"Cento anni" di Davide Ferrario. Con Mario Brunello, Diana Hobel, Fulvio Falzarano, Laura Bussani, Marco Paolini, Gabriele Benedetti, Massimo Zamboni, Franco Arminio, Fabio Nigro. Italia 2017 ★★★★
Terza e ultima puntata delle sua trilogia sulla Storia d'Italia, che prende le mosse dalla disfatta di Caporetto, l'archetipo della catastrofe che sola può portare al riscatto e alla rinascita (un mantra ricorrente nel racconto che la nazione fa di sé stessa a sé stessa), Davide Ferrario è venuta a presentarla qui nel Friuli dove avvenne proprio di questi giorni giusto un secolo fa, regione che più ne ha pagato le conseguenze: a Udine, che fu la "Capitale di guerra" (600 mila morti per cosa? Liberare Trento e Trieste? Bolzano che mai fu né sarà italiana?), al Cinema Visionario, e a Pordenone, che fu in gran parte evacuata (tutta la mia numerosa famiglia a Firenze, ad esempio) a CinemaZero mercoledì 6 scorso. Film in quattro parti, Ferrario prende l'avvio proprio dalla Caporetto originale, nel 1917, facendone raccontare aspetti sconosciuti (ad esempio la triste sorte dei "bastardi di guerra", nati dagli stupri seguiti alla rotta e all'arrivo dagli austro-germanici e la diffidenza e spesso l'astio con cui venivano accolti oltre Piave i profughi, considerati perlopiù disfattisti quando non degli austriacanti e traditori tout court) da alcuni artisti locali, con riprese tra Redipuglia, Vajont, Monte Grisa, Risiera di San Sabba e Porto Vecchio a Trieste, passando quindi ad altre Caporetto emblematiche: il 1922 con l'avvento del fascismo (conseguenza proprio della prima, sciagurata Guerra Mondiale, a cui ne seguì la logica continuazione con la Seconda) e la relativa Resistenza, nel racconto del musicista reggiano Massimo Zenobi attraverso le vicende del nonno fascista irremovibile della prim'ora e di chi fu protagonista delle lotte partigiane fino alle vendette interne perfino tra questi ultimi fino agli anni Sessanta, frutti avvelenati di una riconciliazione mai avvenuta e di una storia mai del tutto affrontata; terza tappa il 1974 con la strage di Piazza della Loggia a Brescia e la resistenza, anche questa volta, attraverso il ricordo, tenuto vivo con tenacia dai famigliari delle vittime lungo l'arco di ormai più di 40 anni e una serie interminabile di processi alla ricerca di una giustizia che ha tardato ad arrivare, e che ha coinvolto e coinvolge tutta la cittadinanza, compresi i nuovi italiani, anche se nati all'estero o di etnia non padana; infine, ai giorni nostri, un'altra catastrofe incombente, raccontata dal "paesologo" Franco Arminio, la crisi demografica che porta allo spopolamento e alla desertificazione delle comunità montane, specie quelle appenniniche, prendendo a esempio la zona tra l'Irpinia e la Basilicata. "A cosa servono i morti" è la domanda che ci si è posta all'inizio di questo film-dociumentario, a cui fa da contrappunto quella speculare "a cosa servono i vivi" che prende il sopravvento verso la fine, e la risposta spetta a ognuno di noi, almeno a pensarla: Cento anni serve esattamente a questo. Un lavoro ben fatto, senza fronzoli, ben calibrato, educativo, quanto mai necessario. Grazie a Davide Ferrario, a chi ha collaborato al film e a chi lo ha prodotto.
Terza e ultima puntata delle sua trilogia sulla Storia d'Italia, che prende le mosse dalla disfatta di Caporetto, l'archetipo della catastrofe che sola può portare al riscatto e alla rinascita (un mantra ricorrente nel racconto che la nazione fa di sé stessa a sé stessa), Davide Ferrario è venuta a presentarla qui nel Friuli dove avvenne proprio di questi giorni giusto un secolo fa, regione che più ne ha pagato le conseguenze: a Udine, che fu la "Capitale di guerra" (600 mila morti per cosa? Liberare Trento e Trieste? Bolzano che mai fu né sarà italiana?), al Cinema Visionario, e a Pordenone, che fu in gran parte evacuata (tutta la mia numerosa famiglia a Firenze, ad esempio) a CinemaZero mercoledì 6 scorso. Film in quattro parti, Ferrario prende l'avvio proprio dalla Caporetto originale, nel 1917, facendone raccontare aspetti sconosciuti (ad esempio la triste sorte dei "bastardi di guerra", nati dagli stupri seguiti alla rotta e all'arrivo dagli austro-germanici e la diffidenza e spesso l'astio con cui venivano accolti oltre Piave i profughi, considerati perlopiù disfattisti quando non degli austriacanti e traditori tout court) da alcuni artisti locali, con riprese tra Redipuglia, Vajont, Monte Grisa, Risiera di San Sabba e Porto Vecchio a Trieste, passando quindi ad altre Caporetto emblematiche: il 1922 con l'avvento del fascismo (conseguenza proprio della prima, sciagurata Guerra Mondiale, a cui ne seguì la logica continuazione con la Seconda) e la relativa Resistenza, nel racconto del musicista reggiano Massimo Zenobi attraverso le vicende del nonno fascista irremovibile della prim'ora e di chi fu protagonista delle lotte partigiane fino alle vendette interne perfino tra questi ultimi fino agli anni Sessanta, frutti avvelenati di una riconciliazione mai avvenuta e di una storia mai del tutto affrontata; terza tappa il 1974 con la strage di Piazza della Loggia a Brescia e la resistenza, anche questa volta, attraverso il ricordo, tenuto vivo con tenacia dai famigliari delle vittime lungo l'arco di ormai più di 40 anni e una serie interminabile di processi alla ricerca di una giustizia che ha tardato ad arrivare, e che ha coinvolto e coinvolge tutta la cittadinanza, compresi i nuovi italiani, anche se nati all'estero o di etnia non padana; infine, ai giorni nostri, un'altra catastrofe incombente, raccontata dal "paesologo" Franco Arminio, la crisi demografica che porta allo spopolamento e alla desertificazione delle comunità montane, specie quelle appenniniche, prendendo a esempio la zona tra l'Irpinia e la Basilicata. "A cosa servono i morti" è la domanda che ci si è posta all'inizio di questo film-dociumentario, a cui fa da contrappunto quella speculare "a cosa servono i vivi" che prende il sopravvento verso la fine, e la risposta spetta a ognuno di noi, almeno a pensarla: Cento anni serve esattamente a questo. Un lavoro ben fatto, senza fronzoli, ben calibrato, educativo, quanto mai necessario. Grazie a Davide Ferrario, a chi ha collaborato al film e a chi lo ha prodotto.
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