domenica 17 luglio 2022

Elvis

"Elvis" di Baz Luhrmann. Con Austin Butler, Tom Hanks, Helen Thompson, Richard Roxburgh, Olivia DeJonge, Luke Bracey, Natasha Bassett, David Wenham, Dacre Montgomery, Kelvin Harrison Jr e altri. USA 2022 ★★★1/2

Non amo particolarmente i film biografici musicali, per cui mi sono perso per strada sia Bohemian Rapsody, su Freddy Mercury, sia Rocket Man, su Elton John, ma non potevo esimermi dal rendere omaggio a Elvis Presley, senza il quale i sopracitati non sarebbero mai esistiti, tanto più che a narrarne la storia è l'australiano Baz Luhrmann, di cui avevo già visto a suo tempo un altro musical del tutto particolare e sfavillante come Moulin Rouge (con la connazionale Nicole Kidman al massimo del suo splendore come protagonista) e poi Australia (sempre con la Kindman) e Il Grande Gatsby: c'era da fidarsi, e ho avuto ragione. Lungi dall'essere tutto lustrini e poca sostanza, il film percorre sì le fasi di genesi, nascita, affermazione, declino e successivo clamoroso come back di un mito destinato a rimanere tale ancor oggi a 45 anni dalla morte di Elvis Aaron Presley (per alcuni è ancora vivo e "lotta insieme a noi") ma affida il racconto alla figura di colui che ne fu il pigmalione, il manager di tutta la carriera, che lo rese quello che fu ma anche colui che lo sfruttò oltre ogni limite, provocandone la triste e dolorosa fine: il fantomatico Colonnello Parker, Tom di nome, che tale non era bensì un impostore di origine olandese che si chiamava Andreas Cornelis van Kuijk il quale, giunto misteriosamente negli USA, si era fatto le ossa come imbonitore circense e, notato il giovane talento mentre incideva, nell'estate del 1954,  il suo primo successo alla Sun Records di Memphis,That's All Right, Mama, cover del suo mito Arthur "Big Boy" Crudup, bluesman nero di cui andava a spiare le esibizioni quando era bambino. Luhrmann a interpretarlo chiama un Tom Hanks di una bravura impressionante, mentre per l'alter ego del cantante sceglie il giovane e semisconosciuto Austin Butler, vincendo nettamente la scommessa, e la coppia risulta complementare come quella vera come verosimili sono anche i complessi rapporti, di dipendenza reciproca, che si creano tra i due, ai limiti della dipendenza psicologica e affettiva da parte di Elvis, soprattutto dopo la morte prematura della madre, a cui era molto legato, rispetto a questo simulacro di figura paterna, mentre quello vero, messo a capo della Presley Enterprise solamente pro forma, che non metteva becco nella gestione della carriera del figlio, era debole e ricattabile da parte del "Colonnello". Personalmente condivido anche l'idea di adottare il punto di vista della voce narrante, in questo caso, e del personaggio più discutibile, notata già in Esterno notte di Bellocchio per quanto riguarda la figura di Morucci e, di recente, in Lettera a Franco di Amenábar quella di Unamuno, perché ne accentua, se possibile, il peso e le responsabilità. La storia di Elvis Presley viene percorsa, in due ore e 20' intensi e senza tregua, con sostanziale fedeltà, sottolineando il forte legame che questo ragazzo di un Tennessee percorso ancora oggi da pregiudizi razziali aveva sempre avuto con la comunità nera in mezzo alla quale era cresciuto, lui bianco ma di famiglia povera, così come quella del suo cuore, e che lui amava suonare, fosse proprio la loro musica, i gospel e i blues che ascoltava da piccolo e che, miscelati al country e al jazz avrebbero dato vita al rock'n roll di cui fu il re indiscusso, anche perché senza di lui, proprio perché era bianco, non avrebbe varcato i confini della "race music" e le soglie di radio e televisioni diventando un fenomeno non solo musicale, ma anche di costume (e ribellione) a livello planetario. Concentrato sulle sue esibizioni dal vivo, che preparava meticolosamente, Elvis rimaneva spesso succube delle discutibili scelte opportunistiche e commerciali del suo manager, come avvenne dopo il rientro da due anni di servizio militare in Germania (che gli servirono in realtà anche per scansare le denunce per l'oscenità delle sue esibizioni e rendere più accettabile il suo personaggio ribelle) quando Parker gli prospettò una folgorante carriera cinematografica sulle orme di James Dean, altro idolo del giovane Elvis, ovverosia filmacci sempre più raffazzonati e prodotti in serie, non molto diversi da quelli che, quand'ero teenager io, vedevano impegnati i "divi" anni Sessanta nostrani come Gianni Morandi (In ginocchio da te o simili). Si ribellò nel 1968 (un caso?) quando, con uno staff musicale all'altezza ad affiancarlo, preparò il suo comeback come rocker e fu un trionfo, perfino in Mondovisione, ma anche in quel caso Parker gli tarpò le ali, impedendogli di volare (e fare tournée in Europa e Giappone, ad esempio, cosa per cui comprò apposta un aereo: ma Elvis, salvo sei concerti in Canada e il servizio di leva in Germania, non mise mai piede fuori dagli States) accampando motivi di security, in realtà perché aveva firmato un contratto capestro con l'International Hotel di Las Vegas, a cui era legato per sei anni, con una  provvigione spropositata a suo vantaggio e la clausola di credito illimitato nelle sale da gioco dell'albergo: la verità è che Parker, sommerso da ingenti debiti di gioco, uccise la sua gallina dalle uova d'oro sfruttandola fino all'osso, costringendo Presley a intossicarsi di farmaci per superare lo stress, rendendolo paranoico e dipendente e facendogli perdere il senso della realtà, tanto che quando il cantante decise finalmente di licenziarlo, si trovò impossibilitato di farlo perché Parker l'aveva fregato con una serie di clausole e cavilli che l'avrebbe comunque mandato in rovina se non gli fosse ceduto il cuore quando, nel 1977, ridotto a una caricatura di sé stesso, Elvis morì. A parte un'imperdonabile castroneria (aver collocato l'omicidio di Bob Kennedy a ridosso del Natale del 1968, periodo in cui Elvis stava era alle prese con un controverso spettacolo commerciale a cui non voleva partecipare alle condizioni della produzione e del  Colonnello Parker, mentre era avvenuto sei mesi prima), oltre all'ambiente musicale e a quello dello Show Business, è descritto piuttosto fedelmente anche il clima generale degli anni tra la metà dei Cinquanta e quella dei Settanta negli USA, anche da un punto di vista politico, per quanto nel sottofondo. Ottime le interpretazioni, anche dei personaggi secondari, ciò che si ascolta è di altissima qualità, e, soprattutto, The King è sempre The King: Rock'n Roll Will Never Die, e tantomeno Lui, Elvis. Che davvero non ha avuto una bella vita, nonostante tutto.

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