"La tigre bianca" (The White Tiger) di Ramin Bahrani. Con Adarsh Gourav, Rajkummar Rao, Priyanka Chopra, Mahesh Manjrekar, Swaroop Sampat, Kamles Gill, Vijay Maurya, Nalneesh Neel e altri. USA, India 2021 ★★★★
Ieri sera ero così imbestialito dopo aver appreso che per le prossime due settimane tutta la regione in cui vivo sarà nuovamente in Zona Arancione per almeno le prossime due settimane, con conseguente confino nel proprio comune di residenza, che di primo acchito non avevo apprezzato del tutto questo film molto indiano eppure quasi per nulla bollywoodiano tratto dal premiato e omonimo romanzo del giornalista e scrittore Aravind Adiga (2008, edito in Italia da Einaudi), con punte di umorismo nero, agile, ritmato, beffardo, autoironico soprattutto da parte dei due coprotagonisti e produttori esecutivi Rajkummar Rao e, soprattutto, l'affascinante Priyanka Chopra, il cui understatement nel non ritagliarsi un ruolo da star e da bellissima, quale invece è, oltre che simpatica e spigliata, che hanno lasciato il ruolo principale all'emergente Adarsh Gourav. Il quale è anche voce narrante nei panni del giovane Balram, cresciuto in una tradizionale famiglia rurale, che racconta la storia della propria vita e di come è diventato un brillante creatore di start-up a Bangalore, la Silicon Valley di tutto l'Oriente, in una e-mail indirizza al leader cinese in visita ufficiale nel Paese, ossia di come si sia trasformato da servo compiaciuto del proprio padrone in un mostro perfettamente aderente ai canoni richiesti a un imprenditore di successo della New Economy sostituendosi ad Ashok (Rajkummar Rao), prendendone l'identità a costo di sacrificare la famiglia d'origine, nonché il datore di lavoro. Ashok era il figlio né carne né pesce di un maggiorente del paese natale di Balram, il quale grassava periodicamente pur essendosi trasferito a Nuova Delhi dove aveva fatto fortuna facendo affari con chiunque detenesse il potere, fosse il "Partito Nazionale" o quello capeggiato dalla Grande Socialista (ogni riferimento è... palese per chi è un minimo informato sulle vicende del subcontinente), entrambi egualmente corrotti fino al midollo: il rampollo aveva studiato negli USA, dove aveva trovato anche moglie, la disinvolta e sveglia Pinkie Madam, newyorkese di origine indiana (Priyanka Chopra, bravissima, con alcuni aspetti autobiografici), che vorrebbe innovare il giro d'affari di famiglia, investendo per l'appunto nell'economia che gira attorno all'informatica e si altalena fra progressismo velleitario e politicamente corretto e inaccettabili e spregevoli comportamenti indotti dall'ambiente famigliare che esasperano la consorte, che se ne torna a Brooklyn. Evito di raccontare altro, e mi limito a dire che, di fatto, è un film che prende di mira il servilismo a tutti i livelli, e in particolare la complicità, una vera e propria Sindrome di Stoccolma che fa parte di un atteggiamento mentale che l'indiano e l'italiano medio hanno in comune, che coinvolge la vittima e il suo carnefice e, in generale, chi è artefice del sistema che consente a pochi di rinchiudere i propri polli in una stia da cui è possibile uscire soltanto usando gli stessi mezzi criminali di chi ha creato questo circolo vizioso. Con questi chiari di luna da terrore pandemico dilagante (e in gran parte indotto) siamo esattamente in questa situazione. Su Netflix, mi sento di caldeggiarne la visione riserve.
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