giovedì 30 agosto 2018

A volte ritorno...

Salonicco, Vecchia Agorà
Sono trascorsi ormai sei anni da quando sono venuto in Grecia l’ultima volta. In mezzo, la crisi che ha travolto il Paese, di cui nel 2012, anno delle doppie elezioni che, tra maggio e giugno, periodo che trascorsi nel Peloponneso, videro crescere i consensi a Syriza, il partito dell’attuale primo ministro Alexis Tsipras, di dieci punti dal 17 al 27 per cento dei suffragi: ancora non era nell’aria il botto definitivo del 2015, con la conquista della maggioranza relativa e la formazione del suo primo governo, e la botta da parte della troika nonché vendetta della UE dopo il famoso referendum tradito. Oltre all’amore per questo Paese, la sua civiltà millenaria, la sua gente un po’ scorbutica, anche la curiosità di toccare con mano lo stato dell’arte. A che punto è la notte? Difficile dirlo, basandomi sulle prime, superficiali impressioni. A giudicare dall’impatto con Salonicco, la seconda città della Grecia, capoluogo della Macedonia, che vista biancheggiare già a una dozzina di chilometri di distanza, appena giunto sulla costa percorrendo la strada che scende dalla frontiera a Nord con la Macedonia di Skopje, sembra enorme (in realtà, compresa l’area metropolitana, conta un milione di abitanti: Atene, per intenderci, ne ha quattro volte tanti), la sensazione non è quella di trovarsi in una realtà disastrata. Industriosa, vivace, pulita, piuttosto ordinata per essere a queste latitudini, piena di negozi (tra cui spicca l’abbondanza di quelli di prodotti per animali da compagnia: e già questo è un indizio), bei musei, una vita culturale ricca, la sensazione iniziale non è certo quella di trovarsi in un Paese flagellato da una catastrofe economico-finanziaria: a ogni buon conto l’euro circola ancora, i numerosi bancomat ne erogano a volontà, e i prezzi in generale non sono poi così bassi come ci si potrebbe aspettare: siamo in linea col nostro Meridione, poco meno. 


Mercato Modiano
Ma... I negozi, dicevo. Ma quali? Ho preso alloggio in un albergo centralissimo esattamente di fronte allo storico Mercato Modiano, struttura coperta con volte in ferro e vetro tipiche di inizio Novecento, oggi praticamente abbandonata e fatiscente: sopravvivono un paio di macellerie e pescherie, un kafenion e alcune taverne, peraltro buone e frequentate pressoché solo da indigeni, all’ora di pranzo, che a loro volta si riforniscono prevalentemente nel mercato situato nell’isolato di fronte, il Kapani, più arioso e in buona parte all’aperto, un vero proprio rione che viene considerato per estensione il Modiano: anche qui si notano numerosi vuoti, serrande abbassate in una buona metà dei locali, e sopravvivono, a fianco degli alimentari e delle immancabili bancarelle di vestiario di fabbricazione cinese, tute sportive soprattutto, e del contrabbando di sigarette, qui in mano a fastidiosi indiano-bengalesi, alcune attività artigianali: qualche falegname, impagliatori, un fabbro, negozietti di souvenir, qualcuno di casalinghi. Non ho visto manco un calzolaio, per dire, e nemmeno qualcuno che vendesse articoli in cuoio: un tempo, in Grecia, si faceva il pieno di sandali e borse... 


Kapani
Tutt’intorno, nelle vie parallele al lungomare (infestato di locali “alla moda”, con beveroni inqualificabili preparati da pseudo-barman e serviti da camerieri palestrati, in maglietta nera d’ordinanza, magari dotati di barba scolpita: di tatuati, in compenso, ne ho visti molti di meno che da noi, specie tra le donne), i non luoghi della globalizzazione, dall’abbigliamento, alle scarpe, tra cui una serie di negozi che vendono unicamente infradito rigorosamente di plastica, alla telefonia, marche multinazionali o nazionali in franchising, paninerie-pizzerie-gelaterie-caffetterie, spacci di finto street food e autentico shit-food, deli di ispirazione newyorkese per vegetariani e vegani compresi. Non mancano, naturalmente, Starfucks, MerDonald e KFC; finora mi sono stati risparmiati i sino-giapponesi, un ossimoro già nel termine, come dire un interista juventino, e i “fusion” all-you-can-eat alla milanese: del resto di estremo-orientali se ne vedono pochi, in compenso non mancano i medio-orientali, ma ciò rientra nelle vicende storiche di questa città da sempre di passaggio e sovrapposizione tra Est e Ovest. Il peggio, ossia la regolare conferma a quel che temevo, a Ladadika, l’equivalente locale dei Navigli milanesi o della Trastevere d’oggi: antico quartiere adiacente al porto, adeguatamente “riqualificato” e gentrificato, come si suol dire, trasformandolo in un misto tra divertimentificio per cazzoni, con pub e locali modaioli e pretenziosi da cui escono raccapriccianti suoni di tecno-merda rappizzata, e "finto-autentco", con souvlakerie industrializzate: naturalmente, secondo le guide luogocomuniste per viaggiatori senza fantasia e, per l'appunto, globalizzati, a cominciare da LP e RG, Routard e il supporto di Tripadvisor, è il luogo da non perdere... Ma... La gente. Più vagabondi e mendicanti di quel che ricordassi, rigorosamente greci e anziani: stranieri a chiedere l’elemosina non se ne vedono; neri nemmeno uno, a parte qualche raro turista inglese o statunitense; un buon numero di disadattati di vario genere, specie tossicomani, anche questi locali. All‘ora dell’aperitivo i locali per danarosi di ogni età, molti più di quel che pensassi, circolanti a bordo di SUV per quanto non nelle dimensioni che il fenomeno ha assunto nella Terra dei Cachi, sono discretamente affollati, e non tanto di turisti, che qui non abbondano, quanto da indigeni; invece per quanto riguarda i posti per la gente comune, kafenion e ouzerie, quelli sopravvissuti sono già chiusi: rimane aperta qualche taverna, che alle nove e mezzo di sera si va già desertificando, come le strade del centro, nonostante la buona volontà dei musicisti che si impegnano a creare atmosfera. Un tempo, come in Spagna (la sensazione è simile a quella che provai a Valencia, sempre sei anni fa) era questa l’ora in cui i greci si sedevano a tavola per cenare. A Ladadika, a non più di mezzo chilometro, freme invece la vida. Quella farloca
Haiku ellenico:
A sentir dire di Movida, già mi fremono le dida
E son scampà da Ladadika in un men che non di dica. 
Amen.

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