lunedì 31 luglio 2017

Una vita

"Una vita" (Une vie) di Stéphane Brizé. Con Judith Chemla, Jean Pierre Darroussin, Yvonne Moreau, Swann Arlaud, Nina Meurisse e altri. Francia, Belgio 2016 ★★★½
Adattamento del primo romanzo di Guy de Maupassant, apparso nel 1883 come feuilleton su un quotidiano, Una vita conferma le buona qualità di Stéphane Brizé e la sua capacità di fare esprimere una vasta gamma sentimenti attraverso sfumature dagli attori che recitano per lui e che hanno la caratteristica di risultare estremamente naturali e autentici: nel suo film precedente, La legge del mercato, era Vincent Lindon; qui una straordinaria Judith Chemla, un autentico camaleonte in quanto a versatilità espressiva, come chiunque può constatare guardando una sua galleria di immagini in rete, ma con una misura e un controllo sorprendenti, almeno per chi come me non la conosceva. Un'autentica "mattatrice", che merita l'anomalo formato 4.3 in cui è girato il film, in cui per lo più è ritratta a figura intera lungo tutto l'arco della vita di Jeanne, il personaggio principale, che rivive la propria esistenza in una serie di successivi flash-back da l momento in cui, fanciulla in fiore figlia unica di una coppia di baroni illuminati che posseggono un buon numero di fattorie in Normandia all'inizio del XIX secolo, torna a casa dal collegio e, in età da marito, viene in qualche modo indotta a invaghirsi, specialmente da parte della madre, di un giovane aristocratico decaduto, figlio di un visconte suicida per debiti di gioco, fannullone e fedifrago come il padre, che prima mette incinta Rosalie, la giovane governante unica vera amica di Jeanne; perdonato una prima volta le dà un figlio, la tradisce nuovamente finché non viene ucciso insieme all'amante, un'amica di famiglia, dal di lei marito, a sua volta suicida. Jeanne si incupisce man mano, si trasforma, inebetisce progressivamente quando si ritrova col figlio Paul a rivivere la stessa parabola di disinganni. Moriranno i genitori, il patrimonio si consumerà, il figlio la dissangua finanziariamente e ricatta affettivamente non facendosi vedere per vent'anni, ma chi non l'abbandonerà mai sarà Rosalie, che anzi tornerà ad avere cura di lei pur essendo stata cacciata di casa ai tempi dai padroni, forse per scontare il suo "peccato" di essersi fatta irretire dal bellimbusto marito di lei. Una vita buttata, in fin dei conti, dietro a illusioni e a doveri impliciti nella condizione femminile (e non solo) dell'epoca, e una tipica trama da romanzo d'appendice, quale Una vita del resto era, ma la magìa del film, pure lento e non scevro da pesantezze così come il precedente di Brizé, è di farci fare un viaggio nel passato e vivere atmosfere, suggestioni, luci di un'epoca lontana come se fossero attuali e reali, e non si tratta solo di verosimiglianza e di accurata ricostruzione di ambienti, ma di qualcosa di vero e di autentico e che traspare soprattutto dalla naturalezza della figura di Jeanne, e quindi dalla vita che le regala la bravissima Judith Chemla: il film è lei. 

giovedì 27 luglio 2017

L'infanzia di un capo

"L'infanzia di un capo" (The Childhood of a Leader) di Brady Corbet. Con Bérenice Béjo, Tom Sweet, Liam Cunningham, Stacy Martin, Yolande Moreau, Tom Pattinson e altri. Francia, Gran Bretagna, Ungheria 2015 ★★★★1/2
Il filmone di una notte di mezza estate francamente non me l'aspettavo, benché la pellicola d'esordio del giovane Brady Corbet 28 anni, finora attore (Melancholia di Lars von Trier, Funny Games di Michael Haneke, dai quali ha indubbiamente assorbito molto) fosse stata premiata a Venezia nel 2015 come miglior opera prima e miglior regìa nella sezione Orizzonti. Disturbante fin dall'inizio, con una colonna sonora di grandissimo impatto che, mostrando filmati d'epoca su episodi della Prima Guerra Mondiale, introduce il periodo dell'immediato primo dopoguerra durante il quale si svolgono i tre episodi in cui si suddivide questo inconsueto racconto di formazione del carattere di un leader, ciascuno dei quali illustra un passaggio chiave nell'evoluzione di Prescott, un ragazzino non ancora 12 enne, personaggio principale, magnificamente interpretato dal bravissimo Tom Sweet. Siamo in un punto di snodo cruciale per gli eventi del Secolo Breve appena trascorso, alla vigilia del Trattato di Versailles che, secondo la maggior parte degli studiosi, spalancò le porte prima alle dittature fasciste e, di conseguenza, al secondo conflitto mondiale (nonché, aggiungo io, al predominio dell'Impero Americano) e il giovane Prescott è figlio di uno stretto collaboratore del presidente USA Wilson (primo artefice del famigerato trattato) e di una madre, bella quanto rigida, figlia di un missionario tedesco, colta ma insoddisfatta, profondamente contraddittoria, che nasconde le proprie inquietudini dietro il beghinismo ma che probabilmente ha una tresca con un ambiguo giornalista amico di famiglia, dal quale con ogni probabilità ha avuto anche Prescott. In ogni episodio il ragazzino ha uno scatto d'ira che esprime tutto il suo disprezzo verso un'educazione e delle regole contro le quali non può ribellarsi ma che rifiuta profondamente: osservando le contraddizioni e le meschinerie degli adulti, e analizzandone con infallibile precisione ogni debolezza, alla fine riesce a manovrarli e comunque a imporre in qualche modo il suo carattere; non si tirerà mai indietro, nemmeno quando la madre gli toglierà sia la giovane educatrice, sia la anziana e dolce governante, l'unica persona a cui è veramente legato da affetto. Nell'epilogo lo vedremo contornato da una folla festante e protetto da un esercito fedele (potrebbe essere quello di una qualsiasi delle dittature del Novecento)l al culmine dell'esercizio del suo potere, mestiere per cui le vicende della sua infanzia lo hanno preparato a dovere. Il film è potente perché evoca sensazioni senza necessità di avvalersi di cervellotiche osservazioni psicanalitiche quando bastano l'interazione tra i personaggi e l'accenno di turbamenti per generare una tensione che si trasmette allo spettatore, né di eccedere nel dettaglio storico: è più che sufficiente l'ambientazione in una vecchia casa di campagna poco fuori Parigi, la descrizione della vita famigliare attorno al piccolo Prescott, e verso la fine, un improvviso raduno di diplomatici per un incontro "off the records" organizzato dall'alto funzionario americano tra i diplomatici delle varie parti in causa, lontano dalla sede ufficiale della conferenza, durante la cena che lo conclude le tensioni (e il gioco di potere) tra padre e figlio vengono definitivamente a galla, dimostrando la sostanziale debolezza del primo e la definitiva affermazione a fortificazione di Prescott, che d'ora in poi lo disconoscerà e troverà forza in sé stesso. Bravi tutti, a cominciare dalla Béjo, un'attrice vera, e Liam Cunningham, ma soprattutto il sorprendente regista. Uno che di strada ne farà parecchia. Da non perdere.

martedì 25 luglio 2017

Not in His Name

Questa non ve la perdono. Ormai siete precipitati al livello di Mondadori e Stampubblica. Dopo mezzo secolo, da Santa Tecla e Manzoni a Milano, troverò altre librerie in cui fare i miei acquisti

domenica 16 luglio 2017

Ius sòla

Formidabili: si commentano da soli. Altro trionfo pidiota, dopo averci scassato gli zebedei per un mese con quest'altra riforma pensata e scritta col culo. Oltre che cretini, farabutti e inetti sono pure dei pagliacci.

venerdì 14 luglio 2017

Migrazioni e dintorni - Quando i torni non contano

Tito Boeri, Presidente dell'INPS
Avevano suscitato un vespaio, una decina di giorni fa, le parole con cui Tito Boeri aveva illustrato in Parlamento il rapporto annuale dell'INPS, ente di cui è presidente, in particolare il presunto buco di 38 miliardi di € da qui al 2040 causato dai mancati versamenti di contributi previdenziali da parte degli immigrati in caso di chiusura delle frontiere precisando che si riferisce a quelli regolari, prescindendo quindi dalle attuali controversie su sbarchi e accoglienza; il "regalo" che farebbero al sistema quelli di loro che lasciano l'Italia prima di maturare i requisiti per la pensione, dimenticandosi che in questo caso sono vittime di un vero e proprio furto legalizzato da parte dello Stato italiano, un esproprio proletario al revés in cui è il lavoratore a essere rapinato dall'istituzione che dovrebbe proteggerlo dai soprusi; infine l'aumento del numero degli immigrati sotto i 25 anni, 35% dei contribuenti INPS, che è non del tutto casualmente vicino al 37% dei giovani italiani della stessa fascia d'età che risultano in cerca di lavoro, ossia disoccupati. Poi mi capita sott'occhio quest'altro pezzo uscito sul Sole-24Ore, ampiamente corredato da dati e cifre, in buona parte di fonte OCSE, che spiega come attualmente il numero di italiani che emigra all'estero sia pressoché uguale a quello dei primi anni del Dopoguerra o delle migrazioni di fine Ottocento (queste ultime, ci tengo a precisarlo, prevalentemente oltreoceano, in direzione di Paesi come Argentina, USA e Brasile dove era ed è in vigore lo ius soli, come si addice a quelli scarsamente popolati: eppure anche in quelli esistevano ed erano ferrei i controlli degli uffici immigrazione, come il Hotel de Inmigrantes a Buenos Aires ed Ellis Island a New York). Si tratta prevalentemente di giovani, ben più scolarizzati dei protagonisti delle precedenti ondate emigratorie. Se si pensa che formare un semplice diplomato costa allo Stato (e alle famiglie) 90.000 €, 150 mila un laureato e quasi 230 mila un dottore di ricerca, anche stando bassi se ne vanno così in fumo qualcosa come 30 miliardi di euro l'anno investiti nella formazione di persone costrette a trovare lavoro in Paesi come Germania, Gran Bretagna, Francia, Svizzera, Austria, USA di cui vanno a rimpinguare i sistemi previdenziali oltre che le casse dello Stato. Ma il professor Boeri lancia l'allarme per i 38 miliardi che verranno a mancare all'INPS nei prossimi 23 anni, auspicando la regolarizzazione di un numero di lavoratori stranieri, prevalentemente NON formati, o che verranno istruiti qui in Italia, se necessario, che compensino quelli italiani, in gran parte scolarizzati, emigrati all'estero facendovi circolare denaro e arricchendo le relative economie senza costo aggiuntivi per gli Stati. D'accordo, sono due cifre che esprimono cose diverse, non confrontabili in senso stretto, però il tutto rende l'idea che ci sia qualche incongruenza nel modo in cui viene presentata la cosa, e proposto il rimedio. Ché poi, bontà sua, il Boeri, dopo aver affermato che "abbiamo perciò bisogno di più immigrati", precisa che debbano essere regolari, aggiungendo che "Impedire loro di avere un permesso di soggiorno quando sono in Italia è la strada sbagliata perché li costringe al lavoro nero e li spinge nelle mani della criminalità", dimenticandosi innanzitutto che  a costringerli all'irregolarità è una legge demenziale che prevede il reato di clandestinità, alimentando da un lato una vera e propria tratta di schiavi e dall'altro un mercato che lo Stato non è in grado o non vuole combattere e spinge il costo del lavoro generale verso il basso, rendendo sempre meno appetibili i cosiddetti "lavori che gli italiani rifiutano" e sorvolando sul fatto che la stragrande maggioranza degli sbarchi in Italia è costituita da "migranti economici" e non da profughi (al di là del fatto che sono tutti, indistintamente, migranti "sistemici", ossia prodotti di un sistema economico quantomeno disfunzionale) di cui oggettivamente non si sentirebbe alcun bisogno se solo in questo Paese lo Stato facesse il "minimo sindacale" per potersi definire tale, ossia funzionasse con un minimo di decenza, non fosse sprecone e corrotto, devastatore di risorse, intorpidito da una burocrazia elefantiaca e da ipertrofia normativa, fiscalmente coerente e capace di una redistribuzione delle ricchezze e dei redditi appena decente. E, se ci fosse bisogno, nulla vieta di concedere visti regolari a chi ne fa domanda, compatibilmente con l'offerta; che, mi pare di ricordare, è il principio base che informa tutto l'ambaradàn del Libero Mercato sempre citato come l'Entità Suprema a cui tutto si deve adeguare. Tutto ciò a prescindere dagli interventi umanitari, dal salvare chi sta per annegare, dall'accoglienza vera e propria, doveri morali per chi li reputa tali ma che non vanno gabellati come delle impellenti necessità economiche senza cui un sistema pensionistico già miserabile e ingiusto di suo e che abbandona a sé stessi milioni di cittadini "che non rientrano nei parametri", destinati a crescere in progressione geometrica a forza di contratti precari, voucher e quant'altro, non sarebbe in grado di reggere. E a prescindere anche dal fatto che non si può pretendere di imporre la bontà, il volemose bene, la comprensione e l'immedesimazione col diverso per legge e considerare criminoso ogni atteggiamento non conforme, quando non si fanno rispettare le regole di base a chiunque si accolga oltre a non applicarle a sé stessi. 

mercoledì 12 luglio 2017

Le Ardenne - Oltre i confini dell'amore

"Le Ardenne - Oltre i confini dell'amore" (D'Ardennen) di Robin Pront. Con Kevin Janssens, Jeroen Perceval, Veerle Baetens, Jan Bijvoet, Viviane de Muynck. Belgio 2015 ★★★★+
Devo ammettere che da un noir belga, e fiammingo in particolare, non mi aspettavo un granché , e invece sono rimasto molto piacevolmente sorpreso dell'adattamento che Robib Pront, al suo esordio nel lungometraggio, è riuscito a fare della pièce teatrale di cui è autore proprio uno dei protagonisti, Jeroen Perceval, che nel film interpreta Dave, il fratello più ragionevole di Kenny, a cui si aggiungeva la fidanzata di quest'ultimo, Sylvie, a completare un terzetto di giovani sbandati della periferia di Anversa dediti alla droga e alle rapine per procacciarsela. Un colpo in una villa va male, Dave e Sylvie riescono a fuggire ma Kenny, un autentico psicopatico, viene beccato e condannato a sette anni di galera; non tradisce i suoi complici e dopo quattro anni lo fanno uscire. In questo periodo il fratello Dave è sempre andato a trovarlo regolarmente ogni settimana; Sylvie, dopo i primi due anni, ha smesso senza dare spiegazioni. Una volta fuori, tutto è cambiato: Dave ha smesso di bere e ha un lavoro regolare in un autolavaggio, Sylvie da due anni si è ripulita dall'eroina e frequenta un gruppo di aiuto per ex tossici e bevitori e ormai fa coppia con Dave con l'intenzione di mettere su famiglia (lei è pure incinta da poco) ma per il momento preferiscono non dirlo a Kenny per non sconvolgerlo subito con una novità di tale portata. Ma lui non è cambiato, e dopo essersi messo sulle tracce di lei ricomincia da capo con la sue intemperanze, tra risse, bevute, violenze, in cui coinvolge vieppiù il fratello, e di riflesso anche Sylvie, in un vortice autodistruttivo che non permette più alcuna spiegazione e rimedio. In realtà aveva intuito, se non capito, tutto e, seguendo la sua logica perversa ma ferrea, alla fine di un viaggio nelle tenebre che riporta i due fratelli nell'unico luogo dove siano stati felici, durante le estati della loro adolescenza, le Ardenne francofone, comunque un mondo "altro" rispetto a quello del degradato suburbio urbano a cui sono abituati, è l'unico che rimane vivo. Non vi è speranza, non vi è alcuna redenzione, nemmeno uno spiraglio eppure tutta la vicenda segue una logica implacabile, per quanto contorta possa apparire a una lettura superficiale, e non ha molto senso lamentare, come ha fatto qualcuno, che non avrebbe avuto molto senso la reticenza della nuova coppia a informare Kenny della situazione venutasi a creare: nella fattispecie. e con un personaggio come quest'ultimo, sarebbe stato impossibile farlo. Il film non si limita a essere un noir, peraltro di ottimo livello, cupo, incalzante, pieno di colpi di scena, implacabile, ma anche un notevole ritratto di psicologie problematiche e, da solo, un piccolo saggio sociologico. Ottima fotografia, molto convincenti tutti gli interpreti, anche l'accompagnamento di ossessiva musica elettronica contribuisce a creare inquietudine, e non lontano si odono echi di Tarantino e dei fratelli Coen, ma senza la sostanziale giocosità e ironia del primo e il disincanto sarcastico dei secondi: a loro Robin Pront deve molto, ma altrettanto ci ha messo di suo. Bravo!

venerdì 7 luglio 2017

Civiltà perduta

"Civiltà perduta" (The Lost City of Z) James Gray. Con Charlie Hunnam, Sienna Miller, Robert Pattinson, Tom Holland, Edward Ashley, Angus Macfayden e altri. USA 2016 ★★★+
Uno strano tipo James Gray, regista newyorkese di famiglia russa, di buona cultura e a sua volta amante del cinema di qualità, da Coppola a Scorsese passando per Kubrick, che passa da un esordio fulminante come Little Odessa a un film miserando come C'era una volta a New York, una delle mie più cocenti delusioni degli ultimi anni; ma siccome l'uomo possiede indubbie capacità dietro la macchina da presa, non ho avuto troppa difficoltà ad accordargli fiducia anche in considerazione delle scarse alternative offerte in sala in questo periodo cinematograficamente ingrato dell'anno. Qui poi ha a che fare con una storia vera, raccontata in un libro di successo da David Grann de The New Yorker, "The Lost City of Z", ossia una sorta di ossessione che aveva colpito Percy Fawcett, un maggiore dell'esercito britannico, archeologo ed esploratore, membro della Royal Archeological Society, inviato da quest'ultima una prima volta nella selva amazzonica a mappare il confine tra Brasile e Bolivia nei primi anni del 1900, e poi tornato altre volte, l'ultima nel 1925, dopo aver regolarmente combattuto in Francia nel corso del primo conflitto mondiale ed essere stato gravemente ferito, insieme al figlio primogenito Jack, da cui non fecero ritorno. Fin dal primo viaggio, Fawcett era convinto di avere trovato segni evidenti di una città nascosta nella foresta, la città di Z, che forse poteva aver e a che fare col mitico Eldorado cercato invano i conquistadores a caccia di ori quattro secoli prima, ma che sorpattutto sarebbe stato testimonianza di una civiltà perduta ma evoluta e raffinata, per certi aspetti anche più della nostra ma in ogni caso altrettanto degna. Posizione quest'ultima, in netto contrasto con quella prevalente in epoca vittoriana che vedeva negli indios come nei neri africani o negli asiatici e comunque in chi non fosse bianco degli incivili o al più dei sottosviluppati, quando non proprio dei subumani. Tra l'altro recenti rilevamenti fanno pensare che Fawcett avesse ragione e che una civiltà evoluta, rifugiatasi nel cuore dell'Amazzonia o in altre zone forestali del Continente Sudamericano fosse esistita. In Fawcett convivono il militare, fedele alle regole del suo rango e che non mette in discussione l'ordine costituito, nemmeno all'interno della famiglia, dall'altro un uomo curioso, aperto al mondo e al prossimo, assetato di conoscenza, capace di cogliere il nuovo, con accanto una moglie intelligente e di carattere, che si potrebbe definire protofemminista, di cui è innamorato ma che nonostante tutto la abbandona per lunghi anni per lunghi periodi e da cui trova però comunque sostegno e comprensione. Anche se ogni tanto Gray indulge un po' al polpettonismo, lo fa con discrezione, senza esagerare, mentre per il resto il film offre delle riprese spettacolari, con tratti da film d'azione che possono ricordare I predatori dell'Arca perduta ma in versione seria, pur senza giungere all'epica e alle esagerazioni del Fitzcrarraldo di Herzog, da cui pure ha tratto qualcosa come pure da "Cuore di tenebra" di Conrad a cui Coppola si era ispirato per quel capolavoro assoluto che è Apcalypse Now. All'altezza anche il cast, con ruoli ben distribuiti e personaggi ben tratteggiati: un buon film nel suo genere, in qualunque modo lo si voglia definire: azione storico, dramma. 

martedì 4 luglio 2017

Incubo Ladylike

Lo stato maggiore pidiota in rosa: Serracchiani, Madia, Morett e Boschi
Non so cosa sia venuto in mente al mio cugino che vive daunanda, agli antipodi e in mezzo ai canguri, di andare a scovare e pubblicare questa foto raccapricciante che ritrae le tre erinni pidiote descamisadas in bianco e la gorgone loro compare in blusa garibaldina, ma so che è stato un duro colpo vederle tutte assieme: immaginarsi ascoltarle! Così mi è sembrato giusto condividere l'agghiacciante esperienza. 

lunedì 3 luglio 2017

Trigesimo



3 giugno - 3 luglio 2017

Ancora commossi fino alle lacrime (di gioia) ricordiamo
quelli che 
"il Triplete"
"sul campo sono 35 scudetti"
"alla Juve Cristiano Ronaldo farebbe la riserva".
In attesa della prossima tranvata...