giovedì 14 luglio 2022

Scalfari: una vita in terrazza


Chi mi conosce sa quanto detestassi il personaggio per cui, da quando in mattinata ha cominciato a circolare la notizia della morte di Eugenio Scalfari, più di qualcuno mi ha stuzzicato aspettandomi al varco per un commento. Una sorta di controcanto rispetto ai coccodrilli celebrativi (e in larga parte ipocriti) che si ritrovano già ora sui siti on line dei giornali e che domani ne riempiranno le pagine, per non parlare delle TV, di cui il Fondatore (di Repubblica) era un frequentatore parsimoniosamente abituale per distribuire al volgo dall'alto della sua augusta persona pillole di saggezza, spesso di una banalità sconcertante, almeno fino a quando fu vagamente in grado di dire cose sensate anche quando non condivisibili. Ma se provenivano da lui, tutti con il cappello in mano ad abbeverarsi delle sue parole: provenivano da un Padre della Patria, un'Autorità per definizione, una divinità. Anzi: il Dio del giornalismo italiano. E nel suo infinito narcisismo, che anche in vecchiaia aveva conservato qualcosa di ridicolmente puerile e, se possibile, si era perfino accentuato, del giornalismo italiano è stato l'equivalente di Wanda Osiris per la rivista. Barbapapà, il Patriarca lo chiamavano e lo chiameranno in queste ore in segno di riverenza nei quadretti edificanti in suo ricordo. Non nego la sua rilevanza nella storia del giornalismo nostrano e il suo fiuto editoriale (prima dell'avventura di Repubblica, nel 1955 fu tra i fondatori, e non il fondatore, come si tende a credere, anche dell'Espresso, oggi virtualmente scomparso), ma più che un giornalista (peraltro a mio avviso enormemente sopravvalutato, anche se era bravissimo a scegliersi i collaboratori più brillanti e capaci) è sempre stato un uomo di potere, di più: un feticista del potere, un intrigante, intrinseco al mondo dei politicanti i cui maneggi conosceva come nessun altro frequentandoli da sempre. E in politica aveva attraversato tutto lo spettro costituzionale e non, partendo fascista, come del resto il suo sodale e pressoché coetaneo Giorgio Napolitano, sparendo oppurtunamente dai radar per un po' nel dopoguerra rifugiandosi in banca (da allora gli venne riconosciuta una competenza in campo economico che era più fumo che arrosto), per ricomparire sullo scenario politico anche qui come co-fondatore, stavolta del Partito Radicale, dopo aver frequentato i circoli del Mondo (quanto ci ha scassato i coglioni con gli insegnamenti di Mario Pannunzio, citato milioni di volte nei pezzi in cui autoincensava i suoi esordi, "quando bivaccavamo a Via Veneto"), poi socialista (del PSI fu anche deputato), quindi, da direttore di Repubblica, filodemocristiano, filocomunista (specie dopo la "svolta" pro NATO di Berlinguer), nemico di Craxi ma sostenitore di Amato, le sue giravolte erano costanti ma sempre giustificate dalla sua supposta "libertà e indipendenza di pensiero", una spregiudicatezza che sconfina nella mignotteria e nell'opportunismo. Un terrazzato, l'ho sempre definito, riferendomi proprio a quel mondo di maneggioni, esibizionisti, mitomani e puttani che gravita nei salotti romani e che Paolo Sorrentino ha così magistralmente descritto nel suo La grande bellezza. Arrogante quanto inguaribilmente vanitoso, un autentico trombone, aveva a mio parere molti più tratti in comune di quello che si può pensare con il suo acerrimo (per un periodo e anche questo per interesse) rivale Silvio Berlusconi: le loro querelle facevano in realtà gioco a entrambi. No: non ho mai stimato Eugenio Scalfari, non lo rimpiango e non mi mancherà. Men che mai i suoi sermoni domenicali, dei pipponi interminabili, pretenziosi, scritti in maniera involuta e di una prevedibilità sconcertante, che spesso mi divertivo ad anticipare il sabato sera alla chiusura del giornale (il CorSera, non Repubblica), azzeccando spesso quale sarebbe stato il tema dell'omelia del giorno dopo sul giornale della concorrenza. Adiós, comunque.

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