HONG KONG - Mi raggiunge da diecimila chilometri da distanza la notizia della morte di Mario Monicelli, che ho avuto la fortuna e l'onore di conoscere a Udine in occasione del conferimento della laurea honoris causa, la prima decisa dalla facoltà di lettere, presieduta allora da mia cugina Caterina, dell'Università di Udine nel 2005. Aveva da poco compiuto i 90 anni e mi aveva dato del ragazzino quando gli avevo detto che a giorni ne avrei fatti 50 e stentavo a crederci. Tornava sempre molto volentieri in Friuli, dove aveva girato il film a cui forse teneva di più, "La Grande Guerra" (1959). In quei giorni, se non ricordo male, aveva girato anche una lunga intervista a cura di Gloria De Antoni che si svolgeva prevalentemente sul "trenino" della linea Sacile-Gemona, una tratta ormai quasi dismessa ma importantissima nella Prima Guerra Mondiale, nei luoghi in cui avvennero le riprese del film: credo sia andata in onda semiclandestinamente su RAITRE, nottetempo. Era una persona deliziosa, arguta, solo apparentemente burbera, sincera, attenta al prossimo. Poche parole, ma precise, essenziali, senza menare il can per l'aia. Sapeva raccontare, a modo suo, e ascoltare; colto, curioso quanto era frugale nell'esistenza quotidiana; stava bene tra i giovani e ne aveva fiducia; lo dicevano cinico, in realtà era rigoroso e diretto, mai ipocrita, detestava la retorica sopra ogni cosa. Mi ricordo quando raccontava dei pasti che si cucinava da solo, dopo essere andato a farsi la spesa, ogni giorno, perché da solo preferiva vivere, almeno quando era a Roma, e non dipendere da nessuno né rompergli le scatole con le proprie abitudini: l'ho subito amato molto per questo. Quando ho saputo che si era suicidato lanciandosi da una finestra dell'ospedale dopo aver coscienziosamente seguito le prime cure per un tumore alla prostata, ho pensato che non poteva che morire così, il Mario che ho conosciuto. Con grande dignità, scegliendo il momento di andarsene e senza dire una parola. Era stufo e aveva vissuto abbastanza: anche un cancro, no. Come epitaffio, le parole che pronunciò in quel maggio di cinque anni fa quando nella chiesa sconsacrata di San Francesco fu nominato "Dottore in storia e civiltà europee" - raramente titolo fu più pertinente: “Bisogna andare, conoscere, affrontare l’imprevisto, non soltanto dal punto di vista fisico, ma anche con il cervello. Sempre cercare qualcosa di irraggiungibile, forse di impossibile da trovare. L’uomo è un viandante e i miei film nascono tutti da quest’idea”.
Nessun commento:
Posta un commento