mercoledì 9 luglio 2014

The Harder They Come...


...The Harder They Fall, come cantava nel 1972 Jimmy Cliff in un pezzo famosissimo all'epoca, tratto dalla colonna sonora dell'omonimo film. Tutto qui: a forza di intonare peana sulla supposta superiorità intrinseca del calcio brasiliano, come se l'avessero inventato loro (anche gli yankees sono convinti di avere scoperto la pizza) e ne possedessero la scienza infusa, e celebrandolo acriticamente a ogni latitudine, il luogocomunismo mediatico ha finito per diffondere urbi et orbi la menzogna del "País do futebol", dove tecnica, predisposizione naturale e passione nonché una maglia dai colori vivaci e accattivanti avrebbero portato per definizione ai risultati esteticamente e sportivamente migliori. La realtà non è così, esattamente come il Brasile non è un Paese allegro e felice, bensì triste e fatalista, intimidito e frastornato prima da una dittatura durata vent'anni e poi mal governato, salvo che per un breve periodo assai enfatizzato da Lula, puntualmente smentito dalla sua erede Rousseff, mentre il mito do carnaval non è altro, per la maggioranza della popolazione, che una fuga da una realtà prevalentemente misera, ingiusta e spesso violenta, l'eterna promessa di un futuro che non arriva mai. A forza di pomparlo il pallone si gonfia, e così è stato per la Seleção verdeoro e il suo imponente seguito di tifosi pronti a farsi incantare dalle favole, che non si limita ai confini nazionali ma è, per così dire, globalizzato: un marchio, quello della Seleção, che i brasiliani, questo sì, sono stati capaci di vendere bene in giro per il mondo, così come i franzosi lo champagne o i loro profumi. La convinzione di essere i migliori, i più belli e anche i più simpatici, insomma gli eletti, ha alimentato da un lato una presunzione senza limiti e dall'altro un vittimismo infantile e indisponente che si riflettono immediatamente sul campo, e la partita di ieri sera con la Germania, trasformatasi in una catastrofe per i brasiliani, è stata l'ennesima riprova di quanto il calcio sia lo specchio dei pregi e dei difetti di un Paese, in una parola della sua realtà. Le prime avvisaglie si erano avute già alla vigilia dell'incontro, quando dirigenti, allenatori e giocatori hanno cominciato a lagnarsi, nel perfetto stile del chiagni e fotti ben noto a noi italianiper la squalifica di Thiago Silva, capitano della squadra e unico difensore di valore (ma scorretto assai) per somma di ammonizioni, facendo pure ricorso alla FIFA; poi dell'infortunio, per un fallo di gioco assolutamente fortuito, nel quarto di finale con la Colombia, vinto con scarso merito ai rigori, che li ha privati della loro unica stella, Neymar, sulle cui esili spalle avevano posto tutte le speranze di andare avanti, giocatore peraltro fragile di fisico (AKA: mezza sega) nonché notoriamente scorretto e facile alla simulazione per mezzo di tuffi acrobatici degni di Tania Cagnotto. Commedianti come sono, hanno perfino portato in campo la sua maglia come cimelio esibendola durante l'esecuzione degli inni nazionali e le foto di rito, e suggerito al pubblico di presentarsi allo stadio con una sua maschera a coprire il volto, come a proclamare all'universo intero "Siamo tutti Neymar": per molto meno qualsiasi altra rappresentativa sarebbe stata sanzionata, ma questo non vale per il Brasile, nazione ospitante dell'Evento, ribattezzato per l'occasione "il Mondiale dei Mondiali" solo per il fatto di svolgersi sul suolo del gigante sudamericano, che ha sempre goduto di amplissime protezioni nelle alte sfere della FIFA (di cui l'onnipotente connazionale João Havelange fu presidente per vent'anni dal 1974 al 1994 e padre-padrone ancora oggi), che non a caso ha designato come arbitro il peggiore (e quindi manovrabile) tra tutti i direttori di gara visti finora all'opera nel torneo: il messicano Marco Moreno, quello che non sanzionò il morso di Suarez a Chiellini in Italia-Uruguay e che espulse invece Claudio Marchisio a metà partita per un normale intervento di gioco. Queste le premesse, tradottesi in campo in un atteggiamento tattico figlio della arrogante e immotivata presunzione di chi non vuol rendersi conto dei propri limiti: tecnicamente, tatticamente e atleticamente di tre spanne inferiori ai tedeschi, i brasiliotes sono partiti in quarta con l'intenzione di "fare la partita", come si dice in gergo, trascurando ogni prudenza e la legge aurea del calcio razionale, il "primo non prenderle" che deve accompagnare la consapevolezza dei propri mezzi, e venendo inesorabilmente trafitti dai tedeschi, organizzati come da copione, atleticamente prestanti, seri e precisi, diventando pane per i loro denti. Che poi hanno  a loro volta confermato la loro fama di implacabili esecutori, non risparmiandosi nemmeno sul 5-0 e continuando a infierire sulla vittima metodicamente, chirurgicamente, senza pietà, insomma professionalmente, fino al 7-1 finale, perché "queste sono le regole del gioco". Atteggiamento sportivamente corretto, ma che potevano anche risparmiarsi, dopo aver messo al sicuro il risultato. Insomma, la bolla creata ad arte è scoppiata ieri sera allo stadio Mineirão di Belo Horizonte, così come scoppiano i palloni gonfiati all'eccesso, e anche questa è una legge del calcio, dello sport in generale (vedi Lance Armstrong, per fare un esempio ciclistico) come dell'economia (vedi il crack Lehman Brothers, lo scoppio delle varie bolle speculative e le relative conseguenze), così com'è successo in politica a Toni Blair, a Sarkozy, a Berlusconi e accadrà, ci si augura al più presto, a Renzie. Che il calcio brasiliano fosse in crisi e la sua fama in buona parte usurpata era chiaro da decenni a chi capisce un po' di pallone e conosce un minimo il Paese in questione: i loro stadi sono molto più desertificati di quelli italiani, dove la crisi è conclamata; i loro campionati non contano nulla o quasi; i praticanti (e questo vale anche per l'Argentina ma non per l'Uruguay), in rapporto alla popolazione, sono in numero inferiore a quel che si creda e decisamente meno che in quasi tutti i Paesi europei; nascono sempre meno talenti, specie tra gli attaccanti, e quei pochi emigrano ancora ragazzini quando ancora devono formarsi come calciatori, rastrellati dai settori giovanili delle squadre di mezza Europa e perfino dell'Asia perché il loro "cartellino" costa quattro soldi e la CFB lo consente, col risultato che non hanno più nessuna caratteristica indigena, ragion per cui non esiste ormai nemmeno un gioco che possa definirsi "brasiliano". Non a caso i migliori visti in campo ieri, Julio Cesar e Maicon, peraltro ex glorie nerazzurre, ultratrentenni, appartengono alla generazione precedente. Faceva notare Fabio Caressa, il commentatore di SKY, con cui raramente concordo, che tra i 23 convocati dal CT Scolari, uno solo, il centravanti titolare, tale Fred, gioca nel campionato brasiliano, precisamente nella Fluminense, nemmeno una delle squadre più blasonate: in italia non giocherebbe titolare nemmeno nel Pordenone (l'altro attaccante, Hulk, è un energumeno nei cui occhi non si accende nemmeno una scintilla di comprendonio e rispetto al quale perfino Bobo Vieri era un atleta elegante nonché un fine intellettuale). Il calcio tedesco, che i suoi problemi e anche scandali (legati alle scommesse e che hanno coinvolto prevalentemente gli arbitri) li ha avuti, si è "rifondato", sia tecnicamente sia economicamente, dieci anni fa e ha puntato, oltre che sulle infrastrutture e la trasparenza finanziaria, sui settori giovanili: i risultati si sono visti presto, con la Bundesliga che da campionato cenerentola è ora solo un gradino sotto alla Premier League inglese e, come questa, registra il pieno di spettatori allo stadio, per cui non è nemmeno strettamente dipendente, come la Serie A italiana, dai diritti televisivi. Sempre a proposito della fama, che fonda più sul mito che su fatti concreti, che circonda la Seleção (che io chiamo la Juventus delle nazionali), tanto osannata dai media più conformisti assieme ai suoi epigoni europei quali il Barça e la nazionale spagnola, ormai giunti tutti al capolinea dopo essere stati incensati per anni e averci definitivamente frantumato gli zebedei: raramente ne ho visto una davvero spettacolare se non nei primi anni Sessanta; quella del 1970 in Messico (che però non era fatta da marziani, nonostante Pelé, se in finale dopo un'ora stava ancora sull'1-1 con un'Italia ormai appagata dal mitico 4-3 dopo i supplementari in semifinale con la Germania e fisicamente divelta), in parte quella del 1982 in Spagna (anche quella volta eliminata proprio dall'Italia sempre a causa della sua infinita quanto immotivata presunzione) e in minima parte quella che conquistò il titolo in uno dei Mondiali più squallidi di cui si abbia memoria, quello di Corea/Giappone del 2002, insieme a quello di USA '94, vinto anche questo immeritatamente dal Brasile su un'Italia sconvolta dal fuso orario e dai 40 gradi all'ombra del mezzogiorno di Pasadena. In confronto, non solo gli azzurri di Bearzot in versione 1978 (Argentina: la migliore sotto il profilo del gioco) e 1982, ma anche quelli di Vicini a Italia '90 erano decisamente superiori e hanno offerto prestazioni più convincenti. Stasera l'altra semifinale, tra Argentina e Olanda. Pronostico difficile: anche la presunzione dei rioplatensi tende all'infinito ma è meno malriposta. Essendoci parenti stretti sono molto più accorti e tignosi dei brasiliotes: mai commetterebbero l'errore di scoprirsi e andare all'arrembaggio degli orange. Facile prevedere che ne uscirà un incontro equilibrato, tattico, probabilmente monotono e brutto, salvo essere squassato e risolto dai lampi di genio provenienti dall'uno dell'altro campo, e magari dalla panchina olandese. Se andrà in finale l'Argentina vedo la sua sorte segnata nonostante l'intercessione di Papa Bergoglio di San Lorenzo (Bs.As.): tutto il Brasile le sarà contro, a cominciare dagli organizzatori dell'Evento: una vittoria dei detestati vicini sarebbe anche più difficile da digerire della squassante sconfitta di ieri, mentre con una Germania trionfante la nazione verdeoro intera si consolerebbe per essere stata battuta dai futuri campioni del Mondo. Se al Maracaná domenica se la giocasse l'Olanda, dopo aver vendicato l'indecente furto da parte dell'Argentina di Menotti nel 1978 ai Mondiali svoltisi sotto la dittatura di Videla e soci, la Germania si troverebbe contro un osso assai duro e il pronostico, per quanto favorevole alla squadra di Loew, sarebbe più incerto. E il destino in mano a Eupalla. Ultimissima osservazione: avete notato che la presenza di neri e mulatti nella seleção verdeoro era più che inversamente proporzionale a quella degli stessi sugli spalti, almeno a giudicare dalla inquadrature televisive? Perché un'altra favola è quella dell'inesistenza della discriminazione razziale in Brasile: certo, niente in confronto agli USA, ma quelli mica sono un esempio di civiltà, però esiste eccome, e si vede e si sente (sempre che si voglia vedere e sentire. E raccontare). 

1 commento:

  1. a proposito di Bergoglio, ma secondo voi lui e Ratzinger vedranno la finale insieme? la potremmo chiamare la finale dei due Papi.....
    il Segretario

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