direzione della capitale lituana, Vilnius.
RIGA (Lettonia) - Partiti
da Tallin in una fresca mattinata di sole, da ieri mattina è iniziata
la lenta discesa verso Sud. Evitando la costa Nord-Occidentale, ci siamo
diretti su Haapsalu, già nota città termale e di soggiorno balneare
fino agli inizi del secolo scorso, che ora sta tentando di tornare ai
fasti del passato. Atmosfera estremamente rilassante, con le sue viuzze
strette e le case di legno, la ragione della visita era però la fortezza
vescovile. Il primo nucleo, chiamato “piccola fortezza”, venne fatto
erigere dal vescovo feudatario nel 1265 e completato nei due secoli
successivi, mentre il Piiskopilinnus, o castello vero e
proprio, che si trova all’interno delle possenti mura, venne costruito
invece tra il 1641 e il 1647 insieme alla cattedrale gotica. Da qui a
Virtsu, dove ci si imbarca verso l’isola di Muhu, mezz’ora di traghetto,
a sua volta collegata con un ponte a quella di Saareema, la più grande
dell’Estonia e la seconda del Mar Baltico dopo quella di Gotland, in
Svezia. 35 mila abitanti di cui 16 mila nel capoluogo Kuressaare, nella
parte sud-occidentale, dove ci dirigiamo direttamente. La strada
attraversa l’interno, e il panorama non cambia un granché rispetto alla
terraferma: boschi di betulle misti a conifere, campi di grano,
improvvise macchie di un giallo violento, forse colza. Un aspetto poco
isolano e marittimo, che sia a me sia al "Segretario" ha ricordato sotto
molti aspetti l'irlanda. Ci si domanda dove siano questi abitanti: i
dati ufficiali sembrano troppo generosi, ma ci accorgiamo che molte
abitazioni sono letteralmente immerse nella foresta, non costruite ai
margini dell’arteria principale, in modo disperso. Una volta sistematici
a Kuressaare, alla fine dell’Ottocento meta turistica
dell’aristocrazia russa e non solo dopo la scoperta della presenza di
fanghi curativi, imbocchiamo la strada costiera verso Sud-Ovest, che
però tale non si rivela perché non si intravede ma il mare fino a quando
non si giunge alla punta estrema della Penisola di Sövre, a Saäre, dove
si trovano l’imponente faro, alcuni resti di postazioni sovietiche e
alcuni bagnanti. In compenso transitiamo per alcuni borghi come Mandala,
Anseküla e Salme, ridenti nonostante il nome che portano. Torniamo
quindi verso Nord lungo la costiera occidentale della penisola, questa
volta con più opportunità di vista-mare, incontrando alcuni lunghi
tratti di strada sterrata e dove gli abitati che attraversiamo, come
Jämaja, regolarmente segnati sulla cartina, sembrano villaggi-fantasma.
Però abbiamo l’opportunità di fotografare uno dei rari mulini a vento
superstiti delle centinaia che erano attivi sull’isola fino all’inizio
del secolo scorso, senza pale ma se non altro autentico: ve ne sono
altri, perfino ridipinti con
sembianze
umane, chiaramente posticci. Dopo aver avvistato una volpe che
attraversava la strada e poco dopo probabilmente una cinghialessa con
annessa prole intenta a compiere la stessa operazione, abbiamo
incontrato anche un contadino che spingeva sorridente la carriola
traboccante di fieno appena rastrellato. E’ stato immediatamente
battezzato “Il Felice Contadino Estone” dall’ineffabile Segretario, ieri
in una fase di creatività didascalica particolarmente fertile. Tra una
fermata e l’altra sulla costa, dove notiamo che ci si dedica alla
costruzione di innumerevoli tumuli di varia forma con la ghiaia della
spiaggia, così come altrove ci si appassiona a quella dei castelli di
sabbia, giungiamo a Kihelkonna, segnalato come il centro più abitato
della parte occidentale dell’isola dopo il capoluogo. Atmosfera
bucolica, una pregevole chiesa con un campanile altissimo circondata da
alberi così imponenti e rigogliosi, in questa stagione, da rendere
impossibile un’inquadratura completa. Accanto un bed & breakfast,
dal cui camino si spargevano i fumi aromatici di un’inequivocabile
attività di affumicatura di carne e di distillazione di liquori. Una
decina di case, prevalentemente in legno, sparse nei dintorni, con
giardini pieni di piante da frutto, curatissime e adornate di fiori e
nient’altro. A Veere, circa a metà di un’altra penisola che si protende
sul versante nord-occidentale di Saareema, le uniche costruzioni
appartengono a una dogana-merci che parrebbe in fase di dismissione. A
Mustjala, come a Kihelkonna, un’altra chiesa deliziosa in mezzo a una
decina
di case sparpagliate, e quindi a Tagaranna, all’estremità
settentrionale di Vinose Pank (Punta Vinose), con vista su Panga Pank,
l’unico luogo di Saarema in cui le coste hanno forma di scogliera.
Transitando ancora per Valjala, al centro dell’isola, con un’altra
notevole chiesa gotica in mezzo a un borgo sonnolento, siamo rientrati a
Kuressaare per l’ora di cena, domandandoci dove potessero essersi
cacciati i sedicimila abitanti della cittadina, perché l’impressione è
stata che ci fossero soltanto turisti, poco numerosi e in buona parte
finlandesi. Oltretutto è la stagione migliore, perché in agosto
l’estate, a queste latitudini, volge ormai decisamente al termine. Un
ultimo accenno alla gastronomia: si trovano piatti locali come zuppe di
crauti, di fagioli o a base di panna acida, così come sapidi arrosti di
maiale, piatti di cinghiale e di alce, oltre agli immangabili "pankuki",
crêpes dai ripieni più vari; ma sono presenti anche i fast food,
all'americana, e qualcosa che chiamano pizza nonché piatti di pasta
sono purtroppo reperibili ovunque. Deliziose le fragole da coltivazione e
quelle di bosco, in quantità industriali, nonché i mirtilli, venduti
spesso lungo le strade ma anche nelle città direttamente da chi le ha
raccolte. A prescindere dal tono un po’ ironico sulla rarefazione degli
abitanti, l’ambiente particolarmente agreste e la vita sociale poco
frenetica, Saarema è il luogo ideale per chi cerca una vacanza a
contatto con la natura, detesta avere rompiscatole attorno, ama fare
passeggiate ed è un vero paradiso per i cicloturisti, e infatti ne
abbiamo visti tanti di ogni età. La struttura alberghiera è più che
adeguata per qualsiasi esigenza, volendo andare al risparmio ci sono
anche campeggi, spesso dotati di bungalow, e anche chi si muove in camper
non troverà problemi. Senza dimenticare che qui si ritrova
probabilmente l’anima estone più autentica, considerato che l’isola è
sempre stato l’ultimo posto occupato dalle potenze straniere, come
documenta la ricca esposizione che si può visitare nel suggestivo Piiskopillinus di Kuressaare, un'altra fortezza vescovile perfettamente restaurata e conservata (foto più in alto, a destra).
TALLINN - La
capitale dell'Estonia e principale porto del Paese, a soli 80
chilometri da Helsinki e da sempre centro commerciale sulla rotta fra
Russia e Scandinavia, è una città vivace, giovane, che fonde in un
insieme armonioso la città vecchia, d'impronta medievale e restaurata
con cura negli ultimi decenni, all'interno dell'antica cinta muraria in buona parte ben conservata, e
la parte più moderna, commerciale, che si estende intorno. 400 mila
abitanti, la città ha conosciuto negli ultimi anni un ulteriore sviluppo
del suo porto, soprattutto passeggeri, con un notevole intensificarsi
dei traghetti da e verso la Scandinavia. In pieno sviluppo il settore
informatico, tanto da essere stata definita qualche anno fa dal New York
Times come una sorta di "Silicon Valley sul Ma Baltico". La riprova si
ha con la conessione Wi-Fi, quasi sempre gratuita, e
velocissima, disponibile pressoché ovunque. Molti turisti in questo
periodo, anche per via di un festival di musica folcloristica che si
chiudeva giovedì sera: la piazza del Municipio e le vie adiacenti mi
hanno ricordato Praga, non solo per lo stile architettonico ma anche per
il brulicare di turisti. Non solo finlandesi, russi, e svedesi ma anche
tedeschi, spagnoli, francesi e italiani, spesso sbarcati durante il
giorno dalle navi da crociera che fanno tappa qui nel giro delle città
baltiche. Con la speranza che non diventi presto infrequentabile come la
capitale ceca e un baraccone turistico. Alcuni segni in questo senso si
vedono già: i prezzi sono relativamente alti, i negozi di ciarpame
suoveniristico spuntano come funghi (e anche i primi indiani
specializzati nella vendita di cappellini, bandierine, magneti e
bamboline), si paga per vedere ogni cosa e non poco per gli standard
locali: la media è di due o tre euro di ingresso, il più delle volte
anche per le chiese. Con orari di chiusura abbastanza assurdi in questa
stagione: alle 17 quando il sole è ancora alto, e le giornate si
protraggono all'infinito. Ristoranti e locali a profusione, di ogni
tipo, non è scomparsa una vera e propria cultura del caffè tipica della
città: ce n'è per tutti i giusti. Come non è passata la passione per il
canto, che accomuna le tre nazioni baltiche e ne costituisce l'anima:
non è raro imbattersi in cori per strada, anche a presindere dai
festival, e vedere persone di ogni età spostarsi vestiti in costumi
tradizionali con dietro gli strumenti. D'altronde esiste uno stadio del
canto, lungo la costa, capace di contenere 150 mila spettatori. La
storia è quella tipica delle città baltiche, passate da un dominio
all'altro: danese, russo, svedese ma soprattutto segnate dall'aver fatto
parte della Lega Anseatica, per cui l'influenza tedesca è stata molto
forte: Reval è il nome in quella lingua, spesso usato dai locali.
Nella parte più interna della città vecchia (nella foto a destra uno scorcio di Katarina Käik)
fino alla fine dell'Ottocento vivevano esclusivamente maggiorenti
tedeschi, in quella vecchia commercianti in prevalenza germanici, e
fuori dalle mura la allora minoranza estone. In seguito, un marcato
tentativo di russificazione, che raggiunse il suo culmine in era
sovietica, dal 1944 al 1989. E ancora oggi la presenza di un 35% circa
di popolazione russa, ma nata qui o magari già alla seconda o terza
generazione, crea qualche problema. Per ottenere la cittadinanza estone
ed essere naturalizzati, i russi hanno dovuto sostenere un esame nella
lingua locale, e la popolazione è calata del 20% dal 1991, data
dell'indipensenza estone, ma anche ora il russo è la lingua che più si
sente palare tra le persone di condizioni più modeste. Che sono anche
quelle che più hanno subito la crisi degli ultimi anni: con i prezzi che
corrono attualmente, i salari mensili medi tra i 500 e i 600 € e i
sussidi di disoccupazione sui 350 per il primo anno non consentono di
scialare, e spesso le merci acquistate in Finlandia e Svezia sono più
convenienti di quelle in vendita qui, oltre che di qualità superiore. Il
doppio lavoro è pratica diffusa, ma non ho visto gente né triste né
eccessivamente preoccupata, e questo è segno di vitalità. La città
vecchia, come dicevo, è incantevole e merita un paio di giorni di
visita. Ha subito gravi danni durante l'ultima guerra ma è stata
ricostruita con infinito amore e si vedono i risultati: nulla che
risulti improvvisato o, peggio, posticcio. A parte le mura turrite e le
guglie slanciate che caratterizzano il profilo della città, spicca Raekoja Plats
(piazza del municipio) dominata dal palazzo comunale, su cui sovrasta
una torre che può ricordare un minareto in cima alla quale il "Vecchio
Tommaso", un buffo soldato armato di picca in metallo che funge da
segnavento, sorveglia la città da centinaia d'anni e ne è diventato il
simbolo. Nella piazza una delle più antiche farmacie del mondo, ancora
in attività e con un piccolo ma interessante museo (per una volta
gratuito) e nelle vicinanze chiese notevoli tra cui primeggia quella
straordinaria del Santo Spirito, quindi Sant'Olaf, il Monastero
Domenicano, San Pietro e Paolo, quella gotica di san Nicola, fatta
erigere dalla corporazione dei commercianti germanici, dove sono
conservate la quattrocentesca "Danza macabra" opera del tedesco Berndt
Notke e una collezione di opere, tele ma
anche
trittici in legno e statue, provenienti dalle chiese medievali estoni.
Nella parte bassa della città, notevoli i palazzi delle "gilde", o
corporazioni, raccolte nella stessa via, a farsi concorrenza tra loro e
competere per possedere la sede più prestigiosa (a sinistra, il portale della Confraternita delle Teste Nere, il cui fondatore era un moro convertito al cristianesimo). Infine a Toompea,
in cima alla collina, a sua volta murata, che al tempo del regno
germanico era riservata al vescovo e alla nobiltà feudale (e rimase
"tedesca" anche fino a epoche recenti), oltre alle torri più
caratteristiche, come quella della Vergine e la "Kiek-in-de-Kök"
(letteralmente "guarda in cucina" in basso tedesco), l'imponente e
suggestiva cattedrale Russo-Ortodossa Alexaner Nevskji, una delle tante
costruite alla fine dell'Ottocento nel primo tentativo, accennato sopra,
di "russificare" le province baltiche. In cima alla collina anche il
neoclassico palazzo del Parlamento e una serie di belvedere da cui
ammirare il panorama della città. Le attese mie e del "Segretario" non
sono certo andate deluse.
TARTU (Estonia)
- Superata d'un balzo la Lituania, l'altroieri, nel giro di sei ore da
Bialystok, la prima presa di contatto con i Paesi Baltici, considerata
la totale assenza di controlli alle frontiere, è avvenuta a Bauskas, con
una temperatura di 30 gradi all'ombra, la gente che gira in prendisole
se non direttamente in tenuta da spiaggia e che affolla le rive dei
fiumi, e dove abbiamo provveduto a fare un primo bancomat in moneta
locale. Siamo nello Zemgale, nel cuore della Lettonia, a Sud di Riga,
regione che prende il nome dall'antica popolazione dei semigalli (che però coi galli
nostrani non c'entrano nulla, per quanto indoeuropei). In centro la
prima visita è stata al "pils", o castello, cittadino, appartenuto
all'ordine dei Cavalieri Teutonici, da essi stessi costruito alla metà
del XV secolo e modificato man mano nel loro stile pressoché
inconfondibile (foto in alto). A una decina di chilometri di
distanza, a Rundales, il "palazzo d'inverno" lettone, la residenza
estiva dei duchi di Curlandia, un magnifico palazzo disegnato
dall'architetto italiano Francesco Bartolomeo Rastrelli, allora attivo a
San Pietroburgo, e che da lì fece venire le maestranze, e che fu
costruito in due fasi tra il 1735 e il 1768, commiettente Ernst Johann
Biron. Un maestoso edificio barocco con elementi rococò, oggi sede di
esposizione permanente delle varie sale arredate e rdelle accolte dei
duchi, e sul suo retro uno splendido e curatissimo giardino all'italiana
che in questa stagione e nelle condizioni meteorologiche attuali è
un'esplosione gioiosa di colori. Ultima visita nella zona, quella alla
residenza nobiliare realizzata alla tra il 1797 e il 1802 in stile
neoclassico dal berlinese Johann Berlitz su progetto di Giacomo
Quarenghi e poi donato dallo zar Paolo I alla governante dei suoi figli,
Charlotte von Lieven e appartenuta a quest'ultima famiglia fino al
1937. In epoca comunista, vi fu installata un'azienda agricola. Venne
restaurata alla fine degli anni Novanta e il terzo piano del palazzo
trasformato in albergo di charme. E tale sarebbe, se il ristorante non
fosse desolatamente chiuso e a presidiare il palazzo non fosse rimasto
un personaggio inquietante e dall'aspetto malsano che funge da cassiere
del museo e factotum, che ricorda l'Igor del film Frankenstein e incarna il perfetto sopravvissuto all'epoca del passato regime.
Non
a caso, russofono. In serata siamo arrivati e abbiamo pernottato a
Jeglava, già capitale del ducato di Curlandia e oggi tranquillo
capoluogo provinciale di circa 60 mila abitanti, ma dalla viva
tradizione culturale. Anche qui, nel castello sul fiume Lielupe, ha
lasciato il segno l'architetto Rastrelli, per lo stesso committente del
palazzo di Rundales, Ernst Johann Biron, un palazzo imponente che
assomiglia ancor più a quelli pietrobughesi, oggi sede della facoltà di
agraria della Lettonia. Sopravvissuto alle distruzioni della guerra e
restaurate a regola d'arte l'edificio barocco dell'Accademia Petrina
(dal nome del figlio del duca Johann Biron), per lungo tempo centro
dell'attività culturale di Jelgava e ginnasio accademico, oggi sede
museale. Questa mattina, sulla strada verso l'Estonia, sosta d'obbligo a
Sigulda, capoluogo di quella che viene chiamata "Svizzera lettone" per
via dei suoi rilievi (colline alte al massino 150 metri), all'ingresso
del Parco Nazionale di Gauias, dal nome del fiume che l'attraversa.
Anche qui tracce notevoli della presenza dei cavalieri teutonici: alle
spalle del Castello Nuovo costruito a fine '800 in stile Tudor (a me e
al segretario pareva Disneyland), i resti della possente fortezza
dell'ordine, e di là dal fiume, a Turaida (cfr foto più in alto, a snistra), antico insediamento dei livi,
popolo di origine finnica, la "riserva-museo" che comprende la fortezza
del vescovo di Riga, in mattoni, restaurata a metà degli anni
Cinquanta.
Ultima sosta prima della frontiera estone, sempre nel cuore del Parco
nazionale del Gauias, nella antica, vivace e ben conservata città di
Cesis, fondata attorno al 1200 e a lungo capitale dell'Ordine dei
Portaspada, che vi eressero la fortezza omonima oggi tra le rovine
meglio conservate della Lettonia, poi sede dell'ordine di Livonia,
trasferitovi a Cesis da Riga. In seguito fu anche città anseatica col
nome tedesco di Wenden. Edifici d'epoca sulla piazza principale, tra cui
spicca la chiesa gotica di San Giovanni, eretta alla fine del 13°
secolo e distrutta da un incendio a metà del '700 e ricostruita allora
nella forma visibile oggi. Nel parco che circonda invece i resti della
fortezza, in parte restaurata e comunque agibili, abbiamo invece
scoperto una statua in metallo di Lenin in perfetto stato, adagiata in
una specie di sacrofago all'aperto, opportunamente accostata, per non
dire nascosta, in un angolo sotto le mura di cinta. Fu deposta il 21
agosto del 1991, giorno in cui la Lettonia riconquistò l'indipendenza
dall'Unione Sovietica, già dichiarata un anno prima. La citazione del
magistrale libro "Buonanotte, signor Lenin" di Tiziano Terzani è
d'obbligo!