"Tutto tutto niente niente" di Giulio Manfredonia. Con Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio, Lorenza Indovina, Nicola Rignanese, Lunetta Savino, Paolo Villaggio. Italia 2012 ★★★
Per compensare l'insopportabile agiografia di San Roberto "Prezzemolo" Benigni dopo l'esibizione di lunedì sera su RaiUno Costituzione alla mano, che ha fatto seguito al finto pandemonio sulle pseudo intemperanze verbali di madamìn Littizzetto di una settimana fa (oggetto dei lazzi dei due ex comici decotti sempre e comunque l'omuncolo di Arcore, di cui per riflesso condizionato sono i primi sponsor, perché a forza di evocarne la presenza lo riportano al centro di un'attenzione ormai svanita), sono andato sul sicuro con il sequel di "Qualunquemente", certo di non sbagliare. In realtà non si tratta nemmeno di un seguito, perché Cetto è solo uno dei tre personaggi che il sempre bravo Antonio Albanese immagina catapultati in Parlamento dal mefistofelico sottosegretario, splendidamente interpretato da un robotizzato Fabrizio Bentivoglio in versione simil-Morgan, per tappare i buchi creatisi nella maggioranza e votare all'occorrenza come ordinato dal partito. Vengono così fatti uscire di galera con provvedimenti ad hoc non soltanto il calabrese Cetto Laqualunque, imprigionato per mafia insieme a tutto il consiglio comunale, ma anche il nordista Rodolfo Favaretto, trafficante di clandestini nonché secessionista filo-austriaco e Frengo Stoppato, il santone new age pugliese apostolo della "canna libera", richiamato in patria dalla madre bigotta che intende beatificarlo in vita e che lo denuncia per possesso di droga pur di tenerlo sotto controllo. Rispetto al film precedente, ho trovato geniale la ricostruzione della "Città della politica" in un'EUR metafisica, con il parlamento ambientato in un palazzetto dello sport, in un'atmosfera completamente artefatta che in qualche modo richiamava alla mente l'antica Roma. Nell'emiciclo, i tre neodeputati sembrano quasi normali in mezzo a una platea di onorevoli mostruosi, a loro volta mai come quelli reali, che sono infinitamente più ributtanti delle loro caricature. Siccome nulla può essere detto sul mondo politico italiota che superi la "fantasia" del reale, le due battute più fulminanti del film, e che da sole valgono il biglietto, sono riservate alla chiesa cattolica: la prima quando Frengo per richiamare l'attenzione del pontefice impegnato in un'udienza in una stanza adiacente dice ad alta voce di essere quel deputato che proporrà la revisione dell'8 per mille per portarlo all'8 per cento, venendo immediatamente convocato al cospetto di Sua Santità da essa medesima; l'altra in cui fa notare a un monsignore come sia autolesionistica la posizione della chiesa cattolica sulla fecondazione sostenendo al contempo il dogma dell'immacolata concezione. Ovvio che non sia un capolavoro, ma in mezzo ai cinepanettoni e alle altre puttanate natalizie ammannite in questo periodo, questo film tristemente allegro, colorato e bene interpretato da tutto il cast, vale il prezzo dell'ingresso e l'ora e mezzo di amaro spasso. Paolo Villaggio nei panni di un muto presidente del consiglio perennemente intento a ingollare schifezze è inquietante quanto efficace: l'immagine stessa non richiede né una parola da parte sua né un commento. Emblematico.
Per compensare l'insopportabile agiografia di San Roberto "Prezzemolo" Benigni dopo l'esibizione di lunedì sera su RaiUno Costituzione alla mano, che ha fatto seguito al finto pandemonio sulle pseudo intemperanze verbali di madamìn Littizzetto di una settimana fa (oggetto dei lazzi dei due ex comici decotti sempre e comunque l'omuncolo di Arcore, di cui per riflesso condizionato sono i primi sponsor, perché a forza di evocarne la presenza lo riportano al centro di un'attenzione ormai svanita), sono andato sul sicuro con il sequel di "Qualunquemente", certo di non sbagliare. In realtà non si tratta nemmeno di un seguito, perché Cetto è solo uno dei tre personaggi che il sempre bravo Antonio Albanese immagina catapultati in Parlamento dal mefistofelico sottosegretario, splendidamente interpretato da un robotizzato Fabrizio Bentivoglio in versione simil-Morgan, per tappare i buchi creatisi nella maggioranza e votare all'occorrenza come ordinato dal partito. Vengono così fatti uscire di galera con provvedimenti ad hoc non soltanto il calabrese Cetto Laqualunque, imprigionato per mafia insieme a tutto il consiglio comunale, ma anche il nordista Rodolfo Favaretto, trafficante di clandestini nonché secessionista filo-austriaco e Frengo Stoppato, il santone new age pugliese apostolo della "canna libera", richiamato in patria dalla madre bigotta che intende beatificarlo in vita e che lo denuncia per possesso di droga pur di tenerlo sotto controllo. Rispetto al film precedente, ho trovato geniale la ricostruzione della "Città della politica" in un'EUR metafisica, con il parlamento ambientato in un palazzetto dello sport, in un'atmosfera completamente artefatta che in qualche modo richiamava alla mente l'antica Roma. Nell'emiciclo, i tre neodeputati sembrano quasi normali in mezzo a una platea di onorevoli mostruosi, a loro volta mai come quelli reali, che sono infinitamente più ributtanti delle loro caricature. Siccome nulla può essere detto sul mondo politico italiota che superi la "fantasia" del reale, le due battute più fulminanti del film, e che da sole valgono il biglietto, sono riservate alla chiesa cattolica: la prima quando Frengo per richiamare l'attenzione del pontefice impegnato in un'udienza in una stanza adiacente dice ad alta voce di essere quel deputato che proporrà la revisione dell'8 per mille per portarlo all'8 per cento, venendo immediatamente convocato al cospetto di Sua Santità da essa medesima; l'altra in cui fa notare a un monsignore come sia autolesionistica la posizione della chiesa cattolica sulla fecondazione sostenendo al contempo il dogma dell'immacolata concezione. Ovvio che non sia un capolavoro, ma in mezzo ai cinepanettoni e alle altre puttanate natalizie ammannite in questo periodo, questo film tristemente allegro, colorato e bene interpretato da tutto il cast, vale il prezzo dell'ingresso e l'ora e mezzo di amaro spasso. Paolo Villaggio nei panni di un muto presidente del consiglio perennemente intento a ingollare schifezze è inquietante quanto efficace: l'immagine stessa non richiede né una parola da parte sua né un commento. Emblematico.
Nessun commento:
Posta un commento