venerdì 21 giugno 2019

I carretti di Ascea


Il carretto passava
E quell'uomo gridava "Gelati".
Al 21 del mese I nostri soldi
Erano già finiti 


(i miei no, per fortuna ho ancora qualcosa da parte per i prossimi giorni...).

mercoledì 19 giugno 2019

I morti non muoiono

"I morti non muoiono" (The Dead Don't Die) di Jim Jarmusch. Con Bill Murray, Adam Driver, Chloë Savigny, Tilda Swinton, Steve Buscemi, Tom Waits, Danny Glover, Caleb Landry Jones, Selena Gomez, Iggy Pop e altri. USA 2019 ★★★½
I morti non muoiono: e infatti, a causa della smagnetizzazione dei Poli, risultato delle devastazioni ambientali a cui è sottoposto il pianeta, l'asse di rotazione della terra è mutato  e una delle conseguenze è la loro uscita in massa dalle tombe, a nutrirsi di carne umana e a rinnovare il famelico consumo, per lo più indotto, di tutti quegli oggetti che erano stati la loro fissazione quand'erano vivi, dallo chardonnay allo smartphone, dal wi-fi alla TV via cavo, dall'automobile agli psicofarmaci, dalla chitarra al caffè (quella brodaglia immonda che gli americani ingurgitano a litri: irresistibile Iggy Pop in versione zombie, che non ne ha mai abbastanza); in compenso a essere sostanzialmente morti, e comunque senza speranza, sono i vivi. Jarmusch, da sempre una sorta di poeta delle piccole cose, sceglie come punto d'osservazione un piccolo centro dell'Ohio, Centerville, 738 abitanti, "un posto tranquillo", come recita il cartello all'ingresso della cittadina, che è un microcosmo di ciò che sono gli Stati Uniti (e non solo) e per raccontare il disgusto che prova per come sia ridotto il mondo in cui viviamo (anzi: consumiamo) usa una parabola nonché il cliché dei morti viventi, potendo così anche prodursi in numerose citazioni cinematografiche (a cominciare da George Romero) e confezionando un film stralunato, grottesco, sfruttando un cast di prim'ordine per caratterizzare, con pochi tocchi, una galleria di personaggi-tipo che riassumono un po' tutta l'umanità. Che "finirà male" lo dice fin dall'inizio il giovane poliziotto Ronnie (Adam Driver, già protagonista dell'ultimo, bellissimo film di Jarmusch, Paterson) quando, di ronda col suo capo Cliff, un imperturbabile e umanissimo Bill Murray (mai abbastanza utilizzato dal cinema USA), si accorge che l'alternanza giorno-notte è stata stravolta: entrambi sembrano rassegnati al peggio, per quanto combattano con ogni mezzo i morti viventi (per eliminarli completamente occorre mozzare loro la testa, che poi va in fumo), ma tutti quanti i personaggi che abitano la cittadina, dal benzinaio al proprietario del Motel; dal ferramenta nero alle due donne che lavorano al Diner al farmer razzista sembrano correre verso l'ineluttabile: fanno eccezione Bob (Tom Waits, l'eremita che da anni vive nei boschi e assiste alla rovina che sempre previsto), tre ragazzini ospiti di un reclusorio minorile che riescono a dileguarsi in mezzo alla confusione e la neoproprietaria delle pompe funebri, uno bizzarro personaggio giunto dalla Scozia che si esprime con un linguaggio strano, che di morti se ne intende e sotto le cui sembianze si nasconde una donna-samurai (Tilda Swinton, e il riferimento a Kill Bill è evidente). Una fiaba amara, insomma, dove comunque si riesce a ridere; un film curioso e inconsueto, che può facilmente suscitare reazioni opposte: a me è piaciuto, perché il messaggio giunge forte e chiaro, Jarmusch i film li sa girare e gli interpreti sono tutti molto bravi e in parte. 

lunedì 17 giugno 2019

Micragnicittà - L'appello di Mauro Lovisa


A Pordenone, come a Sacile, ci si fa un punto d'onore di essere un'isola linguistica rispetto al resto del Friuli (con alcune altre eccezioni come Palmanova, Grado e Marano, la Bisiacherìa e, ovviamente, la Venezia Giulia), dove si parla in meneghel, ossia veneto coloniale, anziché in marilenghe; in qualche modo delle zone defurlanizzate, ma il parziale fallimento dell'esperimento del crowfunding PN2020, a sostegno del Pordenone Calcio, in vista del centenario della società l'anno prossimo, che coincide peraltro con la prima stagione in Serie B, conferma l'appartenenza della cittadinanza, e soprattutto della sua classe imprenditoriale, alla furlanità almeno per un aspetto: il braccino corto, ossia la taccagneria, che viene generalmente associata a chi ha origine in questa regione. Per colmo dei colmi, bisogna pure ringraziare i tradizionali rivali udinesi per l'ospitalità che concederanno ai Ramarri allo Stadio Friuli per le partite interne del prossimo campionato, che per la mancanza di uno stadio adeguato (problema che esiste da decenni, così come quello di un'adeguata arena per manifestazioni di genere non soltanto sportivo di cui la regione è priva: l'occasione è unica per decidersi a farlo). Mauro Lovisa, l'imprenditore che da presidente ha portato il Pordenone Calcio dall'Eccellenza alla Serie B nell'arco di una dozzina d'anni, è stato lasciato sostanzialmente solo dal grosso della città e dai suoi colleghi in particolare, eppure nel capoluogo di soldi ne girano parecchi, come testimonia il numero di istituti bancari e le finanziarie operativi in città. Apprendere (oggi sul Messaggero Veneto) dall'immarcescibile Michelangelo Agrusti, presidente dell'Unione Industriali, che la sua associazione ha acquistato quote del progetto per ben 10 mila euro e che continuerà nell'opera di moral suasion nei confronti degli associati che finora hanno risposto picche, non lascia ben sperare. E fa temere che la città non si meriti né la squadra in B né un dirigente appassionato e competente come Mauro Lovisa, a cui lascio la parola. 


“Ci siamo. Il 19 giugno si concluderà l’esperienza di Pordenone 2020, il progetto di crowdfunding con cui abbiamo cercato di coinvolgere in modo innovativo il territorio. Tre giorni ancora, da lunedì a mercoledì, in cui mi auguro in tanti verranno al Centro De Marchi. La raccolta, comunque, raggiungerà i 2 milioni 200 mila euro, somma importante (e portante) per affrontare nel migliore dei modi la prossima storica stagione di serie B. Lo farà però, e bisogna dirlo chiaramente, grazie ai 'soliti': a chi c’è sempre stato e chi ci sarà sempre, dal tifoso che con grandi sforzi ha messo la quota minima a chi, a titolo personale, sostiene il Pordenone senza chiedere nulla in cambio, lontano dai riflettori. A chi è già, insomma, vicino alla proprietà, a chi realmente ha il neroverde a cuore e nel cuore. Lo dico chiaramente, senza giri di parole, e con grande rammarico: non è stata purtroppo colta l’opportunità, unica, di vestire a tutti gli effetti questa maglia, entrare nel club e contribuirne, non solo con risorse ma anche con idee, alla crescita della società. Un progetto, il nostro, non di Mauro Lovisa, ma di tutti: di Pordenone e di un territorio intero, per Pordenone e per un territorio intero. Le istituzioni e le associazioni di categoria ci hanno seguito, hanno tifato e tifano per noi: tanti, però, hanno parlato e basta, si sono fatti belli con il Pordenone e la serie B, e al momento di dimostrare attaccamento con i fatti si sono chiamati fuori. Hanno fatto spallucce. 3 mila persone allo stadio con la Giana, 3 mila persone in piazza: possibile che solo in 250 abbiano deciso di diventare soci? Una risposta troppo fredda da una città dal grande potenziale, e penso in particolare all’imprenditoria, che può e deve dare di più in termini di appartenenza e coinvolgimento. Non solo finanziario.
A questo territorio, a questi colori io e i miei soci abbiamo giurato fedeltà. Negli scorsi mesi, com’è noto, altre sirene avevano risuonato. E forte. Nuove sfide, non l’abbiamo mai nascosto: a livello economico erano più convenienti. Abbiamo detto no. Per chi si è fatto chilometri tutto l’anno per stare vicino alla squadra, per chi è sempre presente, per chi ha versato una quota attingendo magari dal salvadanaio, per chi è tornato a versarne un’altra, per chi si è fatto ambasciatore di tifo con parenti e amici. Rinunciando, insomma, a qualcosa (tempo e denaro) di proprio per investire nei nostri colori, i suoi colori. Pordenone – ci siamo detti io, la mia famiglia e i miei soci – meritava di proseguire questa splendida storia per queste persone. Una storia di cui tutti noi siamo protagonisti. Archiviato il crowdfunding, si aprono nuovi orizzonti: mantenere la serie B, strutturarci per un salto di qualità a 360 gradi, lavorare per il nuovo stadio, confermarsi con il Settore Giovanile ai vertici nazionali e organizzare le attività del Centenario. Noi siamo pronti, ma lo dobbiamo essere tutti! Ci sono dunque nuove sfide davanti, stavolta da vincere: la campagna abbonamenti e le presenze allo stadio, pur consapevoli delle difficoltà di giocare fuori casa, e il sostegno generale al nostro progetto ci diranno se abbiamo fatto bene, e se facciamo bene, a credere sempre e comunque in Pordenone”.

martedì 11 giugno 2019

A mano disarmata

"A mano disarmata" di Claudio Bonivento. Con Claudia Gerini, Francesco Saverio Venditti, Mirko Frezza, Francesco Pannofino, Milena Mancini, Emanuela Fanelli e altri. Italia 2019 ★★=
Tratto dall'omonimo libro autobiografico di Federica Angeli, in cui la giornalista, divenuta celebre per le sue inchieste, denunce e testimonianze sulla mafia del Litorale Romano, in particolare Ostia, città dov'è nata, costretta a vivere sotto scorta dal 2013, quando furono pubblicate le sue prime inchieste, fino alle pesanti condanne inflitte al Clan Spada durante il processo del 2018, il film è purtroppo cinematograficamente mediocre, mentre come miniserie televisiva, magari da trasmettere su RAI1 in prima serata, avrebbe potuto funzionare, anche perché il tema meriterebbe l'attenzione di una platea ben più ampia di quella che frequenta le sale cinematografiche. Più che A mano disarmata la pellicola avrebbe dovuto intitolarsi Sotto scorta, perché tale la Angeli è stata per ben cinque anni, dopo aver subito le prime minacce dal capo del Clan Spada (qui trasformato in Costa) e di quanto quest'esperienza abbia stravolto la normalità della sua esistenza di moglie e madre di tre figli piccoli (non compresi nella protezione disposta dal prefetto) parlano sia il libro sia il film, più che della sua attività di cronista per il quotidiano la Repubblica (che sentitamente ringrazia per uno spot di tutto riguardo), mentre l'altro tema che salta all'occhio dalla vicenda, ma non viene per nulla evidenziato dal film, è dove cazzo stessero e cosa facessero le forze dell'ordine, altrimenti così solerti quando si tratta di reprimere manifestazioni sindacali o studentesche o di rimuovere striscioni che contestano il ministro dell'Interno, prima delle denunce della Angeli e delle inchieste giornalistiche, quando era noto a chiunque da anni che Ostia fosse completamente in mano agli Spada che gestivano, direttamente o indirettamente, qualsiasi attività della cittadina, legale e no, con la complicità di chi amministrava il X Municipio di Roma, di cui fa parte come frazione. Ora: quando oltre a intere regioni come Campania, Calabria, Sicilia, chi governa non è in grado nemmeno di controllare il territorio di una frazione della propria capitale, che dista meno di 30 chilometri dalla sede del governo nazionale, non si può propriamente nemmeno parlare di Stato, e qualche domanda è lecita porsela su chi è preposto a garantirne la sicurezza: il film non fa nemmeno questo sforzo. Si salvano la generosa interpretazione della Gerini, credibile anche per una certa somiglianza fisica con la Angeli, nonché romana come lei, e le intenzioni; come detto di gusto e (basso) livello televisivo tutto il resto, e sotto il minimo sindacale Francesco Venditti, figlio di cotanto padre (e cotanta madre, Simona Izzo, una convinta da sempre di essere un'artista, il che probabilmente spiega tutto) nella parte del marito della Angeli: ha l'espressività di un carciofo stracotto e insipido. 

domenica 9 giugno 2019

Juliet, Naked

Juliet, Naked - Tutta un'altra musica (Juliet, Naked) di Jesse Peretz. Con Rose Byrne, Ethan Hawke, Chris O'Dowd, Azhy Robertson, Lily Brazier, Ayoola Smart, Megan Dodds e altri. GB 2018 ★★★-
Dei romanzi di Nick Hornby, come dei film tratti dai suoi libri, anche quando, come in questo caso, non è direttamente coinvolto nella sceneggiatura e sono diretti da un regista (prevalentemente televisivo) americano, si può dire che sono come le canzoni di Luciano Ligabue: variazioni sul tema, che invariabilmente è quello di una generazione, quella che era giovane tra gli anni Ottanta e i primi Novanta, incapace di diventare adulta e rimasta sotto quasi ogni aspetto allo stato adolescenziale; si parla ovviamente dell'ambiente in qualche modo legato al mondo della scuola e/o della musica, diciamo piccola borghesia intellettuale mediamente progressista e mai davvero trasgressiva o ribelle, che non ha mai avuto grossi problemi di sostentamento. E che, ormai arrivata all'età del dattero, va avanti a sorridere compiaciuta di sé stessa e delle proprie piccole manie e debolezze, che si trasformano in tormentoni capaci di tenere in piedi una storia o, in questo caso, una commedia leggera, innocua, gradevole, carina. Quest'ultimo, a seconda delle occasioni, un aggettivo pari a un insulto, che vale una stroncatura in questo ambito, ma non in questo caso, poiché rimango del parere che ogni film vada contestualizzato in sede di critica e valutato in base a due parametri: l'occasione, ossia il momento in cui lo si vede, e le aspettative che si nutrivano. L'occasione è stato un caldo sabato pomeriggio udinese, con metà degli abitanti che si sono trasferiti sul litorale adriatico per il primo vero fine settimana estivo e l'altra metà ad affollare il centro storico all'ora del taj e degli aperitivi: in questi casi, in attesa di una birra gelata quando sul clar della sera le temperature tornano gradevoli, rifugiarsi al fresco di una sala cinematografica è la soluzione migliore. Ann, direttrice di un piccolo museo naturalistico in una cittadina balneare dell'Inghilterra meridionale, sulle soglie dei 40, ha una relazione, abitudinaria come la sua vita, con Duncan, un insegnante più o meno coetaneo che tiene un blog per i pochi fan di un'oscura star dell'indie pop statunitense anni Novanta, Tucker Crowe, scomparsa nel nulla dopo un unico disco di (relativo) successo, diventato però di culto tra i suoi adepti, che costituiscono una vera e propria setta di cui Duncan è il capo: ne è talmente ossessionato che quando viene in possesso di un demo di quel disco e ne pubblica l'entusiasta recensione, Ann, in via anonima, lo demolisce in un commento che, in privato, viene pienamente approvato dal redivivo Tucker Crowe (Ethan Hawke), un altro Peter Pan attempato come Duncan, che vive da qualche parte in un garage di una delle ex mogli nello Stato di New York con l'ultimo di una serie di figli di cui non si è mai occupato. Chi conosce Hornby avrà già capito tutto il resto, per cui non vado oltre altrimenti tolgo al lettore anche il gusto della sorpresa (si fa per dire, ovviamente). La sceneggiatura è quella che è: valida per una commediola rosa; gli interpreti adatti alle parti (Rose Byrne in verità un po' troppo smorfiosa), tutto politically correct, la colonna sonora impreziosita da una versione non banale di Waterloo Sunset (capolavoro dei Kinks) dello stesso Ethan Hawke giustifica la sufficienza a una pellicola che alla fine, dati "causa e pretesto", è risultata meno peggio di quel che temessi. N.B. il titolo, Juliet Naked, non allude a nulla di erotico, perché il film è castigato come pochi e Rose Byrne sprizza erotismo come una mormone, ma al disco che rese celebre Tucker Crowe.

giovedì 6 giugno 2019

L'angelo del crimine

"L'angelo del crimine" (El angel) di Luis Ortega. Con Lorenzo Ferro, Chino Darín, Mercedes Morán, Daniel Fanego, Luis Gnecco, Peter Lanzani, Cecilia Roth e altri. Argentina, Spagna 2018 ★★+
Da un film argentino, tra l'altro prodotto dai fratelli Almodóvar, mi sarei francamente aspettato di più, a maggior ragione perché ambientato nei primissimi anni Settanta, quando il Paese aveva già imboccato la strada per cadere nel tunnel di une delle dittature più brutali dell'intero XX Secolo e i prodromi del disastro erano già tutti in essere: sempre che, ispirandosi alla vicenda di Carlos Robledo Puch, il più famoso assassino seriale della storia locale, il regista abbia avuto intenzione di utilizzarla come paradigma dell'incoscienza  quasi infantile e della dissociazione tipica di quella società. In ogni caso, se uno non conosce a menadito gli avvenimenti che condussero alla Guerra Sucia e al conseguente Proceso de Reorganización Nacional, come si autodefinì la dicta-dura, non se ne accorge e pensa che si tratti, sostanzialmente, di un film biografico (per assonanza, mi viene alla mente un personaggio che incarnava il prototipo del “bello e dannato", ancora più fetente di Carlitos: Alfredo Astiz, l’ufficiale di marina noto come “L’angelo della morte”, che si presentava col suo aspetto da bravo ragazzo alle Madres di Plaza de Mayo conquistandone la fiducia per estorcere loro nomi degli amici e compagni dei loro figli desaparecidos). Nemmeno del tutto aderente al vero, peraltro: se il Carlitos interpretato dall'esordiente Lorenzo Ferro, presto stucchevole tanto è monocorde, un ragazzino con boccoli biondi, bocca e movenze sensuali, sguardo innocente e fattezze efebiche, quasi un ermafrodita, dietro a cui si cela non solo un delinquente per vocazione ma anche un'indole perversa e malvagia, assomiglia all'originale anche fisicamente, il personaggio del suo compare di scorribande, Ramón Peralta, anche lui allievo della scuola tecnica che frequentava, è completamente inventato: si chiamava Jorge Antonio Ibañez (Chino Darín, figlio di cotanto padre, da cui ha ereditato un buon talento e la presenza scenica) ed era molto più feroce del "bellone" che viene dipinto nel film, uno stupratore e un assassino spietato almeno quanto l'amichetto. Quello del “bello e dannato” è un vero e proprio filone del genere noir; declinato in forma biografica un esempio abbastanza recente è il Vallanzasca di Michele Placido, molto più capace di rappresentare un’epoca (più o meno la stessa, peraltro) al di là della mera ambientazione, con cui il Carlitos di Ortega ha delle similitudini (la provenienza da una modesta ma specchiata famiglia piccolo borghese, e l’essere dei ladri e criminali per vocazione), ma senza l'intelligenza, e motivazioni esistenziali e il retroterra a suo modo culturale (la ligera milanese e il suo codice d'onore) del bel René. Il film di Ortega ammicca sia al cinema dei suoi produttori, gli Almodováros, per gli elementi surreali e grotteschi a fare da corto circuito in una vicenda alla fine tragica sia, palesemente, sia a quello di Martin Scorsese, vedi anche l'utilizzo della colonna sonora d'epoca, composta da brani internazionalmente noti però cantati in versione argentina, ma siamo ben lontani dai modelli che l'hanno ispirato. Non un film da buttare via del tutto, ma troppo manierato e, nonostante l'azione, lento e noioso. 

martedì 4 giugno 2019

Get Back


In linea con le decisione ufficializzata cinque giorni fa di dimettermi da sostenitore del FC Internazionale in concomitanza dell'annuncio dell'arrivo sulla panchina nerazzurra del nuovo allenatore Antonio Conte, ho provveduto anche a disdire i pacchetti Calcio (per le 7 partite di Serie A rimaste a SKY, mentre la Serie B già dalla scorsa stagione era interamente passata a DAZN) e Sport (che trasmette Champions League, Europei, Premier League e Bundesliga; l'ormai noiosissima F1 nonché il motociclismo, di cui non me ne frega un cazzo come del tennis e men che meno di NBA, Football americano per non parlare del golf), risparmiandomi almeno l'equivalente di quanto mi costerà un abbonamento in tribuna centrale per l'intera prossima stagione di Serie B del Pordenone Calcio allo Stadio Friuli di Udine e pagarmi qualche birra per vedere al bar alcuni incontri di cartello. Per festeggiare l'evento, ho acquistato un libro che promette decisamente bene, in considerazione degli autori e dell'argomento: la rivalutazione del calcio d'antan rispetto alla merda che è diventato oggi quello di vertice, grazie alla sua gestione demenziale e soprattutto alla svendita alle logiche televisive, dello show biz e della pubblicità. It's better to Get Back...

domenica 2 giugno 2019

Il traditore

"Il traditore" di Marco Bellocchio. Con Pierfrancesco Favino, Maria Fernanda Cândido, Fabrizio Ferracane, Luigi Lo Cascio, Fausto Russo Alesi, Nicola Calì, Giovanni Calcagno, Bruno Cariello, Bebo Storti, Vincenzo Pirrotta, Pier Giorgio Bellocchio e altri. Italia, Brasile, Francia, Germania 2019 ★★★★★
Per un bellocchiano della prima ora come me non è stata una sorpresa che il Maestro aveva girato ancora una volta un film esemplare, rigoroso, appassionante e che ricostruendo senza sbavature una vicenda cruciale del nostro Paese e al contempo la vita del personaggio che ne fu protagonista, Tommaso Buscetta, indicato come il primo e più importante "pentito di mafia", e che vi avrebbe trovato tutti quegli elementi che da sempre sono oggetto del suo interesse: famiglia, potere, corruzione, perbenismo, religione, ruolo della donna, senso di colpa e quello, sempre presente, e non è un gioco di parole, quello dell'assenza (elenco delle tematiche care  Marco Bellocchio che avevo elencato in occasione dell'uscita di Fai bei sogni, tre anni fa), a cui aggiungo quella del doppio, che percorre tutta la pellicola e comincia dal titolo. Perché agli occhi dell'autore, e anche miei, il vero traditore alla fine non è Don Masino, bensì Pippo Calò, passato ai corleonesi di Totò Riina, colpevole non solo di non avere protetto i figli che Buscetta gli aveva affidato mentre si trovava in Brasile, dove si era rifugiato, ma di averli uccisi e aver permesso che venissero ammazzati in totale 11 suoi parenti nella "seconda guerra di mafia" che insanguinò Palermo negli anni Ottanta. Il film ripercorre quella vicenda, il tentativo di uccidere Buscetta durante la sua latitanza, il suo arresto in Brasile e il tentativo di suicidio con la stricnina fino all'incontro con Giovanni Falcone e alla decisione di svelare la struttura della cupola mafiosa proprio in quanto "uomo d'onore non pentito", perché considerava la mafia vincente, quella dei corleonesi capeggiati da Riina, quella che ne aveva tradito lo spirito originario, arrivando a eliminare donne e bambini, comportamento inammissibile per Cosa Nostra delle origini, e non erano ancora avvenute le stragi di Capaci e Via D'Amelio: arriverà anche quel momento e Don Masino, che già viveva sotto copertura negli USA dopo il primo mega processo di mafia istruito da Falcone, tornerà in Italia e testimoniare anche in quello contro Andreotti per le sue collusioni con l'organizzazione e in particolare i rapporti strettissimi con i Salvo. Non mancano i flash back, per inquadrare ancora meglio il personaggio, amante delle donne e della bella vita più che del potere (tre mogli, otto figli, innumerevoli amanti), alcune scene madri che fanno venire in mente sia Il Gattopardo sia i Padrini di Coppola ma pur sempre nell'ottica bellocchiana, attenta alla psicologia del personaggio (e di quelli che gl stanno attorno) e ai suoi aspetti patologici. Come sempre la grandezza del regista si evince non soltanto nella qualità tecnica, nell'ambientazione, nella qualità dei dialoghi, nella solidità della sceneggiatura e nell'assoluta padronanza dei tempi cinematografici, ma anche e soprattutto nella scelta degli interpreti: Pierfrancesco Favino, attore di una straordinaria duttilità e misura, è un Tommaso Buscetta perfino più credibile di quello vero; ad affiancarlo e fargli da contraltare Luigi Lo Cascio nei panni dell'amico Totuccio Contorno, tanto diverso da lui pur essendo suo sodale, e una schiera di altri attori eccezionali, tra i quali spiccano Fabrizio Ferracane, Fausto Russo Alesi, Nicola Calì, Giovanni Calcagno, Vincenzo Pirrotta, Bebo Storti, Pier Giorgio Bellocchio nei panni, rispettivamente, di Pippo Calò, Giovanni Falcone, Totò Riina, Tano Badalamenti, Luciano Liggio, l'avvocato Coppi e Cesare, il capo scorta di Buscetta. Quando si dice un filmone: vero cinema. Che di conseguenza è stato ignorato, così come chi vi ha recitato,  dalla giuria del Festival di Cannes, ormai nulla più che una passerella per fighette. Mi auguro che il pubblico la pensi altrimenti.