giovedì 31 gennaio 2019

La Favorita

"La Favorita" (The Favourite) di Yorgos Lanthimos. Con Olivia Colman, Emma Stone, Raquel Weisz, Nicholas Hoult, Joe Alwyn, James Smith, Mark Gatiss e altri. Grecia 2018 ★★★★+
Di regola i film in costume non mi attirano, specie quando sono ambientati nel secolo dei Lumi ma anche dei cicisbei nonché degli abbigliamenti e delle acconciature più ridicoli della storia dell'umanità, ossia il Settecento europeo; ma non ho avuto dubbi nel farmi tentare da La Favorita: considerati i notevoli precedenti del regista greco in The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro, specializzato in opere che hanno sempre un fondo inquietante, disturbante e un che di distopico, ero curioso di vedere come avrebbe affrontato una vicenda storica e dei personaggi realmente esistiti di cui esiste un'ampia documentazione e non sono stato deluso, anzi. Lanthimos conferma tutto il suo talento, padroneggiando il racconto con maestria, curando i dettagli in maniera maniacale, scegliendo un molto cast ben assortito e confezionando un film appassionante, divertente, sottilmente beffardo che ha il suo punto di forza in un trio di attrici eccellenti, protagoniste di un'interpretazione sia corale, sia quando duettano, sia come soliste assolutamente di prim'ordine, in cui si superano a vicenda per bravura. Si tratta di Olivia Colman, Raquel Weisz ed Emma Stone nella parte, rispettivamente, della regina Anna (Stuart), malaticcia e caratterialmente debole e instabile; di Sarah, la sua Favorita Lady Marlborough, sua amica e complice fin dalla gioventù, una donna determinata, sua consigliera ed eminenza grigia; e Abigail Hill, cugina povera di Sarah, che viene accolta a corte proprio da Sarah con compiti umili ma grazie alla sua viva intelligenza e astuzia riesce non solo a entrare nelle grazie della regina ma a soppiantare Sarah mandando all'aria i suoi piani, che sarebbero di continuare la belligeranza con la Francia (il regno di Anna è del primo decennio del 18° secolo, all'epoca della guerra di successione spagnola che si combatte sul suolo continentale e le truppe comandate dal marito John Churchill vi sono impegnate) sostenendo la politica dei suoi alleati whigs, il partito delle classi elitarie per eccellenza, favorevole alla prosecuzione del conflitto, mentre per una pace con la Francia erano i tories, che rappresentavano soprattutto i proprietari terrieri, contrari all'inasprimento delle tasse che la prosecuzione della guerra avrebbe reso inevitabile: questo il contesto in cui si svolge la competizione tra le due cugine, la cui influenza sulla regina si esercitava in entrambi i casi attraverso l'attrazione fisica che Anna aveva per loro, ma per tratti caratteriali opposti: quanto Sarah era volitiva, schietta, senza alcun timore reverenziale nei confronti della sovrana (la loro relazione era di così antica data che si chiamavano coi nomignoli che s'erano date da ragazze), Abigail era più osservatrice, accondiscendente, gentile: ci sapeva fare; inoltre era animata da una capacità di adattamento e sopravvivenza, ammaestrata dalle traversie che aveva dovuto superare nella sua esistenza, che l'altra non aveva. Il lato divertente è osservare come aumenti il livello di perfidia delle due "contendenti" col crescere della complessità delle strategie per raggiungere i rispettivi scopi, ma anche la capricciosità della regina è all'altezza, per cui il risultato di questo scontro di intelligenze femminili è decisamente godibile. Prova ampiamente superata da Lanthimos, come accennato il terzetto Colman-Stone-Weisz si equivale in bravura e merita di essere apprezzato.

martedì 29 gennaio 2019

Winston vs Churchill


"Winston vs Churchill" da "Churchill, il vizio della democrazia" di Carlo G. Gabardini. Con Giuseppe Battiston e con Maria Roveran. Regia di Paola Rota. Scene di Nicolas Bovey; luci di Andrea Violato; costumi di Ursula Patzak; suono e musica di Angelo Longo. Produzione Nuovo Teatro. Al PalaMostre di Udine il 26 gennaio. In tournée fino al 31 marzo.
Già qualche anno fa Giuseppe Battiston aveva dato corpo (e chi se non lui, con la sua stazza imponente eppur insospettabilmente leggiadrìa, quando occorre) al corpulento e mitico regista  americano in Orson Welles' Roast, un riuscitissimo monologo premiato con l'Hystrio-Teatro nel 2009; oggi si ripete interpretando, contrappuntato dalla sempre più brava Maria Roveran nei panni della giovane infermiera che seguiva personalmente, negli ultimi anni della sua vita, un altro gigante, questa volta della politica: Sir Winston Churchill, mentre rievoca momenti cruciali della sua vita, riflessioni, episodi, concedendosi pure qualche autocritica, che lui soltanto può permettersi, con infinita arguzia, di fare a sé stesso, in un brillante testo scritto appositamente per lui da Carlo Gabardini che consente all'attore, che a Udine ha giocato in casa, e il pubblico della sua città ha risposto gremendo la sala, di scavare nella biografia e nelle mille  contraddizioni di questo personaggio multiforme (fu anche militare, storico, giornalista), un oratore senza pari che nelle parole e nella loro capacità di convincimento aveva l'arma più forte; capriccioso, bizzoso, insopportabile ma anche capace di autoironia, di insospettabili dolcezze e sensibili attenzioni nonché di ascolto del prossimo; però anche di cambiare idea e di ammettere i propri errori come le proprie debolezze umane (l'alcol, i sigari, i gatti - qui viene evocato il suo favorito, Jock, un micio rosso che fu l'inseparabile compagno dei suoi ultimi anni -), nei confronti delle quali è particolarmente indulgente; insomma dotato di un'intelligenza ma anche di una umanità e di una capacità di visione, in lungimirante prospettiva, che non aveva confronti nella sua epoca, dove si confrontava da un lato con Adolf Hitler, di cui per primo comprese la pericolosità non soltanto per l'idea, che lui già prefigurava, di una Europa Federale, erede autentica di quello spirito europeo che lui, pur isolano e britannico, riconosceva come radice culturale comune del Continente e destino inevitabile per affrontare i pericoli contro quella essenziale base per la convivenza che secondo lui rimaneva, con tutti i suoi limiti, la democrazia parlamentare, ma anche per l'intera umanità; dall'altro Stalin e Roosevelt, ma anche Mussolini (geniale la battuta Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre: attuale ai suoi tempi come oggi). Il risultato è uno spettacolo godibilissimo, intenso, coinvolgente, che consente a Battiston di esprimere al meglio le sue capacità che vanno molto oltre alla sola, possente, presenza scenica, ma che hanno a che vedere con una invidiabile chiarezza di dizione e, in generale, di credibilità del personaggio che interpreta e dona al pubblico. Sempre più convincente, come mi attendevo, nella sua parte Maria Roveran la quale, come del resto Giuseppe Battiston, pur reduce da recenti e comprobanti successi cinematografici, non smette di cimentarsi con il teatro, che rimane il luogo dove gli attori veri si esprimono al meglio. E entrambi lo sono e onorano la propria professione.

domenica 27 gennaio 2019

I cancellati

"I cancellati" (Izbrisana) di Miha Mazzini. Con Judita Francković Brdar, Sebatujan Cavazza, Jernej Kogovšek, Dorotea Nadrah, Izudin Bajrović e altri. Slovenia, Croazia, Serbia 2018 ★★★★
Ana è una izbrisana, "cancellata" in sloveno, una delle circa duecentomila persone con regolare cittadinanza e passaporto jugoslavi e in possesso di permesso di residenza permanente ma originari di una delle altre repubbliche della federazione, a cui da un giorno con l'altro, dall'inizio del 1992, non venne più riconosciuta la cittadinanza slovena, considerate alla stregua di immigrati irregolari, per effetto della dichiarazione unilaterale di indipendenza, avvenuta il 25 giugno del 1991, cancellati dal registro di residenza permanente e vittime, in sostanza, di una "pulizia etnica amministrativa", nel totale silenzio dell'UE, e in particolare di Germana e Austria, di cui la Slovenia era di fatto una sorta di protettorato, che negli anni successivi avrebbe accolto il Paese a braccia aperte, così come la maggior parte degli altri dell'ex blocco comunista, fottendosene allegramente di discriminazioni e abusi come questi, nella smania di allargarsi ad Est (e con l'UE, anche prima, la NATO, va da sé). La donna, una giovane madre single, che da anni lavora regolarmente in un asilo statale, se ne accorge quando sta per uscire dall'ospedale dove ha appena partorito: è stata espulsa dal sistema sanitario, le viene tagliata e quindi invalidata la tessera di identità, di cui le rimane in mano un frammento: secondo la legge, dato che è nata a Kragujevać, in Serbia, deve essere deportata in Croazia, che confina direttamente con il suo Paese d'origine, con cui peraltro è in guerra; il tutto, per le norme cervellotiche e passate sotto silenzio, nonché i tempi estremamente ristretti concessi per la richiesta di cittadinanza. Nella stessa situazione si ritroverà anche un ragazzo bosniaco, con cui dividerà l'appartamento dove vice per qualche tempo prima di perdere, in prospettiva, anche questo. Quel che è peggio, la neonata le viene di fatto sequestrata e potrà vederla e allattarla di nascosto soltanto grazie all'aiuto di una studentessa di medicina di cui era stata baby sitter e che viene trasferita, passando diverse rogne, quando viene scoperta. Ana cerca aiuto anche dal padre della bimba, di cui non aveva voluto rivelare l'identità, un uomo influente con entrature nel mondo dell'informazione: alla fine il conduttore anticonformista di un programma di attualità della televisione, disobbedendo ai funzionari, rivela la sua storia e così quella degli altri izbrisani, ma attorno alla faccenda si alza un muro di indifferenza e non le rimane che rivolgersi all'anziano padre, con cui aveva pressoché rotto i rapporti, che si sacrifica per consentirle di rapire la propria figlioletta, mentre a sua volta il giovane bosniaco, che per mesi era riuscito a rendersi pressoché invisibile confondendosi nei luoghi più affollati, secondo la nota teoria per cui il modo più sicuro per nascondersi è mostrarsi, viene scoperto ed espulso dal Paese. Tratto dall'omonimo romanzo di successo dello stesso regista Miha Mazzini, si piazza al secondo posto a pari merito con il kazako La gentile indifferenza del giorno tra le pellicole in concorso nella mia personale graduatoria. (TSFF, in concorso, sezione lungometraggi)

sabato 26 gennaio 2019

Donbass

"Donbass" di Sergej Lóznica. Con Tamara Jacenko, Ljudmila Smorodina, Olesya Zurakovskaja, Boris Kamorzin, Sergej Russkin, Petro Pančuk, Irina Plesnjaeva, Zana Lubgane, Vadim Dubovskij, Aleksandr Zamurajev, Georgij Deliev, Valeriu Andriuta, Konstantin Itunin, Valery Antoniuk, Nina Antonova, Natalia Buzko, Sergej Kolesov, Svetlana Kolesova, Sergej Smejan e altri. Germania, Ucraina, Francia, Paesi Bassi, Romania 2018 ★★★-
Partito come probabile vincitore della categoria lungometraggi del Trieste Film Festival anche per la notorietà del prolifico regista Sergej Lóznica, già premiato a Cannes 2018 come miglior regista nella sezione Un Certain Regard) gli è stato preferito dal pubblico votante il film franco-albanese di Bujar Alimani La delegazione, che purtroppo mi sono perso e mi auguro venga presto distribuito nelle sale italiane e questo mi fa piacere perché, pur essendo un buon film, mi è sembrato decisamente troppo di parte, e benché sia dichiaratamente votato al grottesco, puntando l'attenzione sulle assurdità di una situazione che ha superato i confini della surrealtà, come quella che da quasi cinque anni si è determinata nelle regioni orientali dell'Ucraina, a uscirne sbertucciati e fatti passare come burattini, idioti e pervertiti sono soltanto i russi, e un primo, sicuro indizio in proposito si ha già scorrendo la lista dei Paesi che hanno contribuito alla sua produzione. Lóznica, che l'ha presentato di persona lunedì sera, ha raccontato di essersi ispirato a sette diversi video trovati su You Tube, e averli rielaborati, e il risultato è un collage di situazioni e personaggi assurdi, che si muovono ai diversi livelli di una realtà che definire orwelliana è poco, dove tutta una società ha fatto corto circuito e, al di là della situazione di conflitto, tutto è falso, dominato dalla corruzione e dalla propaganda, e la mia obiezione principale è proprio che anche pellicole come questa ne fanno parte. Perché un conto è fare un film sull'idiozia umana che provoca la guerra che a sua volta produce la follia, sottolineandone i lati assurdi e perfino comici, senza prendere le parti di nessuno e dare giudizi  come fecero Kusturica in Undeground, Paskaljević in La polveriera e Tanović in No Man's Land, questi ultimi due proposti nella retrospettiva che ha avuto luogo giovedì al Teatro Miela, e allora ne escono dei capolavori universali, e un alto è buttarla in vacca, come sembra fare invece in un crescendo rossiniano il regista bielorusso e ucraino di adozione Lóznica, e questo mi sta meno bene. Con questa avvertenza, rimane un buon prodotto ma, a mio avviso, non all'altezza delle aspettative. Il parere del pubblico mi ha dato conforto in questa mia opinione. (TSFF, in concorso, sezione lungometraggi)

venerdì 25 gennaio 2019

Un giorno

"Un giorno" (Egy nap) di Zsófia Szilágy. Con Zsófia Szamosi, Leó Füredi, Ambrus Barcza, Zorka Varga-Blaskó, Márk Gárdos, Annamária Lang, Éva Vandor, Károly Hajduk e altri. Ungheria 2018 ★★★+
Esordio alla regia per la sceneggiatrice magiara Zsófia Szilágy, la quale ha presentato di persona il suo film, che racconta le affannose ventiquattro ore di una qualsiasi giornata nell'esistenza di una quarantenne madre di tre figli piccoli, unico in età scolare, alle elementari, il maggiore, che deve destreggiarsi tra un impegno e l'altro (come se non bastasse occuparsi della progenie è pure insegnante di italiano in una scuola di lingue, ovviamente precaria, ché tutto il mondo è paese, anche nell'Ungheria di Orbán), ha un matrimonio in crisi con un coetaneo anche lui alle prese con un'attività stressante che lo tiene occupato pure a domicilio, per quanto sia collaborativo, e che per fortuna può contare sull'aiuto, anche finanziario, della suocera, con cui riesce nonostante tutto ad avere un buon rapporto. Cosa che non riesce, alla fine, ad avere più nemmeno con sé stessa, tanto da essere costretta a trascorrere fuori casa una nottata, vagando per Budapest in auto con la scusa di cercare un antinfiammatorio in farmacia e finendo per dormire in macchina: soltanto questa pausa dalle pressioni a cui viene, volente o nolente sottoposta quotidianamente, le consente di recuperare un minimo di equilibrio e trovare la forza per affrontare il giorno successivo, dove la sarabanda comincerà daccapo con poche variazioni sul tema. Il budget ridotto ha costretto la regista ad assemblare un cast che non solo assomigliasse il più possibile a una famiglia vera per ridurre al minimo i tempi morti e concentrare le riprese, ma che come questa interagisse, avendo le medesime necessità di risparmio e di gestione, per l'appunto dei tempi, cosicché il risultato è stato tanto più credibile: allo spettatore, particolarmente se maschio, sopraggiunge alla fine un certo senso di angoscia e chi come me non vive dinamiche simili e non ha figli, ringrazia il cielo, o chi per esso, di non averne e di non essere nato donna. Non che sia un film radicalmente femminista, anche se sono principalmente le donne protagoniste della pellicola, o di propaganda in tal senso, è anzi estremamente equilibrato ed evita di dare giudizi, rappresentando una situazione che è simile a ogni latitudine, ma soprattutto nel mondo cosiddetto sviluppato e globalizzato, dove gestire assieme il tempo e le molteplici attività a cui si è costretti o indotti e far fronte alle continue sollecitazioni cui si è sottoposti da ogni lato è una delle imprese più ardue, in cui possono riuscire, alla fine, soltanto le donne per la loro capacità di essere, come si suol dire, multitasking. Buona la prima, comunque, per Zsófia Szilágy. (TSFF, in concorso, sezione lungometraggi)

giovedì 24 gennaio 2019

I testimoni di Putin

"I testimoni di Putin" (Sviditeli Putina) di e con Vitalij Manskij. Lettonia, Svizzera, Repubblica Ceca 2018 ★★★+
A quasi vent'anni di distanza, il celebre documentarista Vitalij Manskij, che ha presentato di persona assieme alla moglie il documentario (in concorso) domenica scorsa in sala, ha ripreso in mano il cospicuo materiale che aveva girato nel corso del primo anno di mandato di Vladimir Putin da presidente per rivederlo e verificare se già allora fossero visibili i segnali di quella che attualmente i più definiscono una democratura, se non una vera e propria tirannia: dai filmati si evince che la moglie Natalia già ai tempi era certa che da Putin non ci si potesse aspettare nulla di buono, mentre il regista non nasconde di essere rimasto affascinato dal personaggio, dotato indubbiamente di una rara capacità comunicativa e di convincimento, oltre che di una voce suadente e di una insospettata affabilità, e come lui tutti coloro che lo sostennero durante la sua prima "non campagna" elettorale, quasi tutti spariti dalla scena politica o passati all'opposizione tranne uno: Dmitrij Medvedev, che gli diede il cambio alla presidenza tra il 2012 e il 2016 per consentire a Putin di interrompere il filotto di mandati e ricandidarsi vittoriosamente alla presidenza per il terzo, tuttora in atto. Tutto comincia il 31 dicembre del 1999, quando Boris Eltsin stanco e ammalato, annunciò le proprie dimissioni e designò, di fatto, il suo successore: il semisconosciuto ex colonnello del KGB Vladimir Putin, allora primo ministro, che assunse la presidenza ad interim, il quale non ebbe, come tale, bisogno di fare alcuna campagna elettorale (almeno apparentemente) essendo già al centro dell'attenzione dei media, tantopiù per la sua ferma posizione antiseparatista nei confronti del conflitto in Daghestan e del terrorismo ceceno, che si scatenava in attentati perfino nella capitale. Risultato: alle elezioni presidenziali del 26 marzo del 2000 sbaragliò tutti gli avversari e fu eletto al primo turno con oltre il 53% dei suffragi. Manskji ha messo insieme un collage di filmati riguardanti soprattutto Boris Eltsin e il suo entourage famigliare, in cui la figlia Tatiana faceva la parte del leone, che in cambio del suo appoggio a Putin fu compensato da una serie di "garanzie" e immunità riguardo ai maneggi del suo clan; il "dietro le quinte" della "non campagna" presidenziale (che invece fu orchestrata a puntino da esperti della comunicazione, compreso lo stesso Manskij); stralci di interviste e "fuori onda" con lo stesso Putin; estratti di telegiornali dell'epoca; e non può mancare ovviamente Michail Gorbacev, che ai tempi lasciava trapelare più di una perplessità sul personaggio e la sua visione della politica e del potere. In sostanza si tratta di una sorta di autocritica a posteriori, che stupisce ancor meno considerando anche che Manskij di nascita è un ucraino di origine ebraica, e comunque assai coraggioso a rimanere in Russia, dove però difficilmente il suo Sviditeli Putina verrà distribuito nelle sale. O forse sì, e allora verrebbe smentito: Vladimir Putin sarebbe capace di stupire, se ne intravvede l'utilità. Staremo a vedere: in ogni caso un collage decisamente interessante, per quanto ovviamente di parte (come testimoniano i Paesi produttori) e un documento storico. (TSFF, in concorso, sezione documentari)

La gentile indifferenza del giorno

"La gentile indifferenza del giorno" (Laskovoe bezrazličie mira) di Adilchan Erzanov. Con Dinara Baktybayeva, Kuandyk Dyussembayev, Kulzhamilya Belzhanova, Baymurat Zhumanov, Bayurzhan Kaptgay e altri. Kazakistan Francia 2018 ★★★★
Proviene dalla prestigiosa vetrina della sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes anche questa deliziosa pellicola kazaka, un melodramma che nasce nella steppa e termina, tragicamente, in città, a simboleggiare l'inconciliabilità di uno stile di vita bucolico con quello cittadino e l'impossibilità di una dimensione pacifica, basata sulle proprie inclinazioni e sulla libertà di scelta a fronte di condizionamenti famigliari e sociali a loro volta poggiati su interessi di tipo puramente economico, che nella città più importante del Paese (si trattava senz'altro di Almaty e non della futuristica e artificiale Astana, che è la capitale politica), dove dominano mafie di tutti i generi e corruttela generalizzata, trovano il loro trionfo. Saltanat, una giovane e bellissima ragazza appassionata di letteratura (una citazione di Albert Camus dà il titolo al film), già costretta ad abbandonare gli studi in medicina per assistere la madre ammalata, dopo la morte del padre è costretta a trasferirsi in città per sposare, così assicura una zio che fa da tramite e garante oltre che da segretario, un uomo ricco quanto coinvolto in faccende losche, il quale si impegna in cambio di saldare il grosso debito lasciato dal padre e impedire che la madre finisca in proigione e che vengano pignorati i campi di famiglia, e Kuandyk, suo ammiratore fin dall'infanzia, particolarmente dotato per il disegno ma meno colto di lei, la segue nell'avventura al solo scopo di proteggerla, e per mantenersi e poter affittare una camera che condividono, comincia a lavorare duramente al mercato ortofrutticolo. La ragazza si rifiuta inizialmente di accondiscendere al vecchio bavoso di turno, salvo cedere alla fine al ricatto scoprendo man mano di essere stata ingannata e parallelamente anche Kuandyk, per sopravvivere e "fare carriera", deve adeguarsi all'andazzo, tradendo i propri principi e anche la persona che gli aveva dato inizialmente fiducia. Entrambi hanno perso l'innocenza ma non l'amore, e quando faranno una scelta azzardata per uscire dal degrado in cui sono finiti saranno persi, ma recupereranno sé stessi. Una suggestiva versione di Romeo e Giulietta in versione asiatica, ottimamente scritta, girata e interpretata: Dinara Baktybayeva, poi, oltre che brava è di una bellezza amaliante.

mercoledì 23 gennaio 2019

Fuga

"Fuga" di Agnieszka Smoczynska. Con Gabriela Muskala, Lukasz Simlat, Malgorzata Buckowska, Zbigniew Walerys, Halina Rasiakowna, Piotr Skiba, Iwo Raiski e altri. Polonia, Repubblica Ceca, Svezia 2018 ★★★★ ½
Tra i lungometraggi in concorso al 30° Trieste Film Festival, e già presentato a Cannes l'anno passato Fuga, secondo film di Agnieszka Smoczynska, è quello che più mi ha convinto per le sue qualità complessive: tecnicamente perfetto, fotografato impeccabilmente, si avvale della superba interpretazione di Gabriela Muskala, che ne è anche la sceneggiatrice e che ha avuto seguendo, alla TV polacca, in un programma simile al nostro Chi l'ha visto, la storia di una donna che aveva perso la memoria e di cui per due anni si erano perse le tracce. Ispirazione che si basa su un fatto reale e che ha a che vedere, come nel film che l'ha preceduto, sulla questione dell'identità e della sua percezione, che sembra anche essere il filo conduttore di questo Festival in generale, che non a caso si svolge in una città di confine, dove questo tema è nell'aria e nella natura delle persone che vi sono nate e che ci vivono, immancabile negli scritti dei suoi numerosi letterati e dove l'interesse per la psicanalisi è vivo fin dal primo diffondersi delle teorie di Freud. Alicja compare del tutto spaesata, lo sguardo perso, in una stazione della metropolitana di Varsavia, senza documenti e avendo smarrito completamente la memoria, e da lì la seguiamo in una clinica specializzata dove viene ricoverata per due anni per una sindrome di "fuga dissociativa", finché allo psichiatra che la segue non viene in mente di mostrarla in televisione, dove la riconosce il padre e si scopre che Alicja non è il suo vero nome. Recuperata dalla famiglia dei genitori, di cui non ricorda assolutamente nulla, viene presto riportata nella sua vera casa dal marito, che invece non l'aveva cercata dopo la sua fuga, come del resto nemmeno il figlioletto. Man mano si ricompongono frammenti della sua identità, e lei asseconda malvolentieri i tentativi di coinvolgerla nella vita famigliare solo quel tanto che le serve per riottenere dei documenti (che diventano fondamentali in quanto la definiscono, almeno all'apparenza, agli occhi della società) con i quali andarsene di nuovo, per tornare a essere quella del periodo in cui si era costruita una nuova identità, completamente diversa da quella di benestante borghese (era un'insegnante di geografia e una figlia e a sua volta madre dolcissima, il contrario della ribelle quasi punk che è diventata) e che le stava evidentemente così stretta e imposta da portarla alla dissociazione al punto di crearsi una nuova personalità a cui diventa completamente indifferente ed estraneo il mondo relazionale che aveva in precedenza. Quasi un giallo psicologico, in cui ho ritrovato tracce di un altro polacco che per me rimane un maestro assoluto, checché se ne dica, Roman Polanski, un vero genio, che spero venga distribuito al più presto nelle sale italiane e premiato dal successo come merita. (TSFF, in concorso, sezione lungometraggi)

Alice T.

Alice T. di Radu Muntean. Con Andra Guti, Mihaela Sirbu, Cristine Hambasanu, Ela Ionescu, Bogdan Dumitrache, Serban Pavlu, Matia Popistasu e altri. Romania, Francia, Svezia 2018 ★★★½
Il cinema rumeno contemporaneo ha il grande pregio di essere un termometro estremamente preciso della situazione limbica di un Paese complesso, pieno di contrasti, passato nel giro di pochissimo tempo dall'oscurantismo più totale dell'era Ceausescu (anche in senso fisico: le luci tenute al minimo, con lampadine da 10 watt a illuminare un'intero appartamento per risparmiare energia) a un sistema di mercato che più libero, nel senso di senza regole, non si può, e al mondo virtuale dei sòscial e dei centri commerciali, dove la linea di continuità è data dalla corruzione sistematica e la direzione in cui ci si muove rimane completamente incerta. Come lo è l'esistenza di un'adolescente, in questo caso Alice T., interpretata da una sorprendente Andra Guti, che interpreta una sedicenne in piena crisi ormonale, scontrosa, ingestibile sia a scuola (da dove viene espulsa) sia in famiglia, in costante bilico tra il mondo e i problemi reali e quello virtuale della rete, in pieno conflitto con la madre adottiva di cui, in realtà, ambirebbe essere la figlia naturale e con cui riesce a ristabilire un rapporto accettabile solo quando quest'ultima scoprirà che Alice è rimasta incinta e che la ragazza è intenzionata a portare a termine la gravidanza. In realtà la loro ritrovata complicità si basa a sua volta su una finzione, la gravidanza appunto, perché Alice in realtà aveva abortito, con la complicità dell'amica del cuore e compagna di studi, acquistando delle pillole in rete, ma aveva proseguito a recitare la parte identificandosi in quella della ragazza incinta, per cui il film, pur essendo estremamente realista sia nel delineare i rapporti fra i diversi personaggi (la madre, il patrigno, la preside, gli insegnanti, gli amici di entrambi i sessi, la ginecologa) sia nel mostrare, perfino con una certa brutalità, gli effetti delle pillole abortive, gira attorno all'impossibilità di essere quello che si vorrebbe e, in definitiva, alla questione dell'identità, particolarmente fragile, per definizione, nell'adolescente, dove si trova, come si usa dire oggi, allo stato "liquido". Detto questo, come sempre la cinematografia rumena è estremamente efficace nel descrivere lo stato in cui si trova quel Paese non poi così lontano e lo fa "dal di dentro", mostrando le case, i luoghi di lavoro e di svago, la vita quotidiana e l'interagire tra le persone e, anche in questo caso, avvalendosi di interpreti di tutto rispetto e perfettamente adatti ai rispettivi ruoli. (TSFF, in concorso, sezione lungometraggi)

martedì 22 gennaio 2019

Chris The Swiss


"Chris The Swiss" di Anja Kofmel. Svizzera, Germania, Croazia, Finlandia 2018 ★★★★½
In concorso nella sezioni documentari del TSFF, mi auguro che ne esca vincitore sia per la qualità del lavoro, investigativo ma non solo, di Anja Kofmel, sia per la sensibilità con cui affronta un argomento inquietante: cosa attrae l'uomo nell'abisso di abiezione che è, comunque, una guerra; in altre parole la parte nascosta che alberga in ognuno di noi. E che in alcune persone, come il giovane reporter svizzero Chris Würtenberg, partito nel settembre del 1991 alla volta di Zagabria e poi Vukovar allo scoppio del conflitto tra Croazia e Serbia e ritrovato cadavere nel gennaio successivo appena fuori Osijek, con ogni probabilità ucciso dai commilitoni del VIP, una formazione paramilitare di mercenari stranieri finanziati dall'Opus Dei per combattere i serbi, dove si era infiltrato per raccontare la guerra dall'interno, prende il sopravvento. Soltanto infiltrato? O si trattava di spirito di avventura che rasentava il limite dell'incoscienza, quando non lo superava (a soli 17 anni era già scappato in Namibia, dove ricevette l'addestramento militare dai sudafricani, quando ancora vigeva l'Apartheid), che l'aveva animato da sempre per la disperazione della famiglia, in particolare del fratello Michael, ancora oggi furibondo con lui per la sua irresponsabilità? A muovere l'autrice, la documentarista e illustratrice svizzera Anja Kofmel, il fatto che Chris, suo cugino primo, fosse una sorta di figura mitica e la sua morte, come essa stessa afferma, un'esperienza cruciale della sua infanzia: ed eccola ripercorrerne le tracce, armata degli appunti di Chris, salendo sullo stesso treno che lo portò da Basilea a Zagabria, in poche ore dalla tranquillità della neutrale Svizzera dritto dentro al "mostro". Ad attenderla, Siniša Juričić, ai tempi fixer di Chris e di altri reporter stranieri, oggi coproduttore, venuto a presentare il film a Trieste domenica scorsa; insieme a lui Anja ripercorre le tracce del giornalista assassinato e intervista i sui colleghi ma soprattutto i commilitoni di allora, e la domanda di fondo rimane: cosa spinge un giovane sensibile in direzione dell'abisso? Oltre a ciò muove ogni guerra, ossia l'interesse di chi vende armi a chiunque abbia intenzione di farla e dunque non si ferma davanti a nulla per fomentarne sempre di nuove, e uno dei propellenti più potenti di ogni conflitto è sempre e comunque il motivo religioso che, per quanto fosse un pretesto così come quello etnico, ebbe un ruolo fondamentale nelle guerre jugoslave, soprattutto per scatenarle. E qui le responsabilità del Vaticano e dell'allora Papa Giovanni Paolo II sono plateali quanto rimosse. A riprova, il fatto che gruppi di veterani e di estrema destra abbiano chiesto alla presidente Kolinda Grabar-Kitarović di impedire che il film, quando fu presentato a Cannes la scorsa primavera, fosse presentato come una coproduzione croata, richiesta immediatamente recepita, e che Siniša Juričić sia considerato in Croazia un traditore della patria per aver indicato le responsabilità dell'Opus Dei, potentissima nel Paese, e il suo appoggio diretto ai gruppi di macellai (tra cui anche estremisti e avventurieri provenienti da tutta Europa attirati dall'odore di sangue e dalla possibilità di ammazzare impunemente, e pure ben pagati) che operavano, a loro dire, in difesa della cattolicità; così come del resto la chiesa ortodossa stava dietro ai cetnici serbi e il clero islamico dietro ai paramilitari bosniaci musulmani. In Siria è comprovato che l'Opus Dei non operi diversamente che negli anni Novanta nei Balcani, e così i loro corrispettivi della Mezzaluna. Quello che poteva essere documentato, Anja Kofmel lo ha filmato; il resto, specie quello che ha immaginato attorno alla figura del cugino, lo ha illustrato con disegni quanto mai efficaci e suggestivi e attraverso l'animazione, per cui Chris The Swiss è senz'altro qualcosa di più di un semplice documentario, pur con qualche ingenuità che le si perdona, come quando nell'incipit, illustrando le origini del conflitto, ne identifica le cause nelle smanie grando-serbe di Milošević e non anche, e soprattutto, nella inopinata scelta secessionista di Slovenia e Croazia dalla Federazione Jugoslava, incoraggiata dal Vaticano e sostenuta dai suoi esecutori, Germania, Austria in primis, seguiti a ruota da Italia, Usa e Francia, ma anche queste erano suggestioni infantili che probabilmente le sue stesse ricerche hanno contribuito a confutare. (TSFF, in concorso, sezione documentari)

lunedì 21 gennaio 2019

Okupácia 1968

"Okupácia 1968" di Evdokia Moskvina, Linda Dombrovszky, Magdalena Szymków, Marie Elisa Scheidt, Stephan Komandarev. SK, CZ, PL, BG, H ★★★★
Ossia l'occupazione della Cecoslovacchia nell'agosto del 1968 dal punto di vista degli occupanti, raccontato in cinque cortometraggi girati da registi provenienti dai cinque Paesi del Patto di Varsavia che inviarono truppe per porre fine alla Primavera di Praga che Walter Ulbricht, leader dell'allora DDR, per primo definì controrivoluzione (in compenso, per una questione di opportunità, considerato il precedente dell'invasione da parte di truppe tedesche nel 1938 dello stesso Paese, le truppe della DDR furono soltanto allertate e posizionate lungo il confine). Il progetto, curato dallo slovacco di lingua ungherese Peter Kerekes, che lo ha presentato ieri al Trieste Film Festival, è in concorso nella sezione documentari, ma ciascuno dei cinque lavori è qualcosa di più e ognuno ha sbizzarrito la propria fantasia per raccontare una storia diversa e si tratta in realtà di cinque piccoli film, tutti a modo loro dei gioellini, che usano toni diversi. Ironico quello della russa Evdokia Moskvina, che racconta L'ultima missione di un ex generale sovietico che da Odessa raduna un gruppo di ex colleghi per fare una visita a Praga dove incontrano un 90 enne ex ufficiale ceco controllore di volo che non li ha perdonati; paradossale (ma reale) il racconto dell'unica vittima, un giovane sergente bulgaro, dalla parte degli occupanti, un Eroe non necessario, di Stephan Komandarev; intimista Voci nella foresta della tedesca Marie Elise Scheidt, che fa parlare ex militari di leva contrari all'occupazione, uno dei quali incarcerato per avere espresso il rifiuto di sparare, all'occorrenza; agrodolce, con un suo lirismo tutto sommato malinconico Una rosa rossa di Linda Dombrowszky, che presenta la riunione di un gruppo di coscritti dell'epoca nello stesso campo d'addestramento da cui partirono 50 anni prima per occupare una striscia di terreno oltreconfine nella Slovacchia a maggioranza magiara, infine quello più poetico e commovente Ti sto scrivendo, amore mio della polacca Magdalena Szymkóv. Da notare che su 5 registi, quattro sono donne. Difficile dire quale episodio sia migliore, e probabilmente non ha molto senso: l'amalgama è perfetto e funziona, quindi un grande merito va anche all'ideatore e produttore Peter Kerekes. (TSFF, in concorso, sezione documentari)

domenica 20 gennaio 2019

Meetin' Gorbachev

"Meetin' Gorbachev" di Werner Herzog e André Singer. Con Werner Herzog e Machail Gorbachev. Germania, GB, USA 2018 ★★★★
Partenza col botto, venerdì 18, del Trieste Film Festival, che celebra quest'anno il 30º anniversario, avendo visto la luce appena dopo la caduta del Muro di Berlino come Alpe Adria Cinema - Incontri con il cinema dell'Europa Centro-Orientale e come meglio, se non proponendo un'intervista, frutto di alcuni colloqui fra il regista tedesco Werner Herzog e l'uomo che fu l'artefice principale di un avvenimento che ha cambiato il corso della storia, propiziando, oltre alla scomparsa della Cortina di Ferro, la riunificazione della Germania? E' di questo che si parla, partendo dalla storia personale di quest'uomo completamente diverso dagli altri dirigenti sovietici di cui abbiamo memoria e che, come si sa, ebbe molta più fortuna, ed estimatori, all'estero e in particolare in Occidente, che non in patria, e spaziando sulla situazione politica globale odierna e la crisi delle democrazie. Un uomo anziano, 88 anni a marzo, debilitato dal diabete, ma dalla mente ancora lucidissima e dalla vista lunga. Richiesto su cosa l'avesse impressionato maggiormente, il co-regista, produttore, documentarista nonché antropologo amico e vecchio collaboratore di Herzog, l'inglese André Singer, presente in Sala Grande (al Politeama Rossetti di Trieste), ha detto detto senza dubbio la sua profonda onestà, sincerità e umanità, che traspare dal suo sguardo, dalle due movenze come dalla sue parole, dall'immediata empatia che sviluppa anche a distanza. Due le idee chiave, senza rinnegare gli ideali socialisti di fondo (favorevole sì all'economia di mercato, la limitando la corsa dissennata al profitto come unico motore), che lo hanno mosso sull'arena politica internazionale e attuali ancora oggi: disinnescare la minaccia atomica frenando il riarmo e la creazione di uno spazio comune europeo (punti su cui è stato tradito proprio dai successori di Ronald Reagan, con cui aveva instaurato un rapporto personale di comprensione e fiducia reciproca, alla Casa Bianca). Certo, viene spontaneo pensare che perfino l'ex attore holliwoodiano diventato presidente degli USA, allora sbeffeggiato, la stessa Margaret Thatcher, per altri versi nefasta, oppure Helmut Kohl, rispetto ai politici che dominano la scena odierna apparivano un giganti capaci di vedere le cose in prospettiva, e questo inquieta non poco. Un film biografico e documentaristico insieme e un pezzo di giornalismo di alto livello, dove a porre le domande è un uomo dall'intelligenza acuta, Werner Herzog, e a rispondere un personaggio che ha fatto la storia e vi rimarrà, checché se ne possa pensare, Michail Sergević Gorbachev. Sempre alla presentazione dell'anteprima italiana, è stato annunciato ufficialmente che Meetin' Gorbachev verrà distribuito anche nelle sale del nostro Paese dopo l'estate, presumibilmente in concomitanza con le commemorazioni del trentennale della Caduta del Muro di Berlino. 

sabato 19 gennaio 2019

La douleur

"La douleur" di Emanuel Finkiel. Con Mélanie Thierry, Benoît Magimel, Benjamin Biolay, Shulamit Adar, Gregoire Leprince-Ringuet, Emmanuel Bourdieu e altri. Francia, Belgio, Svizzera 2017 
Ignoro quali siano state le intenzioni che hanno animato Emmanuel Finkiel a trasporre sullo schermo il romanzo autobiografico, di cui al titolo, di Marguerite Duras, che la scrittrice asseriva ricavato da un suo diario risalente al 1945 e dimenticato per anni, pubblicato nel 1985, in cui racconta l'attesa spasmodica del ritorno del marito Robert Antelme, uno dei massimi esponenti della Resistenza francese, dal campo di concentramento nazista di Dachau, intrisa di sensi di colpa per averlo costantemente tradito col migliore amico di lui, Dyonis Mascolo. Se credeva di celebrare la Duras ha toppato di brutto, se invece l'ha mosso un disprezzo recondito per un personaggio comunque scomodo, discusso e discutibile, ha raggiunto lo scopo perché c'è riuscito alla perfezione, grazie anche a una notevole performance di Mélanie Therry, che riesce a renderla odiosa al punto che difficilmente qualcuno, sano di mente, verrebbe indotto, dopo aver visto il film, a leggere il libro, se non l'ha già fatto prima, a meno di non essere un masochista affetto da Sindrome di Tafazzi. In ogni caso il risultato è una pellicola spaventosamente pallosa, pretenziosa, verbosa (ci mancava solo la voce narrante dell'autrice) e se solo avessi letto la scheda biografica del regista, già assistente di Godard e di Kieslowski, due campioni assoluti dell'onanismo intellettualoide, giammai mi sarei avventurato in sala a vederlo e recito quindi il mea culpa. Finkiel descrive la Duras in preda a un delirio solipsista che aumenta man mano di intensità quanto più si avvicina il ritorno di Antelme dalla deportazione: dapprima non esita a intraprendere un rapporto ambiguo con il funzionario collaborazionista della Gestapo Rabier per avere notizie del marito, e qui la Thierry si produce nell'unico sorriso, a denti stretti e sghembo, mentre flirta con lui, in 127 minuti di film: per il resto conserva una truncia insopprimibile, perfettamente in linea con un atteggiamento da un lato supponente e dall'altro vittimista che la rende insopportabile al suo stesso ambiente di intellettuali snob. Il dolore di cui discetta l'autrice è completamente autoriferito, causato non dalla circostanze esterne o dalle sofferenze altrui (si parla di una guerra che ha fatto decine di milioni di morti, nonché delle persecuzioni subite dagli ebrei), cui risulta completamente indifferente, essendo del tutto incapace di empatia nei confronti del prossimo: il dolore altrui viene preso in considerazione unicamente se funzionale a giustificare il proprio malessere, dovuto esclusivamente a sue libere scelte, di cui peraltro è restìa a prendersi la responsabilità fino in fondo, o almeno questa è l'impressione che se ne ricava da questa pellicola. Con queste premesse, come dicevo, non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello approfondire la questione di cosa intendesse o meno la Duras sull'argomento. Oltre alla prolissità tipicamente francese del tutto, mettiamoci anche la confezione formale, piena di espedienti ridicoli come l'applicazione di lenti sfuocate alla cinepresa a rendere l'idea dell'annebbiamento della vista (e delle capacità intellettive della protagonista davanti ai suoi stessi comportamenti) o la ripetuta duplicazione della stessa che vede agire sé medesima dall'esterno, a evocarne la personalità psicotica e schizoide, e si capisce perché risultino indigesti sia la Duras col suo dolore sia il film di Finkiel che ce li ripropone. Tuttavia ne consiglio vivamente la visione ai francofili incalliti e a coloro che amano darsi ripetute martellate sui genitali, maschili o femminili a scelta: ve lo meritate!

venerdì 18 gennaio 2019

La donna elettrica

"La donna elettrica" (Kona fer í strío) di Benedikt Erlingsson. Con Halldóra Geirharsdóttir, Jóhanna Sigurdarson, David Pó Jónsson, Magn'us Tryvason Eliasen, O'mar Gudjónsson, Juan Camillo Román Estrada e altri. Islanda, Francia, Ucraina 2018 ★★★★
Come fare un film ambientalista, parlando di questioni serie, anzi: dell'unica questione seria al giorno d'oggi, ossia della sopravvivenza del pianeta su cui viviamo e quindi del futuro dell'umanità, in maniera lieve, semplice, ironica e originale, in una parola divertente e pure efficace, senza tirarsela e senza ammorbare lo spettatore (vengono in mente i nostrani Troppa grazia e Lazzaro felice, e il paragone mostra in tutta evidenza la differenza di credibilità tra i "verdi" nostrani e quelli a Nord delle Alpi). Álla è una musicista e la direttrice di un coro in una città dell'Islanda, ma conduce anche una doppia vita: è un'ecoterrorista che, munita di arco e frecce, sabota i tralicci dell'energia elettrica mandando in black out lo stabilimento di una multinazionale siderurgica che avvelena il Paese e in tilt un governo e un'informazione  lobbyzzati che, come quasi tutti quelli che conosciamo, vendono queste attività perniciose come opportunità in nome di un presunto progresso che non si deve fermare né, tantomeno, mettere in discussione. Non è una sorta di Dottor Jekyll & Mister Hyde, ma una 49 enne sola, senza figli, energica e coerente, così come lo è, in altra forma, same same but different, verrebbe da dire, la sorella gemella Ása, interpretata sempre dalla bravissima Halldóra Geirharsdóttir, insegnante di yoga e in procinto di partire per un soggiorno di due anni in un ashram in India e vi rinuncia per favorire uno scambio di persona con Álla che, dopo essere stata a lungo braccata dalla polizia (che ripetutamente, in precedenza, se l'era presa con un pacifico cicloturista turista sudamericano), era stata finalmente arrestata a causa dell'introduzione di un test del DNA effettuato sui viaggiatori in partenza dall'aeroporto di Reykjavik: stava infatti per volare in Ucraina a prelevare Nika, una bimba di 4 anni orfana di guerra, perché nel frattempo, mentre si dedicava alla causa e dopo aver rivendicato gli attentati con un volantino firmandosi, come da titolo, La donna elettrica, le autorità avevano accolto una sua richiesta di adozione di qualche anno prima. Film al femminile, che parlando di maternità parla anche di figli e del loro futuro, motivo in più per un concreto impegno attuale in prima persona, è una fiaba ecologista spiritosa e bizzarra, con un tocco surreale e un contrappunto musicale (un trio di musicisti islandesi e un trio di coriste ucraine) per ogni passaggio significativo della storia che ricordano il miglior Kusturica, a cui fanno da sfondo i magnifici e maestosi panorami di questa magica isola vulcanica dell'Atlantico del Nord, per buona parte situata oltre il circolo polare artico: meno di 350 mila abitanti, ma sufficienti per produrre letteratura, musica, film e perfino una nazionale di calcio di ottimo livello e tanta coscienza civica e politica, basti pensare a come la popolazione è stata capace di sconfiggere la crisi del debito scatenatasi tra il 2008 e il 2011, rifiutandone la logica. Da vedere.  

mercoledì 16 gennaio 2019

Non ci resta che il crimine

"Non ci resta che il crimine" di Massimiliano Bruno. Con Alessandro Gassmann, Marco Giallini, Ganmarco Tognazzi, Ilenia Pastorelli, Edoardo Leo, Massimilano Bruno e altri. Italia 2108 ★★★½
La critica non è stata tenera con questa pellicola, e nemmeno io lo ero stato con Massimiliano Bruno, il regista, recensendo due sue film precedenti, eppure questa volta il mio giudizio è nettamente positivo: se lo scopo è quello di divertire, com'è evidente in una commedia che vuole vivificare il genere nostrano, magari cogliendo l'occasione per prendere in giro altre mode attuali, come la rivisitazione, con rimpianto da smemorati, dei famigerati anni Ottanta, e il ritorno in auge della Banda della Magliana e dei suoi epigoni in  libri, film e serie TV, Non ci resta che il crimine, che già dal titolo si rifà a Non ci resta che piangere di Benigni e Troisi e, al contempo a Ritorno al futuro di Zemeckis, centra l'obiettivo se perfino io, che detesto i luoghi comuni e l'invadenza del romanesco, sono uscito col sorriso sulle labbra e in più d'un'occasione gli spettatori in sala, io compreso, sono scoppiati in risate. L'idea è presto detta: tre cialtroni, Moreno, Sebastiano e Giuseppe, per "svoltare" e fare i soldi con la pala, come usa dire il primo dei tre, si ingegnano a promuovere un tour sui luoghi, appunto, della celebre banda criminale, quando incontrano, al mitico Bar Calisto, nel cuore di Trastevere, dove fanno base, Gianfranco, l'unico del gruppo di amici di infanzia, ai tempi considerato un fastidioso secchione e quindi da loro vessato, che ha avuto successo seguendo la sua precoce passione per computer e informatica: per sfuggirgli, nei meandri del locale, precipitano in un buco spazio-temporale che li proietta indietro di 36 anni, nel giugno del 1982, in pieno svolgimento del Mundial spagnolo e alla vigilia di Italia-Brasile, all'epoca della loro stessa infanzia nel quartiere. Cambiano i tempi, ma non la necessità di fare soldi e così, grazie alla prodigiosa memoria di Giuseppe (Gianmarco Tognazzi), nella contemporaneità un commercialista precario vessato dal suocero, entrano nel giro di scommesse gestito per l'appunto da quelli della Magliana, conoscendo tutti i risultati allora ritenuti improbabili azzeccando il filotto di vittorie che avrebbe portato la Nazionale alla vittoria nonché i marcatori, attirando l'attenzione del capo, il celebre Renatino De Pedis, interpretato alla grande da Edoardo Leo, per una volta nella parte del cattivo, mentre, per contrasto, è Alessandro Gassman, il figaccione del cinema nostrano, a vestire, con Sebastiano, i panni dell'imbranato mentre Giallini, sempre bravissimo, è l'unico a recitare una parte che gli sembra cucita addosso; mentre un'ottima caratteristica si conferma Ilenia Pastorelli nel ruolo della donna del capo, così come lo stesso regista Massimiliamo Bruno nelle vesti del nerd in potenza Gianfranco. Per quanto mi riguarda, tutti promossi a pieni voti, e come va a finire non lo svelo, ma lo saprete se andrete a vedere il film.

lunedì 14 gennaio 2019

Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte


"Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte" di Simon Stephens, dal romanzo di Mark Haddon; traduzione di Emanuele Aldrovandi. Regia di Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; scene di Andrea Taddei; costumi e disegni di Ferdinando Bruni; maschere di Saverio Assumma; musiche originali di Teho Teardo; movimenti scenici di Riccardo Olvier e Chiara Ameglio; video di Francesco Frongia; luci di Nando Frigerio; suono di Giuseppe Marzoli. Con Elena Russo Arman, Daniele Fedeli, Corinna Agustoni, Cristina Crippa, Alice Rendini, Debora Zuin, Nicola Stravalaci, Davide Lorino, Marco Bonadei, Alessandro Mor. Coproduzione Teatro dell'Elfo e Teatro Stabile di Torino. Prima nazionale vista ieri al teatro Elfo/Puccini di Milano, dal 15 al 27 gennaio alò Teatro Stabile di Torino.

Continua felicemente la proposizione da parte del Teatro dell'Elfo nel nostro Paese della drammaturgia inglese contemporanea, in questo caso l'adattamento teatrale di Simon Stephens, di cui la compagnia milanese aveva già rappresentato con successo il convincente e intenso Harper Reagan tre stagioni fa, del romanzo di Mark Haddon a cui si attiene fedelmente e che racconta, in un intreccio di generi e linguaggi, le vicende di Christopher, interpretato con grande naturalezza ed efficacia dal giovane e talentuoso Daniele Fedeli, un quindicenne autistico che vive in una cittadina inglese da solo col padre, il quale, sulla scorta del suo idolo Sherlock Holmes, decide ci mettersi a investigare sulla misteriosa morte di Wellington, il cane di una vicina che ha trovato infilzato con un forcone. Pieno di fobie, con enormi problemi di comunicazione col prossimo, e pure convinto di essere orfano di madre da due anni, viene sostenuto nella sua ricerca soltanto da Siobhan, la sua insegnante, che nella versione teatrale è anche la voce narrante, affidata alla bravura di Elena Russo Arman, che lo invita a scrivere una sorta di diario di bordo su questa sua indagine, durante la quale scoprirà diverse altre cose, oltre all'assassino di Wellington: l'esistenza in vita di sua madre, in realtà fuggita con un altro uomo perché incapace di affrontare la diversità del figlio, per raggiungere la quale dovrà mettersi in viaggio verso Londra, affrontando per la prima volta un viaggio in treno da solo ma, soprattutto, una dopo l'altra le idiosincrasie e le fobie che lo affliggono e turbano: dai colori giallo e marrone, ad alcuni cibi, all'essere semplicemente toccato; all'incapacità di comprendere le metafore (e, in sostanza, di concepire l'ipocrisia e la falsità), all'interpretare le espressioni facciali delle persone; un percorso di formazione, insomma, che lo porta a entrare in contatto col prossimo e a superare, dopo aver risolto il caso del cane assassinato e recuperato in qualche modo il rapporto con la madre, anche un difficile esame di matematica, materia per cui è particolarmente versato perché dotato di una logica stringente e di una grande capacità di elaborare schemi e sequenze, e a intravvedere un futuro nel campo scientifico che lo porterà, chissà, a studiare le stelle e le galassie di cui è appassionato, insomma a trovare un suo spazio in un mondo, adulto e ostile, che gli è del tutto alieno e perlopiù incomprensibile. Una fiaba dolce-amara con un tocco noir; commistione di generi e linguaggi, s'era detto, che sono terreno fertile per gli Elfi: una effervescente prova di teatro totale, con andamento cinematografico, dove una scenografia essenziale viene vivificata dai movimenti degli oggetti da parte degli attori a creare i diversi spazi, e su tre pannelli scorrono via via le immagini e i testi illustrati da Ferdinando Bruni, il tutto accompagnato dalle delicate musiche di Teho Teardo, diretto con maestria da Bruni e De Capitani e portato in scena, e al successo, da un gruppo di interpreti di grande livello. Ultima recita a Milano, con un pienone: è stato necessario aggiungere dove possibile delle sedie "volanti" in sala. Applausi calorosi per uno spettacolo che merita. 

sabato 12 gennaio 2019

Una notte di 12 anni

"Una notte di 12 anni" (La Noche de 12 Años) di Álvaro Brechner. Con Antonio de la Torre, Chino Darín, Alfonso Tort, Soldead Villamil. Silvia Pérez Cruz, César Troncoso, César Bordón e altri. Uruguay, Argentina, Spagna 2018 ★★★★★
L'altroieri sera, nella Sala Modotti del benemerito CinemaZero di Pordenone, probabilmente il primo motore culturale della città, ho assistito a una proiezione "personalizzata", unico spettatore in una sala di 50 posti, di questo notevole e commovente film che non è passato inosservato all'ultima Mostra del Cinema di Venezia e che pur dovrebbe riguardare tante persone, in considerazione del contributo friulano in percentuale sull'emigrazione italiana nell'America del Sud, in particolare verso Argentina, Uruguay e Brasile, tutti Paesi colpiti da dittature feroci specialmente durante gli anni Settanta, e invece si ricorda soltanto il Cile di Pinochet: infatti Santiago di Moretti, che pure ho apprezzato, uscito cinque settimane fa, è tuttora in programmazione, sostenuto da un formidabile battage pubblicitario gratuito da parte dell'informazione nostrana, particolarmente quella luogocomunista, che si conferma ancora una volta selettiva, del resto in linea con la memoria che di sé stesso ha questo Paese. E poco importa che Una notte di 12 anni racconti la storia dell'interminabile detenzione di tre personaggi assai conosciuti in America Latina, di cui uno, Pepe Mujica, ex amatissimo presidente dell'Uruguay, di notorietà universale, che sono riusciti a uscirne indenni grazie a una forza di volontà, un senso di dignità, umanità e un coraggio incrollabili che li faranno uscire vincitori di una lotta  impari e che avrà fine soltanto nel 1985. Incarcerati nel settembre del 1973 a Montevideo (il golpe di Bordaberry avvenne tre mesi prima) in quanto militanti tupamaros, Pepe Mujica (Antonio de la Torre), Mauricio Rosencof (Chino Darín, figlio d'arte) ed Eleuterio Fernández Huidobro (Alfonso Tort) vengono considerati dal regime militare degli ostaggi anziché dei prigionieri, per tenere  sotto ricatto i loro compagni di guerriglia e sottoposti a un malvagio esperimento mirato esplicitamente allo scopo farli impazzire (i militari uruguagi stavano facendo le prove generali di quanto i loro colleghi argentini avrebbero compiuto in termini perfino più drastici e in dimensioni ancora più spaventose): spostati in continuazione da un luogo di detenzione a un altro, non solo carceri ma anche silos abbandonati, sotterranei di caserme, in isolamento pressoché totale dentro celle fatiscenti e sfornite di qualsiasi genere di conforto (salvo per finta durante i sopralluoghi, altrettanto finti, do organismi internazionali come la Croce Rossa), impossibilitati di parlare e scrivere, salvo se interrogati dai carcerieri o su loro sollecitazione (bellissima la storia delle lettere d'amore scritte per procura da Rosencof per un sergente innamorato: quando dopo anni lo incontrerà di nuovo tornando nella stessa caserma il militare sarà sposato e avrà due figlie proprio dalla destinataria di quelle lettere, che si lamenterà di non riceverne più come all'inizio della loro storia), riusciranno comunque a comunicare tra di loro con un ingegnoso sistema tipo morse con il quale riusciranno perfino a giocare a scacchi, e tenere duro, nonostante le visioni e le voci che assalgono in particolare Mujica, tanto che verrà sottoposto a una visita psichiatrica: sarà proprio dal colloquio con la dottoressa, che si rivelerà ancora più psicotica di lui, a ridargli la forza per resistere (è l'unica scena, però potente, interpretata da una Soledad Villamil formidabile). Il film, pur tragico e molto realista e accurato nei dettagli, non indulge sulle torture fisiche ma rende alla perfezione l'atmosfera squallida e claustrofobica e l'indicibile pressione fatta dui tre uomini, eppure non manca di momenti di vera e propria poesia e perfino tocchi comici: in tutto e per tutto, ricorda i migliori film di denuncia proprio di quegli anni Settanta che tanta influenza hanno avuto per una generazione come la mia (che poi è quella di Moretti d cui sopra) e che è nelle corde delle produzioni del Cono Sur, e argentine in particolare. Un film memorabile, che raccomando vivamente di non farsi scappare e di consigliare a propria volta. 

mercoledì 9 gennaio 2019

Indulge Relax

"L'ozio è il padre di tutti i vizi, ed è il coronamento di tutte le virtù" (Franz Kafka)

martedì 8 gennaio 2019

Vice - L'uomo nell'ombra

"Vice - L'uomo nell'ombra" (Vice) di Adam McKay. Con Christian Bale, Amy Adams, Steve Carell, Sam Rockwell, Tyler Perry, Alison Pill, Lily Rabe, Eddie Marsan e altri. USA 2018 ★★★★★
Questo è cinema, ma anche storia: come già nel magistrale La grande scommessa Adam McKay, un talento poliedrico che è attore, sceneggiatore, comico (Saturday Night Live) oltre che regista, confeziona qualcosa che è più di una film biografico, di una cronistoria e di un documentario incentrato sulla figura di Dick Cheney, vicepresidente nei due mandati di George W. Bush (2001-2009) ma all'epoca già politico di lungo corso (entrato alla Casa Bianca con Nixon, fu Capo Gabinetto con Gerald Ford, Segretario alla Difesa con Bush senior, quando gestisce, tra le altre, l'operazione Desert Storm, ossia la Prima Guerra del Golfo, con le conseguenze che conosciamo); durante l'era Clinton si ritira sì temporaneamente dalla politica ma non resta con le mani in mano, perché diventa per un quinquennio presidente e amministratore delegato della multinazionale petrolifera ed edilizia Haliburton, i cui interessi giocheranno un grande ruolo nella Seconda Guerra del Golfo, di cui Cheney sarà ancora l'ispiratore con la scusa della guerra al terrorismo in seguito alla vicende delle Torri Gemelle. Che George W. Bush fosse un perfetto idiota lo si capiva soltanto guardandolo in faccia e avendone la conferma non appena apriva bocca (Steve Carrell ne fornisce un ritratto di una verosimiglianza impressionante, ma tutti gli interpreti, e Christian Bale su tutti, aderiscono in maniera incredibile ai loro personaggi), ma di Dick Cheney non si sarebbe detto che, con quell'aria imbambolata e goffa, il modo di esprimersi impacciato, la salute cagionevole (era da sempre malato di cuore, tanto da dover subire un trapianto, che lo tiene tuttora in vita), un passato da studente tutt'altro che brillante e, per un periodo, da alcolista, fosse lui l'eminenza grigia e l'uomo che tirava le fila; uno che invece di parlare osservava gli altri e, quando accadeva qualcosa, già era in grado di capire le opportunità che si sarebbero aperte più avanti e con largo anticipo su tutti gli altri, come infatti l'l'11 Settembre del 2001. Esemplare come infinocchiò Bush Junior accettando, come facendogli una concessione, la vicepresidenza inducendolo a definirne i ruoli in modo da riempire l'incarico, fino ad allora quasi solo rappresentativo, sottraendola a qualsivoglia controllo sia parlamentare sia giudiziario, informata su tutto ciò che bolle nella pentola quanto il presidente stesso se non prima e più circostanziatamente. Le vicende dell'uomo, della sua scaltra moglie e della sua famiglia sono narrate in ordine cronologico, e si inseriscono in un affresco generale che è, come nel film precedente di MacKay del 2015, quello di una società, come quella statunitense, inquietante, dominata da personaggi repellenti, ignoranti e malsani, mistificatori della realtà e manipolatori, che hanno in mano tutte le leve del potere e lo usano senza il minimo scrupolo per i loro meschini interessi e giochi (House of Cards, in confronto alla White House reale, è davvero una casa di bambole, ossia un gioco, e i suoi abitanti dei gentiluomini); una verità che lascia disarmati, alle prese con un presente che è già, a ben guardare, distopico. Il tutto raccontato con buon ritmo, uno sguardo ironico, trovate a effetto che non guastano per sdrammatizzare una situazione di per sé tragica e pressoché senza speranza di cambiamento, a giudicare dal personaggio che siede oggi alla Casa Bianca, ma anche degli otto anni presidenza Obama, che non sono stati in grado di scalfire minimamente quanto combinato da Cheney e soci durante la presidenza Bush e quelle che l'avevano la preceduta. Christian Bale, che si è dato all'ingrasso nonché allo studio maniacale di Dick Cheney fino ad immedesimarvici, si conferma un fuori categoria ma anche tutto il resto del cast, a cominciare da Amy Adams che ne interpreta la moglie Lynne, è esemplare. Film imperdibile, se riuscite a vederlo in versione originale sottotitolata, meglio ancora. 

giovedì 3 gennaio 2019

Old Man & The Gun

"Old Man & The Gun" (The Old Man & The Gun) di David Lovery. Con Robert Redford, Casey Affleck, Sissy Spacek, Danny Glover, Tom Waits, Tika Sumpter e altri. USA 2018   ★★½
Imperscrutabile il motivo per cui in Italia la pellicola che chiude la carriera cinematografica di Robert Redford sia uscita col titolo senza l'articolo: probabilmente chi se ne occupa ritiene di aver qualcosa da insegnare ai madrelingua ma tant'è, la sostanza non cambia. Il vecchio con la pistola: finta, in questo caso, perché Forrest Tucker, alla cui storia vera si ispira questo filmetto, ché tale rimane nonostante il notevole battage pubblicitario che ne ha preceduto l'uscita, le armi non le ha mai utilizzate ma semplicemente mostrate o fatto capire di averle con sé quando, vestito impeccabilmente e con fare da galantuomo, rapinava banche a decine col sorriso sulle labbra e maniere gentili. Un rapinatore seriale, che a 77 anni (Redford che lo interpreta ne ha qualcuno in più e si notano, a giudicare dal suo incedere piuttosto incerto e dalla fissità dell'espressione, che non sembra dovuta a particolari sovradosaggi di botox ma all'età) e dopo 16 evasioni da svariati istituti di pena, tra i quali San Quintino, non ha cessato di ideare colpi assieme a due suoi coetanei, qui interpretati da Danny Glover e Tom Waits. Questa volte sulle sue tracce si mette un poliziotto frustrato e dalla vocina flebile (ignoro se il doppiatore italiano abbia imitato o meno quella di Casey Affleck, fratello del più celebre Ben) che dopo lunghe ricerche riesce sì a individuarlo, ma non a infierire. Perché tutto deve finire bene, love story compresa, che scoppia con un'altra vecchia gloria hollywoodiana, Sissy Spacek nei panni di una country-woman texana, a sigillare la lunga carriera di una delle ultime vere star del cinema statunitense, amato da donne e uomini di ogni età e ogni dove, bello, bravo e pure progressista, perfetto per interpretare la parte buona dell'America sostanzialmente in tutti i film che ha girato, o almeno in quelli che si ricordano, i più significativi dei quali vengono in qualche modo inseriti come citazioni o attraverso qualche immagine pure in Old Man & The Gun. Si alza inesorabilmente l'età di chi ancora frequenta le sale e così quella degli interpreti che furono i loro idoli, e questo vale sia per il cinema sia per la musica, ragion per cui anche l'offerta si adegua e ciò spiega il proliferare di pellicole per la terza età, quando non da ospizio: di storie di rapinatori scenescenti ne sono state già proposte parecchie, e di solito finivano per farlo per rivalsa contro una vita ormai priva di scopi, qui se non altro si tratta della vicenda di un Peter Pan che non è mai veramente cresciuto, un eterno ragazzo come del resto lo star system ha sempre voluto proporre Robert Redford, e che proprio per questo è sempre stato ben voluto. Il suo addio alle scene non è stato col botto e lascia una traccia di malinconia dietro al tocco ironico e lieve del film d'addio, ma noi gli rimaniamo affezionati lo stesso. 

martedì 1 gennaio 2019

Fake Reality


Il tempo è farlocco
Il governo è farlocco
L’Unione Europea è farlocca
L’accoglienza è farlocca
L’antifassismo è farlocco
La solidarietà è farlocca
LaScienza è farlocca
Il gol è farlocco
Gli scudetti della Juventus sono farlocchi
Il sushi è farlocco
Milano è farlocca
Il voto è farlocco
La democrazia parlamentare è farlocca
L’integrazione è farlocca
Il vino è farlocco
La birra artigianale è farlocca
L’eubiotica è farlocca
Le tette sono farlocche
I selfie sono farlocchi
La rete è farlocca
Il papa è farlocco
La musica è farlocca
I denti sono farlocchi
Il sesso è farlocco
I soldi sono farlocchi
La professionalità è farlocca
Le banane sono farlocche
La legge è farlocca
Il bonifico è farlocco
La benzina è farlocca
La verità è farlocca

ad libitum.


Tutto questo è reale.