"Django Unchained" di Quentin Tarantino. Con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo Di Caprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washinghton e altri. USA 2013 ★★★★★
Habemus Django! Il film che attendevo con maggiore ansia di tutta la stagione, con il timore che potesse non essere all'altezza delle mie già notevoli attese di "tarantiniano" della prima ora, non solo non le ha deluse, ma si è rivelato superiore alle più rosee previsioni. Dopo aver introdotto elementi western e b-movie in tutte le sue pellicole, questa volta Tarantino ha riversato tutta la sua visione cinematografica in un western autentico, per quanto anomalo ("revisionista", l'ha definito l'autore), ambientato nel Sud negriero degli attuali USA due anni prima dello scoppio della guerra civile, nel 1858. Personaggio chiave della vicenda il dottor Schultz, impersonato in modo superlativo dall'amico e attore austraico Christoph Waltz, un ex dentista cacciatore di taglie che, sulle tracce dei fratelli Brittle, cerca e trova Django, un nero ridotto in catene, l'unico che possa riconoscerli, lo libera dai suoi aguzzini e si mette in società con lui, col patto di aiutarlo a sua volta a rintracciare la moglie Broomhilde, una schiava allevata da una famiglia tedesca, passata ora in proprietà di Calvin Candie, un negriero fetentissimo interpretato da un superbo Leonardo Di Caprio, che migliora sensibilmente con il passare degli anni. E' questo il colpo di genio: rileggere la grande saga del Nord, La canzone dei nibelunghi, in chiave western, con Django che diventa il Sigfrido della vicenda, il tutto suggerito da Waltz stesso al regista nella realtà e raccontato dal suo personaggio nella pellicola. Il lato splatter, spesso così criticato, è come sempre tanto caricaturale quanto paradigmatico: la vera violenza, che non cambia mai, è quella dell'America che Tarantino rappresenta in tutti i suoi film, e in questo più che mai. Si riassume in due battute: quando Django commenta lo sbigottimento del suo collega e amico Schultz di fronte alla scena di un "mandingo" sbranato dai cani e giustificando la propria impassibilità: "Io sono abituato agli americani da più tempo di lui", e il grido finale di Stephan, il servo nero del feroce Candie, tanto compreso nella sua parte e rassegnato alla propria perdita di dignità da immedesimarsi nel padrone e diventare un aguzzino più spregevole perfino del negriero bianco: "Non hai speranza, Django, non puoi scappare in eterno: ci sarà sempre una Candyland sulla tua strada!". 165 minuti di puro cinema, spettacolare, intelligente, suggestivo, colto, tecnicamente esemplare da tutti i punti di vista, con un commento musicale come sempre perfetto: a mio modo di vedere un capolavoro, e un film che, da solo, sul razzismo, sempre attuale negli USA, specialmente nel Sud, e i suoi meccanismi, dice più cose di tutta la cinematografia holliwoodiana "politicamente corretta" prodotta finora. Sala gremita al primo spettacolo e coda per entrare al secondo, al "Centrale" di Udine ieri pomeriggio, e pubblico quanto mai eterogeneo ma unanime nel gradimento. Applausi: grazie Quentin.
Habemus Django! Il film che attendevo con maggiore ansia di tutta la stagione, con il timore che potesse non essere all'altezza delle mie già notevoli attese di "tarantiniano" della prima ora, non solo non le ha deluse, ma si è rivelato superiore alle più rosee previsioni. Dopo aver introdotto elementi western e b-movie in tutte le sue pellicole, questa volta Tarantino ha riversato tutta la sua visione cinematografica in un western autentico, per quanto anomalo ("revisionista", l'ha definito l'autore), ambientato nel Sud negriero degli attuali USA due anni prima dello scoppio della guerra civile, nel 1858. Personaggio chiave della vicenda il dottor Schultz, impersonato in modo superlativo dall'amico e attore austraico Christoph Waltz, un ex dentista cacciatore di taglie che, sulle tracce dei fratelli Brittle, cerca e trova Django, un nero ridotto in catene, l'unico che possa riconoscerli, lo libera dai suoi aguzzini e si mette in società con lui, col patto di aiutarlo a sua volta a rintracciare la moglie Broomhilde, una schiava allevata da una famiglia tedesca, passata ora in proprietà di Calvin Candie, un negriero fetentissimo interpretato da un superbo Leonardo Di Caprio, che migliora sensibilmente con il passare degli anni. E' questo il colpo di genio: rileggere la grande saga del Nord, La canzone dei nibelunghi, in chiave western, con Django che diventa il Sigfrido della vicenda, il tutto suggerito da Waltz stesso al regista nella realtà e raccontato dal suo personaggio nella pellicola. Il lato splatter, spesso così criticato, è come sempre tanto caricaturale quanto paradigmatico: la vera violenza, che non cambia mai, è quella dell'America che Tarantino rappresenta in tutti i suoi film, e in questo più che mai. Si riassume in due battute: quando Django commenta lo sbigottimento del suo collega e amico Schultz di fronte alla scena di un "mandingo" sbranato dai cani e giustificando la propria impassibilità: "Io sono abituato agli americani da più tempo di lui", e il grido finale di Stephan, il servo nero del feroce Candie, tanto compreso nella sua parte e rassegnato alla propria perdita di dignità da immedesimarsi nel padrone e diventare un aguzzino più spregevole perfino del negriero bianco: "Non hai speranza, Django, non puoi scappare in eterno: ci sarà sempre una Candyland sulla tua strada!". 165 minuti di puro cinema, spettacolare, intelligente, suggestivo, colto, tecnicamente esemplare da tutti i punti di vista, con un commento musicale come sempre perfetto: a mio modo di vedere un capolavoro, e un film che, da solo, sul razzismo, sempre attuale negli USA, specialmente nel Sud, e i suoi meccanismi, dice più cose di tutta la cinematografia holliwoodiana "politicamente corretta" prodotta finora. Sala gremita al primo spettacolo e coda per entrare al secondo, al "Centrale" di Udine ieri pomeriggio, e pubblico quanto mai eterogeneo ma unanime nel gradimento. Applausi: grazie Quentin.
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