mercoledì 27 febbraio 2019

Copia originale

"Copia originale" (Can You Ever Forgive Me?) di Marielle Heller. Con Melissa McCarthy, Richard E. Grant, Dolly Wells, Jane Curtin, Ben Falcone, Julie Ann Emery, Anna Deavere Smith, Stephen Spinella e altri. USA 2018 ★★★½
In tempi in cui non si fa altro che parlare di Fake News, un film su Lee Israel, basato sul libro che lei stessa scrisse per raccontare come sia diventata, per necessità, una audace e immaginifica falsaria di lettere private di attori e scrittori di successo, casca a fagiolo. Giornalista free lance e scrittrice newyorkese di origine ebraica di buon talento, già autrice di biografie di personaggi famosi, nei primi anni Novanta viene licenziata perché beve sul lavoro (nell'editoria: corregge bozze e fa ricerche d'archivio) e per un vaffanculo di troppo ai suoi capi e colleghi e già per questo mi va subito a genio ed entra nelle mie simpatie, oltre che per il carattere di merda, la misantropia, la schiettezza, il linguaggio colorito e la battuta pronta, l'amore per i gatti. E' soprattutto quest'ultimo, oltre alla necessità di racimolare qualche quattrino per pagare l'affitto dell'appartamento, infestato da mosche, dove vice da anni nel totale disordine, a portarla all'idea geniale di aggiungere qualcosa di suo alla lettera privata di un'attrice ormai deceduta per renderla più interessante all'acquirente di cimeli e rarità d'autore: deve saldare una parte degli arretrati alla clinica veterinaria perché accetti di curare l'amata gatta Jersey, vittima di un'infezione. Si specializza così nella creazione di lettere "d'epoca" di personaggi come Noël Coward, Marlene Dietrich, Catherine Hepburn e altri, battute con macchine da scrivere anch'esse d'antan, fino ad arrivare a trafugarne gli originali negli archivi delle biblioteche sostituendoli con le sue creazioni: fantasia e qualità non le mancano, ma a patto di non mettere in gioco sé stessa e nascondendosi dietro alla personalità di altri, e di questa incapacità di raccontarsi ed esprimere i propri sentimenti l'accusano sia la sua agente, sia la ex amante, oltre che del carattere burbero, dell'amore per il whisky and soda e della totale mancanza di diplomazia. Compagno di sbronze ma anche di complicità, perfino nell'attività illecita, Jack Hock, un allampanato dandy inglese gay, amorale e sessuomane, con cui riesce a stabilire un rapporto umano che funziona al di là del fatto che lui sarà costretto a "tradirla" quando lo FBI si metterà sulle loro tracce, e la coppia di attori che li interpreta, Melissa McCarthy e Richard E. Grant, funziona altrettanto alla perfezione. E' questo il punto di forza del film, assieme alla rievocazione di New York com'era ancora trent'anni fa e al sempre attuale e stimolante da investigare rapporto fra realtà e finzione. E funziona anche il film, pur non essendo un capolavoro. 

venerdì 22 febbraio 2019

Le nostre battaglie

"Le nostre battaglie" (Nos batailles) di Guillaume Senez. Con Romain Duris, Laure Calamy, Laetitia Dosch, Lucie Debay, Basile Grunberger, Lena Girard Voss, Dominique Valadié, Sarah Lepicard e altri. Belgio, Francia 2018 ★★+
Trattare il mondo del lavoro, la crescente alienazione e le sue ripercussioni a livello privato è sempre benemerito e sembra la cifra tipica del cinema belga, impersonato dai fratelli Dardenne e, in questo caso, da Guillaume Senez, giunto al suo secondo lungometraggio. Non mancano i consueti ingredienti: grigie periferie, in questo caso dell'Alvernia, in Francia; un certo inceppamento dei rapporti personali e nella comunicazione tra le persone che portano alla mancata percezione dei segnali di cedimento da parte di uno dei protagonisti e al conseguente sviluppo dei sensi di colpa di quello che non li avverte e alla loro espiazione. Il consueto schema si ripete, discretamente ripetitivo, trattando la vicenda di Olivier, un credibile Romain Duris, giovane operaio sindacalizzato, capo squadra in una grossa azienda di immagazzinamento e distribuzione tipo Amazon, che si sente responsabile per non avere comunicato di persona all'interessato l'intenzione dei responsabili delle risorse umane di liberarsi di un ultracinquantenne in esubero che finisce per suicidarsi, e al contempo non si avvede, nella sua dimensione casalinga, della depressione che sta colpendo la moglie al punto da indurla a fuggire e mollare la famiglia e sparire, di punto in bianco e senza lasciare traccia, spiegazioni né indirizzo, addossandogli l'incombenza, che non era più in grado di sostenere, di occuparsi dei due figli in età scolare e di asilo e delle faccende di casa. Il film racconta della sua difficile presa d'atto della situazione, e del modo in cui cerca, anche con l'aiuto della madre e grazie alla provvidenziale visita di una sorella estrosa e capace di fargli capire il possibile, diverso punto di vista femminile (interpretata da Laetita Dosch, anche un po' troppo sopra le righe con la caratterizzazione) di conciliare la sua vita privata con quella lavorativa e l'attività sindacale, che alla fine decide di abbracciare a tempo pieno accettando di trasferirsi, su incarico dell'organizzazione, a Tolosa, una volta accettato l'abbandono della moglie come espressione di un disagio profondo e della necessità di "ritrovarsi": una sorta di "pausa di riflessione" non concordata, insomma, che lascia aperta la porta a un ritorno. In che termini e con quali prospettive di riuscire a conciliare vita lavorativa, attività sindacale per di più a tempo pieno e relazioni famigliari non è dato sapere, e Senez non ce lo suggerisce. Il tutto, detto francamente, con quel più di lentezza e di dialoghi che più vogliono parere autentici e più risultano artificiosi, tipici del cinema francese. Quindi non disprezzabile, ma non ci siamo. E palloso anziché no, ma non è nemmeno giusto infierire.

martedì 19 febbraio 2019

La paranza dei bambini

"La paranza dei bambini" di Claudio Giovannesi. Con Francesco Di Napoli, Artem Tkachuk, Alfredo Turitto, Viviana Aprea, Valentina Vannino, Pasquale Marotta, Luca Nacarlo, Carmine Pizzo, Ciro Pellecchia, Aniello Arena, Renato Carpentieri e altri. Italia, Francia 2019 ★★-
Prima di esprimere un giudizio su questo film appena premiato alla Berlinale per la migliore sceneggiatura (? Chissà com'erano le altre...) ho lasciato trascorrere alcuni giorni per far sedimentare l'immediata reazione di irritazione; ma la prima impressione, tra sconcerto e disappunto, è rimasta inalterata, pur trattandosi di una pellicola a suo modo ben congegnata e ben girata, per quanto ormai rientrante in un vero e proprio genere a sé stante, quello di Gomorra e delle serie televisive che ne sono derivate, al contempo confermando tutte le riserve e perplessità che mi suscita Roberto Saviano, autore del romanzo omonimo da cui è tratto nonché, in questa occasione, della sceneggiatura; un personaggio che più passa il tempo e meno mi piace, ambiguo esattamente come mi è risultato La paranza dei bambini portato sul grande schermo. Che, a mio parere, si riduce a essere, né più né meno, che una versione aggiornata de I ragazzi della Via Pál in salsa partenopea, con la differenza che i giovani protagonisti, per carità, tutti interpretati in maniera assai efficace da ragazzi non professionisti scelti tra abitanti del Rione Sanità i quali, apprendisti guappi fin dalla più tenera età e che non vedono l'ora di entrare nel grande giro del Sistema camorristico, non si limitano a entrare in guerra coi coetanei quartierini (quelli dei Quartieri Spagnoli), ma anche con i capibastone foresti che hanno usurpato quelli locali, la famiglia Striano, cui Nicola, il quindicenne a capo della "paranza" di sei ragazzini, figlio della titolare di una tintoria che deve pagare il pizzo, è rimasto fedele. Ché erano camorristi "buoni", gli Striano, che non vessavano gli ambulanti e negozianti del rione: si limitavano a spacciare droga a quintali. E non solo: per comprare scarpe e vestiti alla moda e l'ultimo modello di smartphone, con cui passano il tempo a farsi selfie con la lingue di fuori o che usano per postare video sulle loro gesta, le loro frequentazioni altolocate o sulle armi che maneggiano, nonché procurarsi un tavolo o meglio un privé nella discoteca alla moda, ci vogliono un sacco di soldi (e ovviamente nessun genitore a chiedersi da dove cazzo ne arrivino a paccate, così come a dare per scontato che la propria prole non frequenti le scuole nemmeno per caso o si tatui più, e soprattutto peggio, di un maori o le ragazze si agghindino da zoccole) e così comincia l'apprendistato: dal piccolo spaccio davanti alle scuole, al taglieggiamento, alla riscossione del pizzo, alle minacce, all'omicidio: Nicola, che per altri aspetti è tenero dolce con la fidanzatina e protettivo sia col fratello minore sia con la madre semideficiente, ci arriva travestendosi da donna e accoppando uno dei capi dello spaccio che aveva cacciato di casa lui e la sua paranza. Tutta un'escalation che porta la banda al cospetto del Grande Capo (interpretato da Renato Carpintieri), agli arresti domiciliari e proporgli da pari a pari di ripulire la "piazza" dagli intrusi, e questi non si fa problema ad armarli di tutto punto con l'artiglieria leggera e pure pesante. L'unico aspetto interessante del film è la commistione tra innocenza e ferocia, la naturalezza e la scontatezza, se si vuole tipica dell'adolescenza, con cui si passa da uno stato d'animo all'altro, senza rendersi ben conto delle conseguenze delle proprie azioni; ma quello che sembra predominare su tutto, oltre al fatto di "non voler giudicare", è un'estetica, per l'appunto, da tatuati, selfisti, puttanoni, depilati, palestrati, cocainomani, tamarri, in una vicenda che sa di sceneggiata napoletana 2.0, dove da una parte si racconta di una realtà orripilante che sembra ormai irrecuperabile, dall'altra la si infarcisce con una romantica storia d'amore tra adolescenti, quella tra Nicola e Letizia. E allora uno si domanda quale sia il senso dell'operazione e quale lo scopo, visto e considerato il ruolo di testimonianza, denuncia e, quindi, del tutto politico che si è assunto Roberto Saviano, ragion per cui diventa giocoforza politico anche il giudizio sul prodotto cinematografico, che non può limitarsi a essere estetico o meramente tecnico. Le palle mi sono definitivamente cadute quando gli ho sentito augurarsi che i coetanei dei protagonisti vadano a vederlo, e invitare gli insegnanti a portarli al cinema a farlo: se tutto il mondo è Paese, ovvero Napoli, come ha affermato su SKY, mi chiedo quale messaggio possano recepire i quindici-sedicenni "fratelli" di questi qua da un film dove bande di coetanei pieni di soldi scorrazzano in sciami su motorini (targati) per cui non hanno nemmeno la patente senza mai un casco in testa, cosa che non è del tutto abituale nemmeno a Napoli, almeno sul lungomare, gli adulti poco più che macchiette, e dove le due volte che si vede qualcuno in divisa si tratta di una coppia di metronotte cui due della paranza sottraggono la pistola e dell'intrusione di un gruppo di agenti della mobile durante la festa di matrimonio di camorra per arrestare alcuni esponenti del clan e che vengono ingiuriati da tutti i presenti: mi piacerebbe sapere cosa ne pensano gli agenti di scorta a Saviano. E i napoletani che non si ritrovano in una rappresentazione così univoca e di maniera della città: non stupisce che in un festival tedesco, quando già anni fa in Germania l'Italia era stata messa in copertina con una P38  su una pizza, e dove l'immagine del Paese non esce dalla triade spaghetti-mafia-mandolino, un film del genere abbia avuto successo e sia stato premiato.

domenica 17 febbraio 2019

Martiri cristiani


 Giordano Bruno, Nola 1548 - Roma, Campo de' Fiori,      17 febbraio 1600

sabato 16 febbraio 2019

Il primo re

"Il primo re" di Matteo Rovere. Con Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Fabrizio Rongione, Tania Garribba, Massimiliano Rossi, Vincenzo Pirrotta, Michael Schermi, Max Malatesta, Vincenzo Crea e altri. Italia, Belgio 2019 ★★★★
Devo ammettere che i trailer de Il primo re non mi avevano granché invogliato ad andare a vederlo: pensavo che, come Sin City o 300, riadattati da dei fumetti, fosse prodotto come questi con una tecnica ibrida, senza raggiungerne le vette, impiegando ampiamente la digitalizzazione per ritoccare le interpretazioni dei vari personaggi e ricreare artificialmente uno sfondo naturale e invece, senza ricorrere a particolari trucchi, si tratta di un film con riprese dal vero, che si svolgono in un ambiente rurale e silvestre che ricrea le condizioni in cui si dovettero trovare le popolazioni che, nell'8° secolo A.C., vivevano sulle sponde o nelle vicinanze del Tevere: in seguito a una violenta alluvione del fiume, due fratelli si ritrovano senza le loro greggi e il resto della loro tribù spiaggiati nel territorio delle nemica e potente Alba Longa; catturati, resi schiavi e costretti a combattere tra di loro: con un'astuzia, prendono in ostaggio Sitnei, la sacerdotessa che custodisce il fuoco sacro della dea Vesta, liberano i loro compagni di prigionia sabini e con essi decidono di scappare attraverso una temibile foresta percorsa da animali feroci e pattuglie nemiche che lo sono altrettanto se non di più e che si sono gettate al loro inseguimento: si tratta di Romolo e Remo, corre l'anno 753 e la vicenda rievoca, attraverso il racconto della loro rocambolesca fuga, i prodromi della vicenda che portò alla fondazione di Roma, il 21 del mese di aprile cementificando l'unione di un serie di tribù schiavizzate dagli albesi che scelsero il loro re in Romolo. Che uccise sì Remo, come profetizzato da Sitnei: dei due sarebbe rimasto uno, ma che a Remo doveva la vita, non solo per averlo amorevolmente assistito quando era rimasto ferito dagli albesi, ma soprattutto difeso dai compagni di fuga che avrebbero voluto sacrificarlo e che lo consideravano un peso morto; a differenza di Romolo, però, Remo non era timoroso degli dei e, anzi, rivendicava una società che ne fosse priva e lo considerasse il suo re, ossia lui stesso, come una sorte di divinità, e quindi non esitò a sfidare le profezie della vestale. Sappiamo come andò a finire, almeno secondo la leggenda. Ebbene: la pellicola è avvincente, un vero film d'avventura e d'azione, che ci riporta di peso e ci immerge in un contesto che viene reso con grande verosimiglianza, e molto lo si deve alla superba fotografia e ai giochi di luce, completamente naturali, creati da Daniele Ciprì ma anche alla credibilità degli interpreti e alle loro espressioni; ad accrescere l'atmosfera avvolta da un'aurea di magìa e di superstizione il parlato in proto latino, di cui si riesce a cogliere più di un'eco nell'italiano odierno, anche se ovviamente non si capirebbe nulla se il film non fosse sottotitolato. Una bella sorpresa, felice di essere stato smentito!

giovedì 14 febbraio 2019

The Mule (Il corriere)

"The Mule (Il corriere)" di Clint Eastwood. Con Clint Eastwood, Bradley Cooper, Laurence Fishbourne, Michael Peña, Dianne Wiest, Taissa Farmiga, Andy García, Alison Eastwood e altri. USA 2018 ★★★★
Sarebbe ora che gli USA facessero scolpire il volto, unico nella sua espressione rimasta intatta da quando esordì come attore nel 1955, a 25 anni, fino a oggi che veleggia verso i 90, di Clint Eastwood sulle pareti del monte Rushmore, dove campeggiano le effigi dei presidenti americani: ha fatto più lui per rendere il suo Paese meno indigesto in giro per il mondo che tutti i governi USA degli ultimi settanta anni messi insieme; nel senso che ne compendia da solo tutti i lati positivi o, quanto meno, non disprezzabili anche quando non condivisibili. Non so se questo suo ultimo film da regista e da protagonista possa considerarsi il suo lascito testamentario o l'addio alle scene, assimilandolo a Old Man & The Gun di Robert Redford, con cui peraltro ha più di un punto in comune anche per la vicenda (tratta da una storia vera) che racconta, ma con risultati e una profondità del tutto diversi: conoscendo la tenacia dell'uomo, finché conserva la salute e la lucidità mentale testimoniata anche qui, è lecito sperare di no; in caso contrario, l'addio sarà stato degno della sua fama e, al contempo, l'intramontabile Clint ha fornito l'indicazione di un successore all'altezza: Bradley Cooper, che peraltro ha esordito alla regìa con un botto quale A Star Is Born, che ne ha confermato talento e qualità. Earl Stone è un appassionato floricultore, specializzato in emerocallidi (fiori che vivono un solo giorno) con cui la sua famiglia (moglie e figlia, quest'ultima interpretata dalla vera figlia di Clint, Allison), ha rotto da anni perché lui l'ha sempre trascurata cercare il proprio posto nel mondo attraverso il suo lavoro e quel che lo circonda: esposizioni, fiere, feste, riunioni, e tanta, tanta strada attraverso quasi tutti gli Stati della Federazione, senza mai prendere una sola multa in oltre mezzo secolo di attività, a partire dalla Guerra di Corea, di cui è un veterano. Quando la sua attività fallisce, perché messa in crisi dall'arrivo di internet, attraverso cui avvengono ormai quasi tutti gli ordini e le consegne, proprio per le sue caratteristiche di insospettabilità in considerazione dell'età e di affidabilità nella guida, diventa man mano il corriere di fiducia del cartello messicano di Sinaloa, quello che fa le consegne più voluminose nell'Illinois e in particolare nell'area urbana di Chicago, e così trova il denaro necessario per riprendersi la casa pignorata, tenere in piedi l'associazione dei veterani di guerra di cui è socio e soprattutto pagare gli studi a Ginny, la nipote, unica della sua famiglia con cui è rimasto in contatto. A inseguirlo, nel tentativo di stroncare il traffico, un agente speciale della Dea, impersonato da Bradley Cooper. Non voglio svelare nulla, anche se la trama è relativamente prevedibile ed è stata raccontata altrove, comunque il film, girato comunque con maestria, si può leggere su più livelli, a cominciare dal contrasto tra vecchio e giovane, nuovo e antico, vero e posticcio; quel che mi preme dire è che Eastwood, come sempre, non giudica e non si fa intrappolare dall'ovvio e men che mai dal "politicamente corretto": l'amore per la vita, per la libertà e per l'autenticità sono sempre le stesse, quel che conta è l'individuo, che trova sempre il modo di ragionare e mettersi nei panni di un altro, soprattutto rimanendo sé stesso, e l'idea è che non esista un morale unica e predefinita (vedasi l'incontro col boss del cartello, un meraviglioso cameo di Andy García, come tra due esponenti della "vecchia guardia" che si intendono al volo), ma soltanto un'etica individuale e una responsabilità personale, e che si è sempre in tempo a riconoscere e, se possibile, rimediare ai propri errori, di cui comunque un Cavaliere Pallido come quelli a cui ha sempre dato voce e volto Clint è sempre pronto a pagare il conto. Nella sua semplicità, sincerità, onestà profonda quest'uomo, prima ancora che come artista, mi è sempre piaciuto; non so chi l'abbia detto o scritto ma condivido: quando se ne andrà, e mi auguro il più tardi possibile, ci mancherà tantissimo e lo rimpiangeremo. Io, per stima e per gratitudine, per quel poco che conta, gli riconosco il massimo dei mei voti; non perché sia il suo film più bello ma perché li riassume tutti. Musica compresa, che è sempre ad alto livello. Perché Clint Eastwood è un uomo in blues, in tutto e per tutto, nero nell'anima.

martedì 12 febbraio 2019

La tempesta


"La tempesta" di William Shakespeare. Uno spettacolo per attore, fantocci, figure animate e musica di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Parole e voci di Ferdinando Bruni; servi dell'isola Filippo Renda e Saverio Assumma. Musica, suoni e rumori di Mauro Ermanno Giovanardi, Fabio Barovero, Gionata Bettini; sculture di scena Giovanni De Francesco; luci Nando Frigerio; fonico Giuseppe Marzoli. Produzione Teatro dell'Elfo. Al Teatro Elfo/Puccini di Milano fino al 24 febbraio 2019
Felicissima la scelta di riproporre, a 14 anni di distanza dal suo debutto, il magnifico e originalissimo adattamento che Francesco Frongia e Ferdinando Bruni hanno ideato dell'ultima e tra le più rappresentate opere di Shakespeare, col primo alla regìa e il secondo quanto mai mattatore, a dare la voce a tutti i personaggi del celebre dramma, marionette di cui manovra i fili facendole interagire, pur mantenendo il ruolo di voce narrante che è quella di Prospero, Duca di Milano ed esperto in arti magiche, spodestato dal fratello Antonio e abbandonato assieme alla figlioletta Miranda su un'isola in cui vive in esilio. E' sulla spiaggia di questa che entra in scena Bruni, agghindato come un imbonitore da fiera, spingendo un carretto, a simboleggiare una nave, e dai bellissimi e inquietanti pupi opera di Giovanni De Francesco, cha anima con l'aiuto di due servi di scena, e impersonando Prospero invoca una tempesta che faccia naufragare sull'isola fatata, popolata anche dallo spiritello Ariel e dal mostro Calibano, il fratello cospiratore Antonio e tutti coloro che lo avevano aiutato a usurparne il ruolo, tra cui il re di Napoli Alfonso e suo figlio Ferdinando. Sono gli accadimenti successivi all'incantesimo, animato dal sentimenti di vendetta e che sfocia successivamente in un perdono generalizzato dopo aver fatto una disamina sulle contraddittorie pulsioni che muovono l'animo umano (compreso il proprio) che Prospero racconta alla figlia Miranda, ormai diventata giovinetta in età di marito e dopo che sarà scoppiato l'amore tra lei e Ferdinando, a suggellare la riconciliazione e l'ormai inutile ricorso alla magia. Lo spettacolo si conferma di una suggestione unica, capace com'è di evocare, attraverso l'espediente della magia, un altrove che è sia fisico sia mentale, un fuori da sé che è un oltre, una dimensione diversa, e che viene reso dalla potenza evocativa del gioco di luci e di suoni, nella quale si inserisce la talentuosa versatilità vocale di cui Bruni aveva già dato prova in un one man show come Una serie di stravaganti vicende incentrato sulla figura di Edgar Allan Poe, sempre messo in scena all'Elfo nella penultima stagione, ma non solo di esercizio di virtuosismo si tratta, ma anche e soprattutto di capacità di lettura dell'opera, ricavandone le suggestioni essenziali, e che si evidenzia nella scelta di rappresentarla, attraverso il teatro dei pupi, nella maniera più semplice, immediata e comprensibile, in modo che il messaggio di Shakespeare sulla natura dell'anima umana arrivi immediatamente a chiunque, il tutto in 75' di rara intensità e coinvolgimento. Del resto, se il teatro è magìa, quale testo meglio de La tempesta a darle corpo?

martedì 5 febbraio 2019

Green Book

"Green Book" di Peter Farrelly. Con Viggo Mortensen, Mahershala Alì, Linda Cardellini, Sebastian Maniscalco, Dimeter D. Marinov, P.J. Byrne e altri. USA 2018 ★★★★★
Ammetto che, per la sola presenza di Viggo Mortensen, da me soprannominato "Rigor",  nella parte principale, ero piuttosto prevenuto nei confronti di questo film; poi, incoraggiato da un'amica di cui cinematograficamente mi fido e in considerazione del fatto che l'autore sia il genio che ha girato, col fratello Bobby, Scemo più scemo e Tutti pazzi per Mary, insomma una garanzia, sono andato a vederlo, per di più in lingua originale, ed era da tempo che non mi divertivo così tanto vedendo una pellicola che è Vero Cinema, spettacolo allo stato puro. Commedia con quel tocco di demenziale e beffardo che è il marchio di fabbrica Farrelly, racconta la storia vera dell'amicizia nata tra il musicista nero Don Shirley e Tony Vallelonga (diventato in seguito attore con Cimino, Coppola, Scorsese e famoso per una parte da boss nei Sopranos) nel 1962, quando quest'ultimo, che faceva il buttafuori al Copacabana, un famoso locale di New York dove si esibivano le stelle di allora, tra cui Sinatra e Bennett, lo accompagnò, quando il locale venne chiuso per un periodo per motivi di ordine pubblico fatti passare per lavori di ristrutturazioine, per una tournée di due mesi negli stati del Sud come autista e, poi, tuttofare e, di fatto, road manager. Quando si dice che gli opposti si attraggono, dando vita a una di quelle strane coppie che sono state spesso il sale del cinema USA al suo meglio e hanno fatto la sua storia: Viggo Mortensen, che qui ha sacrificato il suo fisico scultoreo e di cui torna buona l'espressione spesso pietrificata e un po' stranita, dà vita a un italoamericano con un marcato accento del Bronx, sposato con figlia e con chiassosa parentela che viene dipinta volgendo al positivo, per una volta, i luoghi comuni; incolto, volgare, che si nutre esclusivamente di spaghetti, pizza e fast food, preferibilmente con le mani ma pieno di quel buon senso che affina chi è cresciuto sulla strada in un quartiere difficile, con i suoi bravi pregiudizi razzisti ma, tutto sommato, un cuore d'oro, mentre Mahershala Alì impersona il talentuoso pianista classico afroamericano Doc Shirley (bambino prodigio d'origina giamaicana, da qui la pronuncia oxfordiana, più che semplicemente british: aveva perfino studiato al conservatorio di San Pietroburgo pochi anni prima della Rivoluzione), uomo di cultura vastissima, estremamente raffinato, che parlava cinque lingue, plurilaureato, e che viveva in un lussuoso appartamento sopra la Carnegie Hall. E' la casa discografica a ingaggiare Tony, selezionato però da Doc in seguito a un colloquio telefonico con sua moglie, che gli affida il musicista, che intende convertire dal classico, che con un nero non funziona, a una musica più popolare, venata di jazz di facile ascolto, assieme al Green Book,
che era una guida, davvero esistita, per automobilisti e turisti di colore che indicava motel, locali e, talvolta strade "riservate" ai neri.  Va da sé che durante il viaggio i due, che incontreranno crescenti difficoltà più si spostano verso il Sud e la regione del Delta, impareranno a conoscersi, e interagire, apprezzarsi: il come lo vedrete se seguirete il mio consiglio di correre a vedere questo film, che oltre a essere concepito, ambientato, raccontato, interpretato come meglio non si potrebbe e, come se non bastasse, sostenuto da una colonna sonora strepitosa, è divertente, dissacrante, intelligente, affrontando pregiudizi tutt'ora esistenti a tutti i livelli ma senza negarli e nasconderli dietro all'ormai insopportabile barriera censoria e stucchevolmente conformista del politicamente corretto (che altro non è che una forma di razzismo perbenista) che domina qualsiasi discussione sulla differenza di colore della pelle, etnia, cultura, sessualità. Da non perdere.

sabato 2 febbraio 2019

L'uomo dal cuore di ferro

"L'uomo dal cuore di ferro" (The Man with the Iron Heart) di Cédric Jimenez. Con Jason Clarke, Rosamund Pike, Mia Wasikowska, Jack O'Connell (II), Jack Renoir e altri. Francia, USA, GB, Belgio 2017 ★★½
Uscito nelle sale italiane in concomitanza col Giorno della memoria, che cadeva il 27 gennaio, questo film, che risale a due anni fa, per quanto meritorio, perché ricostruisce sia la vita e la carriera di Reinhard Heydrich, un personaggio cruciale nella pianificazione di quella che lui stesso aveva definito la Soluzione Finale del Problema Ebraico, sia della formazione di partigiani cecoslovacchi che riuscì ad eliminarlo, non per questo può dirsi del tutto riuscito: suddividendosi in due filoni di racconto, a cui se ne aggiunge in terzo che, però, per durata, è pari ai due di cui sopra, e che riguarda l'attentato per le cui conseguenze morì a Praga nella tarda primavera del 1942, il gerarca nazista più alto in grado che rimase ucciso durante il secondo conflitto mondiale, risultando spezzettato e disomogeneo nonché schematico, e con ritmi e modi a mio avvisto eccessivamente televisivi e con cadute nel melodramma abbastanza incongrue con la storia. Figlio di musicisti e cacciato dalla Marina, di cui era un promettente ufficiale, per comportamento indegno (aveva avuto una relazione con la figlia di un superiore rifiutandosi poi di sposarla e preferendo la donna, Lina von Osten, che l'avrebbe introdotto all'ideologia nazionalsocialista), conquistò la fiducia di Himmler per conto del quale costruì la rete di controspionaggio all'interno delle SS, fino a diventare, nel 1941, governatore del protettorato di Boemia e Moravia, acquistando definitivamente la meritata fama di Macellaio di Praga, altrimenti detto la Bestia Bionda. Di aspetto glaciale (la truce e respingente espressione di Jason Clarke lo rende molto bene, così come risulta convincente Rosamund Pike nella parte della aristocratica moglie alla fine delusa dalla indifferenza e totale anaffettività del marito; decisamente meno efficaci gli altri interpreti), spietato, violento e infinitamente arrogante ma anche estremamente meticoloso ed efficiente, la sua ascesa viene raccontata  nei tratti salienti, così come la preparazione del commando partigiano composto, oltre che da Adolf Opálka, dal ceco Jan Kubiš e dallo slovacco Josef Gabčik, che si erano addestrati in Inghilterra e vennero paracadutati in Boemia nell'inverno precedente e infiltrati a Praga col compito di accopparlo (anche a rischio, come inevitabilmente fu, di scatenare la ritorsione da parte nazista, che per rappresaglia, nel villaggio di Lidice, a 25 chilometri dalla capitale uccisero, a gruppi di 10, 192 maschi di età superiore ai 16 anni). Dopo l'attentato, parzialmente fallito perché uno Sten si inceppò e Heydrich, pur ferito da una granata, rispose immediatamente al fuoco inseguendo gli attentatori, questi ultimi si rifugiarono in una chiesa dove vennero successivamente stanati pur scatenando una feroce sparatoria in seguito alla quale preferirono suicidarsi piuttosto che cadere in mano ai nazisti. Insomma, storia interessante, che si ispira al romanzo HHhH di Laurent Binet, Premio Goncourt per il 2012, mentre il titolo del film deriva dalla definizione che Hitler in persona diede di Heydrich, ma si poteva fare, cinematograficamente, qualcosa di più e di meglio.