"Vulcano - Ixcanul" (Ixcanul - Volcano) di Jairo Bustamante. Con María Mercedes Croy, María Telón, Marvin Coroy, Justo Lorenzo, Manuel Antún. Francia, Guatemala 2015 ★★★★
Primo lungometraggio del 38enne regista guatemalteco formatosi, oltre che in patria, in Francia e in Italia, questo film bello e potente è stato premiato con l'Orso d'Argento alla Berlinale di quest'anno: a riceverlo, oltre a Bustamante, le due intense protagoniste, María Mercedes Croy e María Telón, nei ruoli, rispettivamente, di figlia e madre di etnia kaqchiquel (la pellicola è in lingua originale sottotitolata) alle prese con un matrimonio combinato e una gravidanza a sorpresa, e che non erano, prima del Festival, mai uscite dai confini del loro Paese. Siamo in un cafetal situato sulle pendici di un vulcano, e la famiglia della diciassettenne María, tipica bellezza Maya, l'ha promessa in matrimonio a Ignácio, il supervisore della piantagione di caffè, l'unico della comunità indigena che parli in castigliano e che fa da tramite e interprete con il padrone e le pubbliche autorità, in cambio del permesso di continuare a coltivare l'appezzamento di terra che hanno in uso e la baracca annessa in cui abitano. María, ostile al matrimonio combinato, ha messo gli occhi sull'irrequieto e ribelle Pepe, che ha in mente soltanto la fuga negli USA, dove ha promesso di portarla con sé a patto che lei vada avanti a concederglisi (e a rifornirlo clandestinamente di aguardiente), ma quando la ragazza rimane incinta lui sparisce. Un disastro per la famiglia, che si vede costretta a escogitare un'altro mezzo per non dover raccogliere le proprie povere masserizie e andarsene: cercare di farla abortire, con metodi tradizionali (beveroni e sortilegi vari), oppure, andati a vuoto questi tentativi, tentare disinfestare i terreni circostanti dai serpenti vi prolificano (come in tutte le zone vulcaniche o ad alto magnetismo), usando proprio i presunti "poteri" di María in modo da rendere i terreni coltivabili a mais. Il film è estremamente efficace nel descrivere il rapporto ambivalente dei genitori, soprattutto della madre, con la figlia, utilitaristici prima ma al contempo estremamente affettuosi e protettivi dal momento in cui viene scoperta la gravidanza e la sua "ineluttabilità", nonostante si tratti di un'altra bocca da sfamare e per di più femmina, ma soprattutto denuncia la totale incomunicabilità tra il mondo indigeno, che anche per questo motivo risulta completamente indifeso, e le istituzioni pubbliche, pure quando teoricamente bene intenzionate a intervenire nei confronti dei campesinos più poveri, dovuta non solo e non tanto a motivi linguistici quanto a codici culturali completamente diversi, oltre a quello della tratta dei "bambini rubati", altra piaga centroamericana. Una pellicola meritoria, dove si respira un'aria realistica e cruda ma pervasa allo stesso tempo di magia e autentica poesia, che mi ha portato a evocare visivamente l'ambientazione dei libri di Manuel Scorza, un'altra realtà, quella della popolazione Inca a latitudini più meridionali, assai simile, e che spiega le ragioni per cui una civiltà a suo modo molto avanzata ha preferito nascondersi e in alcuni casi scomparire nella foresta piuttosto che farsi annientare dagli invasori. Popolazioni, quelle Maya, Inca e dei Pellerossa a loro imparentati, che hanno più di ogni altra, assieme agli aborigeni australiani, subito le violenze più atroci da parte della "civiltà" dell'uomo bianco, perfino più dei nativi africani. Da non perdere.
Primo lungometraggio del 38enne regista guatemalteco formatosi, oltre che in patria, in Francia e in Italia, questo film bello e potente è stato premiato con l'Orso d'Argento alla Berlinale di quest'anno: a riceverlo, oltre a Bustamante, le due intense protagoniste, María Mercedes Croy e María Telón, nei ruoli, rispettivamente, di figlia e madre di etnia kaqchiquel (la pellicola è in lingua originale sottotitolata) alle prese con un matrimonio combinato e una gravidanza a sorpresa, e che non erano, prima del Festival, mai uscite dai confini del loro Paese. Siamo in un cafetal situato sulle pendici di un vulcano, e la famiglia della diciassettenne María, tipica bellezza Maya, l'ha promessa in matrimonio a Ignácio, il supervisore della piantagione di caffè, l'unico della comunità indigena che parli in castigliano e che fa da tramite e interprete con il padrone e le pubbliche autorità, in cambio del permesso di continuare a coltivare l'appezzamento di terra che hanno in uso e la baracca annessa in cui abitano. María, ostile al matrimonio combinato, ha messo gli occhi sull'irrequieto e ribelle Pepe, che ha in mente soltanto la fuga negli USA, dove ha promesso di portarla con sé a patto che lei vada avanti a concederglisi (e a rifornirlo clandestinamente di aguardiente), ma quando la ragazza rimane incinta lui sparisce. Un disastro per la famiglia, che si vede costretta a escogitare un'altro mezzo per non dover raccogliere le proprie povere masserizie e andarsene: cercare di farla abortire, con metodi tradizionali (beveroni e sortilegi vari), oppure, andati a vuoto questi tentativi, tentare disinfestare i terreni circostanti dai serpenti vi prolificano (come in tutte le zone vulcaniche o ad alto magnetismo), usando proprio i presunti "poteri" di María in modo da rendere i terreni coltivabili a mais. Il film è estremamente efficace nel descrivere il rapporto ambivalente dei genitori, soprattutto della madre, con la figlia, utilitaristici prima ma al contempo estremamente affettuosi e protettivi dal momento in cui viene scoperta la gravidanza e la sua "ineluttabilità", nonostante si tratti di un'altra bocca da sfamare e per di più femmina, ma soprattutto denuncia la totale incomunicabilità tra il mondo indigeno, che anche per questo motivo risulta completamente indifeso, e le istituzioni pubbliche, pure quando teoricamente bene intenzionate a intervenire nei confronti dei campesinos più poveri, dovuta non solo e non tanto a motivi linguistici quanto a codici culturali completamente diversi, oltre a quello della tratta dei "bambini rubati", altra piaga centroamericana. Una pellicola meritoria, dove si respira un'aria realistica e cruda ma pervasa allo stesso tempo di magia e autentica poesia, che mi ha portato a evocare visivamente l'ambientazione dei libri di Manuel Scorza, un'altra realtà, quella della popolazione Inca a latitudini più meridionali, assai simile, e che spiega le ragioni per cui una civiltà a suo modo molto avanzata ha preferito nascondersi e in alcuni casi scomparire nella foresta piuttosto che farsi annientare dagli invasori. Popolazioni, quelle Maya, Inca e dei Pellerossa a loro imparentati, che hanno più di ogni altra, assieme agli aborigeni australiani, subito le violenze più atroci da parte della "civiltà" dell'uomo bianco, perfino più dei nativi africani. Da non perdere.
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