sabato 28 settembre 2024

Il maestro che promise il mare

"Il maestro che promise il mare" (El mestre que va prometre el mar) di Patricia Font. Con Enric Auquer, Laia Costa, Ramón Agirre, Milo Taboada, Eduardo Ferrés, Alba Guilera, Laura Conejero, Xavi Francés, Felipe García Vélez, Elisa Crehuet, Padi Padilla e altri. Spagna 2023 ★★★★

Un film appassionato, autenticamente sentito, necessario, specie in questi frangenti, sulla necessità della memoria. Una memoria negata per 78 anni, in Spagna, prima che fosse consentito procedere all’individuazione delle fosse comuni e all’identificazione di chi vi fosse stato gettato in seguito al colpo di Stato del luglio 1936 contro il governo repubblicano regolarmente eletto. Fu la Ley de la Memória Historica, emanata nel 2007 dal governo del socialista Zapatero, a permettere l'apertura delle fosse comuni sparse in tutto il Paese in cui finora sono stati rinvenuti almeno 150 mila cadaveri senza nome: è un'attività delegata all'iniziativa di associazioni private, al più tollerata dallo Stato quando non ostacolata nel caso alla Moncloa sieda un membro del Partito Popolare e non del PSOE. Racconta la storia, vera, di un personaggio realmente esistito, il maestro elementare Antoni Benaiges, qui interpretato  in maniera più che convincente da Enric Auquer, che nell'anno scolastico 1935-36 accettò di trasferirsi dalla natía Tarragona, in Catalogna, a Bañuelos de Buerba, sperduto paesino nella provincia di Burgos, ai tempi quanto mai arretrata, dove sperimentò una didattica del tutto diversa da quella tradizionale (fino ad allora esclusiva del parroco locale), che coinvolgeva tutta la classe nelle attività comuni e aveva come centro una tipografia: attraverso questa gli alunni imparavano non solo a leggere e a scrivere ma a interagire e collaborare producendo dei quaderni, di cui vi è ancora traccia, che raccoglievano le loro storie e i loro sogni. Come quello di vedere il mare, cosa che il maestro promise loro riuscendo a organizzare una gita nella sua terra natale, superando tutte le diffidenze (a cominciare dal prete, sempre pronto a mettergli i bastioni tra le ruote, e dal sindaco, opportunista e codardo): non fece in tempo ad accontentarli, perché fu bloccato e massacrato come sovversivo dai falangisti, una delle prime loro vittime dopo il "levantamiento". Fin qui la storia, ma la vicenda si svolge su un doppio piano temporale, nel 2010, quando vediamo Ariana, una giovane madre di Barcellona che, quando apprende che a Bañuelos de Buerba sono all'opera degli archeologi forensi, molla tutto e vi si reca per verificare se vi siano tracce del padre di suo nonno Carlos, di cui Benaiges si prese cura e ospitò a casa dopo che il bisnonno di Ariana era finito in carcere e che fu anche suo maestro: un dovere, quello che la giovane sente di avere nei confronti del nonno, che di quelle vicende e di quei tempi non aveva mai voluto parlare nella sua lunga vita, così come milioni di spagnoli, costretti al silenzio per quasi quattro decenni. Da notare che il metodo della desaparición dei nemici politici, ché tali venivano considerati tutti quelli che non fossero sulla stessa lunghezza d'onda dei fascisti, a cominciare dagli atei, dagli innovatori e da chi pensasse con la propria testa e, soprattutto, esprimesse delle idee, fu inventato proprio dai franchisti e poi applicato, visto il successo nell'annientare psicologicamente e fare vivere nell'angoscia famigliari, amici e compagni sopravvissuti, dai nazisti prima e successivamente fino ai giorni nostri dalle varie dittature latino-americane, raggiungendo il suo apice in Argentina tra il 1976 e il 1983. Per quanto possa essere didascalico e senza grandi voli pindarici e stilistici, è un film solido, opportuno, dall'intento più che condivisibile e caldamente consigliato. Specialmente in un Paese talmente senza memoria come il nostro, che si è pure dimenticato di avere inventato il fascismo a cui si ispiravano tanto Adolf Hitler quanto Francisco Franco e, non bastandogli di averlo rimosso dalla (scarsa) coscienza l'ha pure riportato al potere, per quanto in forma di farsa. 

lunedì 23 settembre 2024

La misura del dubbio

"La misura del dubbio" (Le fil) di Daniel Auteuil. Con Daniel Auteuil, Gregory Gadebois, Sidse Babett Knudsen, Alice Belaïdi, Suliane Brahim, Gaëtan Roussel, Isabelle Candelier, Florence Janas, Jean Noël Brouté, Laurent Bozzi, Nathalie Dodivers, Aurore Auteuil e altri. Francia 2024 ★★★★

Solo vedere recitare Daniel Auteuil, un gigante del cinema francese, vale il costo del biglietto: qui è anche regista e sceneggiatore, alle prese con una storia vera tratta da una raccolta di casi pubblicata dall'avvocato Jean-Yves Moyart e non da una pièce teatrale come nelle sue direzioni precedenti. L'impianto rimane però teatrale perché questo noir giudiziario, nel classico stile cupo del polar francese, si svolge in gran parte in interni, principalmente in un'aula di tribunale quando non nella casa dell'avvocato Jean Monier (Auteuil), il quale ha assunto la difesa d'ufficio di Nicolas Milik (Gadebois), un padre di famiglia di cinque figli, accusato di avere ucciso la moglie, alcolizzata, con la collaborazione dell'amico Roger, un barista con precedenti nell'esercito e un passato torbido. E' un ritorno alle origini per Jean, rimasto scottato per avere difeso in passato un uomo che dopo essere stato assolto aveva commesso altri omicidi: da allora aveva evitato i dibattimenti, lasciando l'incarico alla socia e moglie (la sempre ottima Sidse Babett Knudsen). In questo caso si autoconvince man mano dell'innocenza dell'imputato: un uomo mite, attaccato ai figli, che alleva con dedizione in sostituzione della moglie che li trascura, spesso distratta, assente o in fuga "etilica". Le prove in mano all'accusa sono fragili, tanto che viene accusato e arrestato come autore materiale del crimine Roger, l'amico (l'unico) di Nicolas, che si sarebbe "limitato" al ruolo di complice. Roger però muore prima del processo e Nicolas rimane l'unico imputato. La causa dura anni, e l'avvocato approfondisce la sua conoscenza per togliersi qualsiasi dubbio sull'innocenza del proprio cliente: visita i suoi figli, rimane in contatto costante con gli assistenti sociali che li seguono, cerca prove a sua discolpa anche presso la sorella della vittima (per inciso interpretato da una figlia di Auteuil), che lo manderà all'inferno, anzi: a "fare il suo sporco lavoro" e ribadirà il suo astio anche in aula, sostenendo che la sorella era andata in crisi e diventata infelice solo negli ultimi anni del suo matrimonio, e che starebbe a lui scoprire il perché. Jean si sente sempre più coinvolto e, convinto sinceramente dell'innocenza di Nicolas, si batte come un leone in assise ed è quasi sul punto di compiere il miracolo di farlo assolvere, ma alla fine la corte condanna il suo cliente, seppure solo come complice del presunto assassino, Roger. Sostanzialmente in base a un filo (come da titolo originale) rinvenuto sotto le unghie della vittima e proveniente dalla giacca dell'accusato. Deluso, acciaccato, Jean ha però ritrovato le motivazioni per svolgere il suo mestiere, ossia difendere un uomo che riteneva innocente, riscattando così il precedente che l'aveva mandato in crisi, ma la botta vera dovrà ancora arrivare, quando tornerà a trovare Nicolas in carcere per tirarlo su di morale e convincerlo a presentare appello e il suo cliente gli toglierà ogni dubbio sulla... "misura del dubbio" rivelandogli una verità che sarà ancora più dura da digerire di quella che aveva messo in crisi il legale anni prima. Ovviamente non svelo l'arcano. Film valido, potente, interpretazioni di alto livello. Un piacere rivedere Auteuil, sempre in grande forma così come il validissimo Gadebois. 

mercoledì 18 settembre 2024

Campo di battaglia

"Campo di battaglia" di Gianni Amelio, Con Alessandro Borghi, Gabriel Montesi, Federica Rosellini,Giovanni Scotti, Vince Vivenzio, Alberto Cracco, Luca Lazzareschi e altri. Italia 2024 ★★★1/2

Sul finire della Grande Guerra, marzo del 1918. Solo quattro mesi prima c'era stata la Rotta di Caporetto e le truppe italiane si sono assestate sul Piave: in prima linea vengono mandati i "Ragazzi del '99", per l'ultimo sforzo bellico di un Paese ormai allo stremo. Siamo in Veneto, dunque, e non in Friuli, come recitano le didascalie, e la prima parte si svolge in un ospedale militare dove vengono ammassati i feriti, che chiunque conosca la regione in questione sa essere ambientato, incongruamente, a Villa Manin di Passariano, a due passi da Codroipo, all'epoca dei fatti sotto occupazione austriaca (metà degli abitanti del Friuli, compresa la famiglia di mio padre, fu evacuato in altre regioni, nel nostro caso Firenze). Una pecca a mio modo di vedere imperdonabile in un film per il resto meritevole, ben girato e recitato, intenso, drammatico e pieno significato, soprattutto attuale perché affronta temi eterni. Protagonisti due ufficiali: il colonnello medico Stefano (Montesi), patriota, altoborghese, che non tollera gli imboscati e, peggio ancora gli autolesionisti, che rimanda al fronte i soldati il più presto possibile, perfino guerci, e il tenente Giulio (Borghi), suo amico fin dall'infanzia nonché compagno di studi, biologo prestato alla Sanità, che invece è refrattario alla guerra e alla sua retorica e aiuta di nascosto, i feriti a tornare a casa, aggravando i sintomi: una sorta di "mano santa", come lo chiamano i disgraziati che preferiscono rimanere sciancati piuttosto che tornare in trincea. In mezzo ai due, equidistante, Anna (Rosellini), compagna di studi dei due, a cui è stato impedito di laurearsi e che presta servizio come volontaria in Croce Rossa. Sono diversi i campi di battaglia: di quello sul fronte non si vede nulla ma si percepisce come incombente, solo nella memorabile scena iniziale vediamo un soldato aggirarsi nella trincea dopo un attacco, che ricerca nelle tasche dei cadaveri qualche soldo o magari un tozzo di pane cincischiato con cui sfamarsi; c'è quello nelle retrovie, nelle famiglie agiate, come quella di Stefano, dove la vita continua come prima, in una parvenza di normalità di chi se la può permettere, lontana anni luce da quelle, prevalentemente contadine e semianalfabete, di chi è mandato a combattere per gli interessi del suo ceto (nel nome di Patria e Nazione e senso del Dovere, con la minaccia di essere fucilato per diserzione); c'è quello etico, due visioni del mondo e della professione su cui il regista non esprime giudizi; c'è quello sanitario: agli oltre seicentomila morti della Grande Guerra si aggiungono, solo in Italia, quelli dell'epidemia della Spagnola, scoppiata proprio in quei frangenti e che costringe ad allontanare gli infetti dall'ospedale militare per trasferirli in un improvvisato nosocomio in montagna: sarà quella la "prima linea" per Giulio, su cui ormai sono caduti sospetti di aiutare chi non vuole tornare al fronte. Molti i temi su cui riflettere e pure molto attuali, viste le guerre in corso, molto vicine ma percepite come distanti, in cui ci illudiamo di non essere coinvolti; e anche l'esperienza del Covid, che pur così recente, sembra così remota: il rimbecillimento da retorica bellicista e patriottarda, rinforzata dall'utilizzo sistematico della censura, della disinformazione e delle "armi di distrazione di massa" fa il suo lavoro né più né meno che come allora, nelle sedicenti democrazie occidentali così come nelle "autocrazie", su cui pretendono di avere una superiorità morale inesistente e che in nome di questo combattono (e il oro rivali pure, con le medesime motivazioni e gli stessi metodi). Buon film, classico e solido, come detto, al di là della pecca cui si è accennato, duro quanto serve.

mercoledì 11 settembre 2024

Limonov

"Limonov" (Limonov. The Ballad) di Kirill Serebrennikov. Con Ben Wishaw, Viktoria Miroshnichenko, Tomas Arana, Corrado Invernizzi, Sandrine Bonnaire, Louis-Do de Lencquesaing, Ivan Ivashkin, Masha Mashkova, Odin Lund Biron, Evgeniy Mironov, Andrey Burkovskiy, Emmanuel Carrère, Donald Sumpter e altri. Italia, Francia, Spagna 2024 ★1/2

Molto "ballad" e poco Limonov: il titolo completo scelto dalla distribuzione nostrana è, al solito fuorviante rispetto a quello internazionale (il film era stato presentato all'ultimo Festival di Cannes) perché il ritratto che ne fa Serebrennikov, che pure ha conosciuto Eduard Veniaminovič Savenko di persona, è lontano sia da quel che si evince dai suoi scritti, in particolare dalle sue fulminanti poesie, sia da quello di Emmenuel Carrère (che pure qui è presente come consulente oltre che interprete di sé stesso) che ne aveva romanzato la biografia nell'omonimo libro di grande successo. Personaggio contraddittorio eppure dotato di una sua coerenza, Limonov (il soprannome si riferiva a una granata sovietica così chiamata per la somiglianza all'agrume) è stato tante cose: nato nel 1943 a Dzeržinsk, operaio in una fonderia di Charkiv, ladro, aspirante poeta, all'occasione sarto, si trasferisce a Mosca, dove si muove nell'ambiente letterario in cerca di una pubblicazione che non gli viene concessa e conosce la futura moglie Elena: affamato di notorietà, trova il modo di farsi "esiliare" pur non essendo un dissidente (anche quello è un "lavoro", scoprirà una volta giunto in Occidente), assicurando che, una volta famoso, farà più danni al nemico in casa sua che in patria. E così troviamo la coppia nella desolante ma viva New York degli anni Settanta, riproposta nelle solite, abusate colorazioni delle sgranate pellicole dell'epoca, sulle note dei Velvet Underground, dei Ramones e del punk, con citazioni cinematografiche e musicali scontate, a condurre una vita miserabile e dissipata, fuori contesto, dedicata alla provocazione fine a sé stessa e, in sostanza, all'autodistruzione, tra sesso, droga e rock'n roll. Una città repulsiva e di raro squallore, quale in realtà è sempre stata, al di là delle "mille luci", a cui finirà presto col preferire la stessa Unione Sovietica. Lasciato dalla moglie, dopo aver toccato il fondo facendo sesso con un clochard di colore, si ricicla come maggiordomo di un miliardario ma alla fine rientrerà in patria nel 1991 in seguito alla dissoluzione dell'URSS dopo un passaggio in Francia, dove avrà paradossalmente il maggiore successo come scrittore pur litigando con tutti, a cominciare dagli "intellos" di sinistra, per finire in una galera russa accusato di terrorismo per avere fondato un partito nazionalista bolscevico. Tanta carne al fuoco eppure poco traspare della vera personalità e delle motivazioni di una personalità ricca e straordinariamente complessa, ma molto russa, a parte la caratteristica di attraversare la vita, nel suo caso le diverse vite, sistematicamente controcorrente. Alla fine preponderante rimane la parte newyorkese, dove vediamo in azione una sorta di folletto pop dalle insaziabili brame sessuali, nichilista, esagerato, inutilmente provocatorio e sopra (o sotto) le righe, come del resto la traduzione che ne fa cinematograficamente Sebrennikov, con uno stile frenetico che ricorda da vicino quello dei primi video musicali proprio di quell'epoca, per poi tornare a un'ambientazione realistica quando Limonov si muove in Europa. Per un soggetto così russo, convince poco la scelta di un attore inglese, Ben Wishaw che, lapprendo, ha recitato nella sua lingua con un parodistico accento slavo: che fosse svogliato, irritante ancor più del personaggio che interpretava e comunque fuori parte è reso evidente dal confronto con gli altri suoi colleghi, tutti molto più convincenti di lui. Insomma una delusione, un altro film che sembra più un biopic da serie TV che un'opera cinematografica di un qualche spessore, ce lo si poteva risparmiare. Decisamente deludente.