mercoledì 18 settembre 2024

Campo di battaglia

"Campo di battaglia" di Gianni Amelio, Con Alessandro Borghi, Gabriel Montesi, Federica Rosellini,Giovanni Scotti, Vince Vivenzio, Alberto Cracco, Luca Lazzareschi e altri. Italia 2024 ★★★1/2

Sul finire della Grande Guerra, marzo del 1918. Solo quattro mesi prima c'era stata la Rotta di Caporetto e le truppe italiane si sono assestate sul Piave: in prima linea vengono mandati i "Ragazzi del '99", per l'ultimo sforzo bellico di un Paese ormai allo stremo. Siamo in Veneto, dunque, e non in Friuli, come recitano le didascalie, e la prima parte si svolge in un ospedale militare dove vengono ammassati i feriti, che chiunque conosca la regione in questione sa essere ambientato, incongruamente, a Villa Manin di Passariano, a due passi da Codroipo, all'epoca dei fatti sotto occupazione austriaca (metà degli abitanti del Friuli, compresa la famiglia di mio padre, fu evacuato in altre regioni, nel nostro caso Firenze). Una pecca a mio modo di vedere imperdonabile in un film per il resto meritevole, ben girato e recitato, intenso, drammatico e pieno significato, soprattutto attuale perché affronta temi eterni. Protagonisti due ufficiali: il colonnello medico Stefano (Montesi), patriota, altoborghese, che non tollera gli imboscati e, peggio ancora gli autolesionisti, che rimanda al fronte i soldati il più presto possibile, perfino guerci, e il tenente Giulio (Borghi), suo amico fin dall'infanzia nonché compagno di studi, biologo prestato alla Sanità, che invece è refrattario alla guerra e alla sua retorica e aiuta di nascosto, i feriti a tornare a casa, aggravando i sintomi: una sorta di "mano santa", come lo chiamano i disgraziati che preferiscono rimanere sciancati piuttosto che tornare in trincea. In mezzo ai due, equidistante, Anna (Rosellini), compagna di studi dei due, a cui è stato impedito di laurearsi e che presta servizio come volontaria in Croce Rossa. Sono diversi i campi di battaglia: di quello sul fronte non si vede nulla ma si percepisce come incombente, solo nella memorabile scena iniziale vediamo un soldato aggirarsi nella trincea dopo un attacco, che ricerca nelle tasche dei cadaveri qualche soldo o magari un tozzo di pane cincischiato con cui sfamarsi; c'è quello nelle retrovie, nelle famiglie agiate, come quella di Stefano, dove la vita continua come prima, in una parvenza di normalità di chi se la può permettere, lontana anni luce da quelle, prevalentemente contadine e semianalfabete, di chi è mandato a combattere per gli interessi del suo ceto (nel nome di Patria e Nazione e senso del Dovere, con la minaccia di essere fucilato per diserzione); c'è quello etico, due visioni del mondo e della professione su cui il regista non esprime giudizi; c'è quello sanitario: agli oltre seicentomila morti della Grande Guerra si aggiungono, solo in Italia, quelli dell'epidemia della Spagnola, scoppiata proprio in quei frangenti e che costringe ad allontanare gli infetti dall'ospedale militare per trasferirli in un improvvisato nosocomio in montagna: sarà quella la "prima linea" per Giulio, su cui ormai sono caduti sospetti di aiutare chi non vuole tornare al fronte. Molti i temi su cui riflettere e pure molto attuali, viste le guerre in corso, molto vicine ma percepite come distanti, in cui ci illudiamo di non essere coinvolti; e anche l'esperienza del Covid, che pur così recente, sembra così remota: il rimbecillimento da retorica bellicista e patriottarda, rinforzata dall'utilizzo sistematico della censura, della disinformazione e delle "armi di distrazione di massa" fa il suo lavoro né più né meno che come allora, nelle sedicenti democrazie occidentali così come nelle "autocrazie", su cui pretendono di avere una superiorità morale inesistente e che in nome di questo combattono (e il oro rivali pure, con le medesime motivazioni e gli stessi metodi). Buon film, classico e solido, come detto, al di là della pecca cui si è accennato, duro quanto serve.

mercoledì 11 settembre 2024

Limonov

"Limonov" (Limonov. The Ballad) di Kirill Serebrennikov. Con Ben Wishaw, Viktoria Miroshnichenko, Tomas Arana, Corrado Invernizzi, Sandrine Bonnaire, Louis-Do de Lencquesaing, Ivan Ivashkin, Masha Mashkova, Odin Lund Biron, Evgeniy Mironov, Andrey Burkovskiy, Emmanuel Carrère, Donald Sumpter e altri. Italia, Francia, Spagna 2024 ★1/2

Molto "ballad" e poco Limonov: il titolo completo scelto dalla distribuzione nostrana è, al solito fuorviante rispetto a quello internazionale (il film era stato presentato all'ultimo Festival di Cannes) perché il ritratto che ne fa Serebrennikov, che pure ha conosciuto Eduard Veniaminovič Savenko di persona, è lontano sia da quel che si evince dai suoi scritti, in particolare dalle sue fulminanti poesie, sia da quello di Emmenuel Carrère (che pure qui è presente come consulente oltre che interprete di sé stesso) che ne aveva romanzato la biografia nell'omonimo libro di grande successo. Personaggio contraddittorio eppure dotato di una sua coerenza, Limonov (il soprannome si riferiva a una granata sovietica così chiamata per la somiglianza all'agrume) è stato tante cose: nato nel 1943 a Dzeržinsk, operaio in una fonderia di Charkiv, ladro, aspirante poeta, all'occasione sarto, si trasferisce a Mosca, dove si muove nell'ambiente letterario in cerca di una pubblicazione che non gli viene concessa e conosce la futura moglie Elena: affamato di notorietà, trova il modo di farsi "esiliare" pur non essendo un dissidente (anche quello è un "lavoro", scoprirà una volta giunto in Occidente), assicurando che, una volta famoso, farà più danni al nemico in casa sua che in patria. E così troviamo la coppia nella desolante ma viva New York degli anni Settanta, riproposta nelle solite, abusate colorazioni delle sgranate pellicole dell'epoca, sulle note dei Velvet Underground, dei Ramones e del punk, con citazioni cinematografiche e musicali scontate, a condurre una vita miserabile e dissipata, fuori contesto, dedicata alla provocazione fine a sé stessa e, in sostanza, all'autodistruzione, tra sesso, droga e rock'n roll. Una città repulsiva e di raro squallore, quale in realtà è sempre stata, al di là delle "mille luci", a cui finirà presto col preferire la stessa Unione Sovietica. Lasciato dalla moglie, dopo aver toccato il fondo facendo sesso con un clochard di colore, si ricicla come maggiordomo di un miliardario ma alla fine rientrerà in patria nel 1991 in seguito alla dissoluzione dell'URSS dopo un passaggio in Francia, dove avrà paradossalmente il maggiore successo come scrittore pur litigando con tutti, a cominciare dagli "intellos" di sinistra, per finire in una galera russa accusato di terrorismo per avere fondato un partito nazionalista bolscevico. Tanta carne al fuoco eppure poco traspare della vera personalità e delle motivazioni di una personalità ricca e straordinariamente complessa, ma molto russa, a parte la caratteristica di attraversare la vita, nel suo caso le diverse vite, sistematicamente controcorrente. Alla fine preponderante rimane la parte newyorkese, dove vediamo in azione una sorta di folletto pop dalle insaziabili brame sessuali, nichilista, esagerato, inutilmente provocatorio e sopra (o sotto) le righe, come del resto la traduzione che ne fa cinematograficamente Sebrennikov, con uno stile frenetico che ricorda da vicino quello dei primi video musicali proprio di quell'epoca, per poi tornare a un'ambientazione realistica quando Limonov si muove in Europa. Per un soggetto così russo, convince poco la scelta di un attore inglese, Ben Wishaw che, lapprendo, ha recitato nella sua lingua con un parodistico accento slavo: che fosse svogliato, irritante ancor più del personaggio che interpretava e comunque fuori parte è reso evidente dal confronto con gli altri suoi colleghi, tutti molto più convincenti di lui. Insomma una delusione, un altro film che sembra più un biopic da serie TV che un'opera cinematografica di un qualche spessore, ce lo si poteva risparmiare. Decisamente deludente.