KUCHING (Sarawak) –
Termino dopo due settimane il giro del Borneo settentrionale da dove
l'avevo iniziato: a Kuching, capitale del Sarawak. Il trasferimento da
Sibu a qui, è sensibilmente più veloce col battello anziché via terra
prendendo un bus: 5 ore contro 8. I primi 60 chilometri lungo l'estuario
del Batang Rejang, in un susseguirsi continuo di giganteschi depositi
di legname e di segherie; quindi un tratto di mare che venerdì era
piuttosto incattivito, a cui una giornata tra il livido della luce
riflessa e il cielo plumbeo dava un aspetto inquietante. Ne guadagnava
il senso di avventura, con il longboat
che beccheggiava non poco, pur lanciato a una velocità di crociera di
70 km/h. Ogni tanto una sensazione di vuoto d'aria, lo stomaco in gola,
ma alla fine si è arrivati. A una seconda visita, anche una città non
grande come Kuching che, per la sua atmosfera, mi era piaciuta al primo
impatto, si svela rivelando aspetti e tratti a cui non avevo fatto caso
le volta precedente. Ad esempio che le Chinatown
sono tre, per quanto contigue, e non una, quella storica, sviluppatasi
attorno al cuore coloniale della città, dove si trovava la sede del
governi dei rajah bianchi, ovvero della dinastia dei Brooke, costituita da shophouse di ogni genere, e che affianca la zona del bazar, per certi aspetti complementare ad esso con le sue attività artigianali e
di servizio. C'è infatti poi quella che si sviluppa lungo il vecchio
porto fluviale, la cui fisionomia si nota appieno solo dal fiume o dalla
riva opposta, costituita da cantieri, attività legate alla pesca,
depositi, magazzini di grossisti (i nidi di rondine essiccati, specie di
piccoli cestini fatti con la bava degli uccelli raccolti
prevalentemente nelle grotte, e le pinne di pescecane, oltre a ogni tipo
di spezie, a cominciare dal pepe, sono i pezzi forti), grandi magazzini
e, naturalmente, ristoranti, oltre alle banche. Infine ecco una terza Chinatown,
che al primo passaggio mi era sfuggita, lungo jalan (viale) Padungan,
che nel tratto che conduce alla porta della città diventa un viale
alberato e parzialmente pedonalizzato, che è più residenziale e
borghese, con edifici a due piani con le facciate spesso tinteggiate con
colori vivaci, piena di negozi graziosi e curatissimi, con la merce,
fosse anche semplicemente frutta e verdura, esposta in maniera
coreografica, con un tocco tra l'artistico e l'elegante pur senza cadere
nell'effetto boutique;
quindi caffè e locali discreti, arredati con attenzione, pulitissimi
senza essere asettici. Questa la Kuching urbana, che si sviluppa sulla
riva meridionale del fiume Sarawak: alla fine una città cinese, nel cui
cuore si trova non a caso un tempio buddhista, insiema ad altri minori
e, poco lontano, le chiese cristiane. La popolazione malese c'è e si
vede soprattutto al bazar,
dove si trova anche la stazione degli autobus locali oltre alla moschea
principale, e che viene raggiunto dalla periferia e dai centri vicini
oltre che dagli insediamenti lungo il fiume, spesso costituiti da longhouse. E poi c'è l'altra Kuching, sempre malese, quella dei di kampung
che si sviluppano sulla sponda settentrionale del fiume e di cui avevo
già parlato in precedenza, com le sue moschee e l'ambientazione
nettamente rurale. Alla conclusione di due mesi di viaggio tra Malaysia e
Indonesia, oltre alla struggente bellezza di alcuni panorami;
l'atmosfera generalmente rilassata; l'affabilità, disponibilità e
gentilezza delle persone e, aspetto di non poco conto, la senzazione di
totale sicurezza in qualsiasi situazione mi sia tvenuto a trovare, che a
questi livelli ci possiamo sognare anche nella nostra tranquilla e
affidabile tana europea, rimane la conferma di chi meni davvero le danze
in questa non piccola parte del mondo (questi due Paesi soltanto hanno
una popolazione uguale a quella dell'Europa occidentale ed escluso il
Brunei, dove comanda la Shell),
ovvero gli instancabili “cinesi della diaspora”, come li chiamava
Tiziano Terzani. Anticipando i tempi, ne aveva parlato diffusamente nel
suo libro “Un indovino mi disse”, in cui raccontava le peripezie
dell'anno (il 1993) in cui decise di svolgere il suo mestiere di
corrispondente nel Continente, viaggiando prevalentemente nel Sud Est
Asiatico senza mai utilizzare l'aereo, per seguire, appunto, la profezia
di un indovino. Fu in quell'occasione che maturò l'idea di una serie di
articoli, pubblicati sullo Spiegel
per cui lavorava, e in parte raccolti nel libro “In Asia”, dedicati
appunto ai cinesi che avevano lasciato nel corso dei secoli la
madrepatria per i più svariati motivi, hanno avuto successo e hanno
finito per lasciare una forte impronta, nel bene e nel male, sui Paesi
in cui sono andati a stabilirsi, in Malaysia più ancora che in
Indonesia. Kuching può esserne un buon esempio, mentre Singapore, di
questo contraddittorio successo, è il simbolo incontrastato.
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