In un Paese in cui la parola dimissioni quasi mai genera conseguenze e le abitudini, mentali e no, sono dure a morire, è venuto il tempo che io le dia da lettore dell'Espresso. Così come le avevo date il 31 gennaio del 2007 da fedele lettore di Repubblica, in seguito alla decisione di pubblicare in prima pagina una famosa lettera di Veronica Lario in Berlusconi, dopo esserlo stato dal primo numero del 14 gennaio del 1976. Ne dò il "triste annuncio", per quel che può importare a chi mi segue, per pura coincidenza in un giorno di rinunce eccellenti e che è anche, combinazione, l'anniversario della firma dei Patti Lateranensi del 1929, sostituiti poi dal "Nuovo Con cordato" sottoscritto da Bettino Craxi nel 1984: ai tempi in cui la mia generazione andava a scuola, si festeggiava la ricorrenza con un giorno di vacanza. Lo faccio con rammarico, perché all'Espresso ero abituato da sempre, insieme al Corriere era una presenza costante in casa quando era ancora un settimanale in formato "lenzuolo", prima di assumere quello tabloid a metà degli egli anni Settanta, e somigliava alle edizioni domenicali dei grandi quotidiani anglosassoni. Con la differenza che all'Espresso si credeva e si aderiva alle sue battaglie, come quelle sul divorzio e sull'aborto, mentre il Corriere "lo si interpretava", come diceva mio padre. Era un giornale da battaglia e da inchiesta, laico, libertario, non convenzionale, schierato a sinistra ma criticamente: un simbolo. Che pian piano si è però andato sbiadendo fino ad afflosciarsi nel conformismo radical-chic, passando dalle grandi inchieste al pettegolezzo e agli ammiccamenti tutti interni al Palazzo, spesso palestra per messaggi in codice all'interno della casta sinistrorsa o di sue fazioni. L'appuntamento del giovedì in edicola era d'obbligo e prima ancora di dare una scorsa all'editoriale correvo alla pagina della rubrica televisiva di Sergio Saviane, un rito: che mi sorbivo come il prete il calice di vino, e l'effetto era ugualmente esilarante. Bocca, Cederna, Corbi, Ajello, Pansa nei suoi momenti migliori: giornalismo di razza. Anche ora è rimasta qualche ottima firma: da Gatti a De Feo a Travaglio a Riva, alla Bianchi e a Giglioli, ma sono sommersi da una montante mediocrità e dal gossip dilagante. Sono particolarmente legato alla lunga direzione di Livio Zanetti, durata dal 1970 al 1984 (del resto erano anche i miei "anni ruggenti"), cui seguirono quelle altrettanto valide di Giovanni Valentini e Claudio Rinaldi. Non ero entusiasta della piega presa con Giulio Anselmi, ma ho apprezzato il giornale sotto la guida sicura di Daniela Hamaui. Ora trovo sempre più insopportabile il conformismo, l'eccesso di "correttezza politica", la tendenza modaiola e accomodante, l'ecumenismo, la banalità e spesso la sciatteria (troppi errori, una grafica scadente). Non reggo i pistolotti di Roberto Saviano e le cronache dall'interno del Palazzo di Denise Pardo, che vorrebbero essere brillanti ma sono al contempo pedanti, criptiche e autoreferenziali: semplicemente irritanti. E', insomma, la fine di un amore. Avevo tentato di rianimarlo, due anni fa, convertendo l'abbonamento digitale in uno cartaceo, sperando che avere la copia cartacea tra le mani operasse il miracolo, ma da ottobre in qua non ne ho più aperta una e quando scadrà non lo rinnoverò. A farmene passare del tutto la voglia, la copertina dell'ultimo numero in edicola, peraltro non ancora arrivato a destinazione a quattro giorni dall'uscita (perfino utilizzando dei treni regionali il tragitto da Roma al Friuli si copre in non più di dieci ore), ancora una volta dedicata al ripugnante individuo che si ostinano a chiamare Cavaliere: sarà la decima in un anno che gli dedicano. Addio: forse verranno tempi migliori e un giorno potremo tornare ad essere amici.
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