"Cattive acque" (Dark Waters) di Todd Haynes. Con Mark Ruffalo, Anne Hathaway, William Jackson Harper, Harry Dietzler, Tim Robbins, Victor Garber, Bill Camp e altri USA 2019 ★★½
Mi ero augurato che la fine, almeno temporanea, della cinequarantena da Covid 19 con l'atteso Cattive acque fosse soddisfacente e invece buone le intenzioni, mediocre il risultato: avendo a disposizione una storia vera, la ventennale e meritoria battaglia legale dell'avvocato Bob Bilott contro il colosso USA della chimica DuPont raccontata da un articolo di Nathaniel Rich apparso sul New York Times Magazine nel 2016, da cui è tratto il film e che già di per sé è un soggetto, poteva venirne fuori qualcosa al livello di The Post, Il caso Spotlight, o almeno Insider - Dietro la verità, cui assomiglia in quanto classico legal drama e per molte analogie della vicenda; invece, nelle mani di Todd Hynes, di cui confesso di non aver visto Io non sono di qui sulla vita di Bob Dylan, diventa una cosa moscia, poco appassionante nonostante l'argomento: il sistematico avvelenamento dell'ambiente da parte delle corporation, incuranti delle conseguenze sulla salute di uomini, animali e piante, in nome del profitto. Siamo alla fine degli anni novanta quando Bob Bilott, un legale esperto in diritto societario, da poco entrato a far parte come socio dello studio Taft di Cincinnati, che ha come clienti proprio aziende chimiche, compresa la DuPont, viene contattato da un agricoltore della West Virginia, conoscente di sua nonna, che gli fornisce le prove dell'avvelenamento dei propri animali provocandone la moria, causato a tutta evidenza dallo sversamento dei residui tossici nelle acque del lago dove si abbeverano da parte dello stabilimento di Parkersburg che produce il teflon, il materiale antiaderente che ricopre le pentole che ha fatto la fortuna dell'azienda: Bilott se ne fa carico e la dedizione alla causa cambierà la sua esistenza, professionale e personale, compresi i rapporti famigliari, in particolare con la moglie, che lo sosterrà anche se poco d'accordo con una scelta che, di fatto, mette in discussione gli sviluppi della carriera del marito. La ricostruzione è credibile, come anche l'interpretazione dei vari personaggi coinvolti (la recitazione misurata di Ruffalo, peraltro coproduttore della pellicola, evidentemente riflette l'atteggiamento di understatement proprio dell'avvocato real), salvo la Hathaway, di cui non ricordo una sola interpretazione convincente salvo, in parte, ne Il diavolo veste Prada: un altro caso di sopravvalutazione analogo a quello di Sandra Bullock, che però è odiosa mentre perdoniamo la Hathaway per il suo sguardo da cerbiatta e il sorriso dolce. I continui avanti e indietro tra Cincinnati e Parkersburg, le caterve di documentazioni da consultare, le cene nel focolare domestico con tanto di preghiera di ringraziamento e i rimbrotti della consorte, peraltro un'avvocatessa in perenne aspettativa perché si dedica ai figli (trascurati dal padre) e quindi frustrata, alla fine vengono a noia per la loro ripetitività, il ritmo ne risente fino a divenire assente, le assurdità del sistema legale statunitense rendono poco comprensibile lo svolgimento del procedimento a uno spettatore europeo, il tutto risulta piuttosto fiacco e la responsabilità di ciò non è né del buon avvocato Billot, né del cronista Rich, né del generoso Ruffalo e neppure della incolore Hathaway, ma soltanto del regista che l'ha scelta e non saputo dirigere. Peccato, anche se il film è tutto sommato vedibile, in considerazione al poco che c'è in giro.
Mi ero augurato che la fine, almeno temporanea, della cinequarantena da Covid 19 con l'atteso Cattive acque fosse soddisfacente e invece buone le intenzioni, mediocre il risultato: avendo a disposizione una storia vera, la ventennale e meritoria battaglia legale dell'avvocato Bob Bilott contro il colosso USA della chimica DuPont raccontata da un articolo di Nathaniel Rich apparso sul New York Times Magazine nel 2016, da cui è tratto il film e che già di per sé è un soggetto, poteva venirne fuori qualcosa al livello di The Post, Il caso Spotlight, o almeno Insider - Dietro la verità, cui assomiglia in quanto classico legal drama e per molte analogie della vicenda; invece, nelle mani di Todd Hynes, di cui confesso di non aver visto Io non sono di qui sulla vita di Bob Dylan, diventa una cosa moscia, poco appassionante nonostante l'argomento: il sistematico avvelenamento dell'ambiente da parte delle corporation, incuranti delle conseguenze sulla salute di uomini, animali e piante, in nome del profitto. Siamo alla fine degli anni novanta quando Bob Bilott, un legale esperto in diritto societario, da poco entrato a far parte come socio dello studio Taft di Cincinnati, che ha come clienti proprio aziende chimiche, compresa la DuPont, viene contattato da un agricoltore della West Virginia, conoscente di sua nonna, che gli fornisce le prove dell'avvelenamento dei propri animali provocandone la moria, causato a tutta evidenza dallo sversamento dei residui tossici nelle acque del lago dove si abbeverano da parte dello stabilimento di Parkersburg che produce il teflon, il materiale antiaderente che ricopre le pentole che ha fatto la fortuna dell'azienda: Bilott se ne fa carico e la dedizione alla causa cambierà la sua esistenza, professionale e personale, compresi i rapporti famigliari, in particolare con la moglie, che lo sosterrà anche se poco d'accordo con una scelta che, di fatto, mette in discussione gli sviluppi della carriera del marito. La ricostruzione è credibile, come anche l'interpretazione dei vari personaggi coinvolti (la recitazione misurata di Ruffalo, peraltro coproduttore della pellicola, evidentemente riflette l'atteggiamento di understatement proprio dell'avvocato real), salvo la Hathaway, di cui non ricordo una sola interpretazione convincente salvo, in parte, ne Il diavolo veste Prada: un altro caso di sopravvalutazione analogo a quello di Sandra Bullock, che però è odiosa mentre perdoniamo la Hathaway per il suo sguardo da cerbiatta e il sorriso dolce. I continui avanti e indietro tra Cincinnati e Parkersburg, le caterve di documentazioni da consultare, le cene nel focolare domestico con tanto di preghiera di ringraziamento e i rimbrotti della consorte, peraltro un'avvocatessa in perenne aspettativa perché si dedica ai figli (trascurati dal padre) e quindi frustrata, alla fine vengono a noia per la loro ripetitività, il ritmo ne risente fino a divenire assente, le assurdità del sistema legale statunitense rendono poco comprensibile lo svolgimento del procedimento a uno spettatore europeo, il tutto risulta piuttosto fiacco e la responsabilità di ciò non è né del buon avvocato Billot, né del cronista Rich, né del generoso Ruffalo e neppure della incolore Hathaway, ma soltanto del regista che l'ha scelta e non saputo dirigere. Peccato, anche se il film è tutto sommato vedibile, in considerazione al poco che c'è in giro.
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