domenica 1 febbraio 2009

Kuching, il ritorno


Sungei Kuching di mortsanKUCHING (Sarawak) – Termino dopo due settimane il giro del Borneo settentrionale da dove l'avevo iniziato: a Kuching, capitale del Sarawak. Il trasferimento da Sibu a qui, è sensibilmente più veloce col battello anziché via terra prendendo un bus: 5 ore contro 8. I primi 60 chilometri lungo l'estuario del Batang Rejang, in un susseguirsi continuo di giganteschi depositi di legname e di segherie; quindi un tratto di mare che venerdì era piuttosto incattivito, a cui una giornata tra il livido della luce riflessa e il cielo plumbeo dava un aspetto inquietante. Ne guadagnava il senso di avventura, con il longboat che beccheggiava non poco, pur lanciato a una velocità di crociera di 70 km/h. Ogni tanto una sensazione di vuoto d'aria, lo stomaco in gola, ma alla fine si è arrivati. A una seconda visita, anche una città non grande come Kuching che, per la sua atmosfera, mi era piaciuta al primo impatto, si svela rivelando aspetti e tratti a cui non avevo fatto caso le volta precedente. Ad esempio che le Chinatown sono tre, per quanto contigue, e non una, quella storica, sviluppatasi attorno al cuore coloniale della città, dove si trovava la sede del governi dei rajah bianchi, ovvero della dinastia dei Brooke, costituita da shophouse di ogni genere, e che affianca la zona del bazar, per certi aspetti complementare ad esso con le sue attività artigianali Tempio cinese Kuchig di Rudy2ke di servizio. C'è infatti poi quella che si sviluppa lungo il vecchio porto fluviale, la cui fisionomia si nota appieno solo dal fiume o dalla riva opposta, costituita da cantieri, attività legate alla pesca, depositi, magazzini di grossisti (i nidi di rondine essiccati, specie di piccoli cestini fatti con la bava degli uccelli raccolti prevalentemente nelle grotte, e le pinne di pescecane, oltre a ogni tipo di spezie, a cominciare dal pepe, sono i pezzi forti), grandi magazzini e, naturalmente, ristoranti, oltre alle banche. Infine ecco una terza Chinatown, che al primo passaggio mi era sfuggita, lungo jalan (viale) Padungan, che nel tratto che conduce alla porta della città diventa un viale alberato e parzialmente pedonalizzato, che è più residenziale e borghese, con edifici a due piani con le facciate spesso tinteggiate con colori vivaci, piena di negozi graziosi e curatissimi, con la merce, fosse anche semplicemente frutta e verdura, esposta in maniera coreografica, con un tocco tra l'artistico e l'elegante pur senza cadere nell'effetto boutique; quindi caffè e locali discreti, arredati con attenzione, pulitissimi senza essere asettici. Questa la Kuching urbana, che si sviluppa sulla riva meridionale del fiume Sarawak: alla fine una città cinese, nel cui cuore si trova non a caso un tempio buddhista, insiema ad altri minori e, poco lontano, le chiese cristiane. La popolazione malese c'è e si vede soprattutto al bazar, dove si trova anche la stazione degli autobus locali oltre alla moschea principale, e che viene raggiunto dalla periferia e dai centri vicini oltre che dagli insediamenti lungo il fiume, spesso costituiti da longhouse. E poi c'è l'altra Kuching, sempre malese, quella dei di kampung che si sviluppano sulla sponda settentrionale del fiume e di cui avevo già parlato in precedenza, com le sue moschee e l'ambientazione nettamente rurale. Alla conclusione di due mesi di viaggio tra Malaysia e Indonesia, oltre alla struggente bellezza di alcuni panorami; l'atmosfera generalmente rilassata; l'affabilità, disponibilità e gentilezza delle persone e, aspetto di non poco conto, la senzazione di totale sicurezza in qualsiasi situazione mi sia tvenuto a trovare, che a questi livelli ci possiamo sognare anche nella nostra tranquilla e affidabile tana europea, rimane la conferma di chi meni davvero le Kuching Dusk di magnisvkdanze in questa non piccola parte del mondo (questi due Paesi soltanto hanno una popolazione uguale a quella dell'Europa occidentale ed escluso il Brunei, dove comanda la Shell), ovvero gli instancabili “cinesi della diaspora”, come li chiamava Tiziano Terzani. Anticipando i tempi, ne aveva parlato diffusamente nel suo libro “Un indovino mi disse”, in cui raccontava le peripezie dell'anno (il 1993) in cui decise di svolgere il suo mestiere di corrispondente nel Continente, viaggiando prevalentemente nel Sud Est Asiatico senza mai utilizzare l'aereo, per seguire, appunto, la profezia di un indovino. Fu in quell'occasione che maturò l'idea di una serie di articoli, pubblicati sullo Spiegel per cui lavorava, e in parte raccolti nel libro “In Asia”, dedicati appunto ai cinesi che avevano lasciato nel corso dei secoli la madrepatria per i più svariati motivi, hanno avuto successo e hanno finito per lasciare una forte impronta, nel bene e nel male, sui Paesi in cui sono andati a stabilirsi, in Malaysia più ancora che in Indonesia. Kuching può esserne un buon esempio, mentre Singapore, di questo contraddittorio successo, è il simbolo incontrastato.

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