lunedì 30 dicembre 2019

The Farewell - Una bugia buona

"The Farewell - Una bugia buona" di Lulu Wang. Con Zhao Shuzhen, Awkwafina, X Mayo, Tzi Ma, Lu Hong, Kong Lin, Diana Lin, Gil Perez-Abraham, Ines Laimins, Jim Liu, Aoi Mizuhara e altri. USA, Cina 2019 ★★★½
Presentato al Sundance Festival all'inizio dell'anno e, in Italia, alla Festa del Cinema di Roma in ottobre, osannato dalla critica, The Farewell, ossia L'addio, "basato su una bugia vera", come precisa nel sottotitolo Lulu Wang, cinese di nascita e newyorkese di adozione, che l'ha scritto e diretto e parla per esperienza personale, è film di buona fattura e ben sceneggiato che affronta in modo originale, e gradevole, le differenze culturali e di mentalità tra Oriente e Occidente che, nel caso di Billi (la rapper Awkwafina, alter ego dell'autrice) convivono nella stessa persona, un'aspirante scrittrice nata a Pechino e trasferitasi a New York da bambina insieme alla famiglia, che pur essendo perfettamente integrata negli USA conserva un rapporto speciale con la nonna paterna, con cui si sente spesso al telefono, un'ex combattente rivoluzionaria che mai si sarebbe sognata di emigrare dalla Cina come hanno invece fatto i suoi due figli maschi: uno a fare il traduttore a New York, appunto, e l'altro, un artista, in Giappone. Succede che a Nai Nai, la nonna, viene diagnosticato un tumore ai polmoni in fase terminale e tutta la famiglia si accorda per raggiungerla a Changchun, nello Jilin, per un ultimo saluto con la scusa del matrimonio di un suo nipote, e cugino della ragazza, con una giapponese, senza dirle nulla sul suo stato di salute: a Billi viene sconsigliato di partecipare al raduno famigliare perché notoriamente incapace di trattenere le proprie emozioni. Lei naturalmente è di diverso parere e raggiunge il parentado in Cina, e nonostante tacere la verità alla nonna si scontri con le proprie convinzioni "americane" si presta alla pietosa bugia, che si completa con la contraffazione dei referti oltre che con la partecipazione di tutto il clan ai preparativi per la festa di matrimonio, a cui sovrintende l'arzilla vecchietta, che sicuramente non sarebbe tale, come saggiamente suggerisce l'antica e profonda cultura cinese, se sapesse che le rimangono poche settimane da vivere; saranno invece gli altri, e in particolare i maschi di famiglia, alla fine considerati poco più che dei fuchi dalla parte femminile (il che in realtà stride piuttosto con la mentalità cinese) a non essere capaci di trattenere le lacrime e di recitare uno stato d'animo sereno e festaiolo. Viene insomma affrontato, in maniera leggera e autoironica, un tema come la morte e quello del diritto a conoscere la proprie condizioni di salute, visto da due punti diametralmente opposti: quello individualista fino alla brutalità tipicamente americano e quello comunitario, che vede il singolo comunque inserito in un contesto, che sia quello famigliare, sociale o naturale, della cultura orientale in genere e cinese in particolare. Ricco di spunti divertenti, ben interpretato da tutti gli attori, ma in particolare da Zhao Shuzhen nella parte della nonna, girato con brio e dall'ambientazione molto realistica (tavola e cibo sono onnipresenti in Cina, e ogni occasione è buona per mangiare e riunirsi: ci sono molti aspetti in comune con Napoli, a cominciare dalla passione per i fuochi d'artificio e dall'arte di arrangiarsi), la pellicola ha a mio avviso tracce troppo evidenti degli stilemi tipici dei film indie statunitensi, ormai diventati quasi un genere a sé stante, e che non amo particolarmente. Comunque molto meglio di altre proposte tipicamente natalizie che abbondano in questo periodo. 

sabato 28 dicembre 2019

giovedì 26 dicembre 2019

Pinocchio

"Pinocchio" di Matteo Garrone. Con Federico Ielapi, Roberto Benigni, Marine Vacth, Gigi Proietti, Massimo Ceccherini, Rocco Papaleo e altri. Italia, GB, Francia 2019 ★★★★
Non ho mai amato molto le fiabe, men che mai quella celebre di Collodi, né particolarmente Benigni, mentre Ceccherini mi urta i nervi, ma pur temendo un toscanismo strabordante, mi sono fidato della regia di Garrone e ho fatto bene, per quanto i due sunnominati gigioneggino troppo per i miei gusti: Gigi Proietti, che interpreta mangiafuoco, non si sognerebbe mai, come nemmeno gli altri validissimi attori del cast, che riescono tutti a caratterizzare molto appropriatamente e con misura i personaggi di uno dei più famosi racconti per bambini di ogni tempo. A cui il regista rimane estremamente fedele (a differenza di quello disneyano, che tutti abbiamo negli occhi), avvalendosi di una fotografia eccezionale, dai colori spesso lividi e, attraverso una ricostruzione ambientale molto accurata, nonché una scelta di volti azzeccatissimi fra le comparse, gli consente di raggiungere un risultato che a mio avviso è il merito maggiore del film, ossia di fungere da testimonianza di quel che l'Italia fu in un tempo che non è poi così lontano: un Paese agricolo e arretrato, dove dominavano miseria e ignoranza (il romanzo per ragazzi Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino uscì in edizione definitiva nel 1883, in un periodo in cui cominciava l'emigrazione di massa di connazionali nelle Americhe) e dove fino a meno di un secolo fa le condizioni nelle campagne, e non solo quelle meridionali, non erano molto dissimili da quelle che si vedono sullo schermo. C'è da augurarsi che chi accompagna i pargoli digitalmente "nativi" di oggi a vederlo abbia l'accortezza di farglielo notare e che sia l'occasione di rinfrescare una memoria che, si sa, in questo Paese è quanto mai fragile e a brevissimo termine. L'atmosfera, che ha sempre un sottofondo inquietante, rimane costantemente sospesa tra il magico e il realistico, come spesso nei film di Garrone, che anche qui, come nel suo bellissimo Racconto dei racconti, invece di ricorrere a effetti speciali si affida all'altissimo artigianato di truccatori, costumisti e scenografi eccezionali, confezionando un prodotto di grande qualità e valore estetico. Una sicurezza.

lunedì 23 dicembre 2019

Pordenone, la fuga più bella!


Streghe e Ramarri dominano la Serie B. 
Alla Gazzetta si svenerebbero per un titolo così!

domenica 22 dicembre 2019

Ritratto della giovane in fiamme

"Ritratto della giovane in fiamme" (Portrait de la jeune fille en feu) di Céline Sciamma. Con Noémie Merlant, Adèle Haenel, Luana Bajrami, Valeria Golino, Cecile Morel. Francia 2019 ★★★★½ 
Benché sia un film in costume, per di più francese (le regista, le interpreti, la produzione) e anche militante, tre caratteristiche che, messe insieme, considerati i miei gusti (o, meglio, le mie idiosincrasie) fanno più di un indizio di pippone, ovvero una martellata sugli zebedei garantita, Ritratto della giovane in fiamme mi ha sorpreso e io sorprenderò i miei sparuti lettori assegnandogli qualcosa in più di 4 stelline al merito. Innanzitutto perché è stilisticamente perfetto, con una fotografia, sia di interni, sia d'esterni, estremamente efficace, ma soprattutto perché la regista, attraverso un racconto del tutto lineare e coerente, stimola una serie di riflessioni su aspetti diversi, dalla scoperta della sessualità alla libertà di scelta, in questo come in altri campi; dal significato dell'arte, e di quella che utilizza l'immagine in particolare, alla posizione delle donne in un universo completamente maschile: per farlo, sceglie un'epoca, alla vigilia della Rivoluzione francese, negli anni Settanta del 18° secolo, e un luogo molto suggestivo e isolato, un vecchio castello quasi disabitato sulla costa Bretone, dove giunge Marianne (Noémie Merlant), una giovane pittrice, figlia d'arte, incaricata dalla proprietaria (la Golino) di fare il ritratto di matrimonio della figlia, Eloise (Adèle Haenel, in una interpretazione superba, che mi ha fatto rimangiare quanto scritto su di lei in altre occasioni), promessa in sposa a un nobile milanese: l'esito dipenderà da se e quanto a questo perfetto sconosciuto piacerà l'immagine della ragazza ritratta. C'è un però: Eloise, che è stata ritirata dal convento di Benedettine dove trascorreva un'esistenza che tutto sommato gradiva (c'erano la musica e i cori, quanto meno, e i libri, e soprattutto, non c'erano la madre né gli obblighi famigliari che rappresentava), non ne vuole sapere né di posare né del matrimonio combinato, anche perché subentrerebbe alla sorella che, si immagina per lo stesso motivo, si era suicidata buttandosi giù da una scogliera: Marianne è così costretta a memorizzarne fattezze e le caratteristiche più dettagliate, scoprirne e rubarne, in qualche modo, l'anima durante le passeggiate che compiono all'aperto o durante le loro chiacchierate. Man mano ne guadagna la fiducia e l'amicizia ed entrambe rivelano sempre qualcosa di più si sé stesse, anche l'artista che ritrae Eloise che alla fine decide davvero di posare per lei, perché quello che si avvia è un rapporto di scoperta reciproca che nasce dall'osservazione e dai dettagli, per trasformarsi sì in una breve ma intensa relazione saffica, così emozionalmente significativa e profonda da segnarle però per l'intera loro vita. Il tutto in un mondo completamente al femminile, dove se la madre simboleggia la rassegnazione e il rimpianto di una donna che ha dovuto sottostare alle regole e nemmeno pensava lontanamente di poter avere un avvenire diverso da quello già preordinato per lei, la giovane domestica che assiste le due ragazze durante il soggiorno della pittrice nella magione, è il terzo lato di un triangolo di solidarietà tra donne o, come si suol dire, di "sorellanza". Come accennato Sciamma lavora molto per metafore e simboli, e se alcune scene sono perfettamente riuscite, quella in cui le due ragazze assistono e confortano la  giovane cameriera durante un aborto è un po' tirata per i capelli e può risultare sgradevole. Il risultato complessivo, però, è quello di una pellicola notevole, che parla di sentimenti ed è capace di smuoverli. Non so quanto abbia contribuito il fatto di essere dichiaratamente lesbica, ma l'interpretazione di Adèle Haenel è assolutamente memorabile. Sono pressoché certo che di tutti i titoli in uscita attorno a Natale questo sia il più valido per chi ama il cinema di qualità.

venerdì 20 dicembre 2019

L'onore perduto di Katharina Blum


"L'onore perduto di Katharina Blum", adattamento di Letizia Russo dal romanzo di Heinrich Böll. Con Elena Radoncich, Peppino Mazzotta, Francesco Migliaccio, Ester Galazzi, Maria Grazia Plos, Riccardo Maranzana, Jacopo Morra, Emanuele Fortunati. Regia di Franco Però; scene di di Domenico Franchi, costumi di Andrea Viotti; Luci di Pasquale Mari. Produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Napoli-Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Catania. Al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, il 20 dicembre 
Ottima e quanto mai attuale, in epoca di fake news a go-go e in cui sarebbe il caso di mettere in discussione il modo di fare informazionel'idea di portare in scena, adattandolo in un atto unico dal ritmo incalzante, il romanzo-pamphlet del Premio Nobel Heinrich Böll, scritto nel 1974 (l'anno successivo ne era stato tratto un film di successo diretto da Volker Schlöndorff e Margarethe von Trotta), nel pieno degli "anni di piombo" in versione tedesca, quando l'intera Germania era andata in paranoia per le azioni della Rote Armme Fraktion, più ancora che nell'Italia dove erano attive le Brigate Rosse, fomentata dalla stampa scandalistica e reazionaria, in testa la Bild Zeitung, ancora oggi il quotidiano più letto nel Paese e il più venduto in tutta Europa, appartenente al gruppo Springer. Colonia, mercoledì 20 febbraio, alla vigilia del famoso Carnevale delle donne:  Katharina Blum, un'irreprensibile governante di una famiglia di professionisti progressisti, mentre i suoi datori di lavoro si prendono una vacanza, per una volta si lascia andare e partecipa a una festa da ballo che si tiene in casa della madrina, dove incontra per caso Ludwig Göttes, che ignora essere un rapinatore sospettato di terrorismo, se ne innamora e trascorrono la notte insieme nell'appartamento di lei. Al risveglio lui chiede di aiutarlo a scappare e lei gli indica una via di fuga dalla casa circondata dalla polizia: quel che succede da  lì nei quattro giorni successivi, lo racconta, in flash back e ripercorrendo cronologicamente gli eventi, in un crescendo di palate di merda gettatale addosso dal turpe pennivendolo Werner Tötges, lo racconta la stessa protagonista, in scena per le due intere ore dello spettacolo, interpretata dalla brava quanto bella Elena Radoncich, dal momento in cui si costituisce dopo aver ucciso il giornalista, vendicandosi per le nefandezze e falsità che, per qualche copia in più, ha pubblicato dando in pasto ai lettori famelici di gossip e maldicenze la sua vita, manipolando i fatti e infangando non solo l'onore della giovane donna ma anche di ciò che rimane della sua famiglia e delle sue conoscenze, perché la campagna di denigrazione non si limita a colpire lei, con la polizia che non è in grado e non intende proteggerla, ma anche altri ambienti, ovviamente di sinistra e critici nei confronti di uno Stato sempre più repressivo: quel che appunto succedeva in Germania negli anni Settanta. L'allestimento è estremamente efficace: in una scena molto ben disegnata e realistica, suddivisa in spazi comunicanti da cui si esce ed entra non solo fisicamente ma anche temporalmente, via via salotto, camera di sicurezza in questura, stanza da letto, cucina e cella di un carcere, si incrociano interrogatori sempre più stringenti, il racconto di Katharina, le telefonate del pusillanime Tötges e le sue intrusioni nella privacy del prossimo (si fingerà perfino imbianchino pur di arrivare alla madre morente di Katharina, malata terminale in ospedale), i dialoghi della coppia per cui lavora la vittima degli scoop sempre più urlati, avvocato lui e architetto lei, i tentativi di un ricco costruttore di non rilevare che era lui il "visitatore maschile", mai denunciato da Katharina, che la ossessionava dandole il tormento pur di riceverne i favori. Come la violenza può svilupparsi e dove può portare era il sottotitolo quanto mai puntuale del romanzo di Böll, ma è anche una storia d'amore, che nasce dalla disponibilità di Katharina di uscire dagli schemi che si era imposta per dare ordine e sicurezza a una vita che poco le aveva dato, dalla sua generosità e onestà e dalla sua presa di socienza. Ottima prestazione della compagnia stabile del Friuli Venezia Giulia, con tutti gli interpreti perfettamente adatto al ruolo, su tutti a mio avviso Franco Migliaccio in quello del commissario di polizia, e la conferma delle qualità attoriali della Radoncich e di Peppino Mazzotta, fin qui volti noti di popolari serie TV come Montalbano e del cinema. 

mercoledì 18 dicembre 2019

Che fine ha fatto Bernadette?

"Che fine ha fatto Bernadette?" (Where'd You Go Bernadette?) di Richard Linklater. Con Cate Blanchett, Billy Crudup, Emma Nelson, Kristen Wiig, Laurence Fishburne, Zoe Chao, Judy Greer, James Urbaniak e altri. USA 2019 💩
Un film di rara insulsaggine, puerile, che sembra una produzione natalizia Disney venuta male, oltre a essere un'insopportabile marchetta targata Apple che, nell'occasione, si è tolta pure lo sfizio di perculare gli eterni rivali della Microsoft a domicilio, ambientando questa penosa commediola di buonisti sentimenti a Seattle, città odiata dalla protagonista, una Cate Blanchett tutta smorfie e mossettine (incomprensibile come un'attrice brava come lei si sia fatta coinvolgere in questa produzione) che interpreta Bernadette Fox, una donna nevrotica e tendenzialmente depressa, il cui universo da vent'anni ruota attorno alla figlia (a cui è morbosamente attaccata perché nata con un difetto cardiaco congenito poi risolto), il marito che la trascura, un ingegnere informatico nel ramo dell'intelligenza artificiale che lavora, per l'appunto, per la Microsoft ed è totalmente assorbito dalla sua attività, e una casa che in realtà sembra un maniero semidiroccato che ricorda la magione della famiglia Addams e che, a differenza di questo trio di bamboccioni (in cui la più sana è l'adolescente e saccente Bee), è la cosa più gradevole del film assieme ai pinguini e ad alcuni scorci dell'Antartico che si vedono nel finale della pellicola. In una sceneggiatura che non sta in piedi e concentra la vicenda, assolutamente inverosimile nel suo sviluppo e nelle tempistiche a ridosso, per l'appunto, di Natale, si scopre che Bernadette, prima di diventare una sociopatica che si sottrae alle "moscerine" del vicinato (ambiente bene e, ovviamente liberal: l'intellighenzia, si fa per dire, americana), cosa che di per sé la renderebbe pure simpatica, era in realtà un talento dell'architettura, va da sé ambientalmente friendly, salvo rifugiarsi a Seattle dalla California, dove era una star, dopo una delusione professionale e rivelandosi una donna sistematicamente in fuga: dalla sua "vocazione", dal prossimo e financo da sé stessa e dalla realtà finendo a interloquire con una sorta di tuttofare a distanza, tramite un'applicazione dell'immancabile iPhone, che si rivelerà essere in realtà un hacker russo la scoperta del quale, da parte del FBI, sarà la chiave di volta che risolverà d'incanto le psicosi della donna. La quale ritroverà sé stessa in Antartide, fuggendo di casa dopo aver distrutto quella della vicina (è un'architetta così brava da non sapere che le piante servono anche a evitare che dei terreni in pendenza franino: a una cretina del genere, peraltro specializzata nell'utilizzo di materiali reperibili "a chilometro zero", gli americani, che sono dei geni, affideranno la costruzione di una base al Polo Sud, l'unico luogo al mondo dove ogni cosa deve arrivare da migliaia di chilometri di distanza, e in questo caso, dagli USA). Perché l'Antartide? Perché era il luogo dove i Fox avevano programmato di fare una vacanza ma lei in realtà non voleva, ma nel corso di una specie di seduta di famiglia con assistenza, guarda caso, di una psicoterapeuta e dell'agente federale, capisce che andarci sarà la soluzione e così, fuggendo per l'ennesima volta, anticipa marito e figlia e là, tra pinguini ed elefanti marini, ritrova sé stessa e la propria creatività perduta, il tutto condito da situazioni altamente improbabili. Ah: alla fine anche il marito ritroverà sé stesso licenziandosi da Microsoft per avviare una carriera da nerd free lance e Bee la sua famigliola felicemente ricompattata. In altre parole, una favola scema per bambini deficienti: contenti loro...

lunedì 16 dicembre 2019

5 è il numero perfetto

"5 è il numero perfetto" di Igor Tuveri (Igort). Con Toni Servillo, Valeria Golino, Carlo Buccirosso, Angelo Curti, Marcello Romolo, Emanuele Valenti, Iaia Forte, Nello Mascia, Vincenzo Nemolato, Giovanni Ludeno, Mimmo Borrelli. Italia, Belgio, Francia 2019 ★★★★½
Bellissimo film: ne ero sicuro, anche perché il numero 5, per svariati motivi, è il mio talismano personale. Uscito a fine agosto, l'avevo perso perché in viaggio all'estero, e l'ho recuperato proprio in occasione di un'escursione in Friuli di Igor Tuveri, alla sua prima regìa, che è venuto a presentarlo ed è anche l'autore del romanzo a fumetti, uscito nel 2002, da cui è tratto. Ha raccontato che, appassionato da sempre di cinema, e cultore di quello di Hong Kong a cui non ha avuto esitazione di riconoscere di essere in debito, è stato Toni Servillo, dopo aver letto la sceneggiatura, a convincerlo, anzi: ordinargli, di mettersi dietro la macchina da presa e dirigerlo, e di quest'esperienza, a tratti surreale e comunque divertente, ha parlato dopo la proiezione al Centrale di Udine venerdì sera. Confesso di non aver letto la versione disegnata ai suoi tempi, e vedrò di procurarmela quanto prima; la pellicola in ogni caso è estremamente ben fatta, interpretata in maniera esemplare da attori che, mi assicurano, sono perfettamente aderenti ai personaggi su tavola. Toni Servillo, in versione del tutto calva e dotato di un naso aquilino estremamente pronunciato oltre che di un trench bianco alla Humphrey Bogart, è Peppino Lo Cicero, un sicario di camorra in pensione, cui viene ammazzato il figlio proprio dopo che questi aveva accettato, controvoglia, di raccoglierne il testimone, ricevendo per l'occasione in regalo dal genitore la mitica Colt Cobra calibro 38 come ferro del mestiere; torna così in azione, assieme al compare di sempre Totò Macellaro (Carlo Buccirosso) per vendicarne la morte, non esitando a scatenare una guerra contro la "famiglia" ai cui ordini sono stati per tutta la loro carriera di guappi. Siamo nel 1972, in una Napoli prevalentemente notturna, tenebrosa, innaturalmente deserta e quasi sempre flagellata dalla pioggia, le due presenze costanti sono l'acqua (Napoli è anche mare) che simboleggia cambiamento e rinascita, e la macchina da caffè (stranamente sempre una moka e mai la tradizionale cuccumella) e il caffè, a Napoli, si sa è un rito; e seguiamo così le peripezie dei due, coadiuvati da Rita (Valeria Golino), amante di vecchia data di Peppino cui ha sempre rimproverato di non voler cambiare vita. Sarà questa l'occasione, perché il vecchio killer apparteneva alla vecchia guardia (siamo nel periodo appena precedente le guerre di camorra che avrebbero portato alla vittoria della NCO di Raffaele Cutolo) e viveva la sua condizione di membro subordinato con una propria etica professionale e fedele a un codice d'onore che è stato tradito proprio da chi era ai vertici della famiglia d'appartenenza. Il film abbonda di sparatorie che sono in realtà vere e proprie coreografie che farebbero la gioia di Quentin Tarantino, che sicuramente apprezzerà, e non manca di colpi di scena, soprattutto quello finale, quando Peppino e Rita si trovano ormai da tempo sull'immaginaria isola di Parador, da qualche parte tra i Caraibi e l'America del Sud, e l'ex guappo racconta al barbiere italiano, che vi è emigrato già dal Dopoguerra, l'esito di quella resa dei conti. Vivamente consigliato: se il film vi dovesse sfuggire, segnalo che ne è appena uscito il DVD! 

sabato 14 dicembre 2019

Miserere

"Miserere" (Oiktos/Pity) di Babis Makridis. Con Yannis Drakopoulos, Evi Saoulidou, Nota Tserniavski, Makis Papadimitrou, Georgina Chryskioti, Evdoxia Androulikadi e altri. Grecia, Polonia 2018 ★★★★½ 
Un film semplicemente geniale, intercettato appena in tempo prima di finire fuori programmazione: mi aveva ingannato la locandina con un altro "uomo qualunque" in primo piano e il sottotitolo: ...e visse infelice e contento, simile a quella di un'altra pellicola che avevo visto e di cui al solito non mi ricordo il titolo ma qualcosa della trama, e infelicità e solitudine ne erano gli ingredienti di base. Qui abbiamo un uomo, un avvocato sulla quarantina, borghesia ateniese, una bella casa in riva al mare, e un piccolo talento al pianoforte come figlio, con la moglie in coma in ospedale per un qualche strano incidente, che si accorge man mano della bellezza della sofferenza e com'è gradevole essere compatito: dalla vicina di casa che gli porta la torta d'arance a colazione, dall'addetto alla tintoria che ha sempre una parole d'incoraggiamento, dalla segretaria che lo abbraccia al termine della giornata di lavoro, dall'amico che lo sostiene, dal vecchio padre che ha sempre un buon consiglio da dargli. La situazione in ospedale non migliora e a lui va bene così, ci si trova a proprio agio nel ruolo di commiserato, e si esercita pure, per immedesimarsi meglio in questa sua nuova versione di sé, a provare a manifestare la stessa empatia che pretende dagli altri con una coppia di fratelli a cui è stato ucciso il padre durante una stupida rapina a domicilio e che assiste professionalmente: è ovviamente falsa, una messa in scena, ma pian piano qualcosa cambia in lui, fino a fargli esercitare una vera a propria pretesa a essere compatito, rifiutandosi di rendersi conto che i suoi comportamenti anomali vengono tollerati proprio perché si sa che sta passando un periodo difficile. Tutto cambia con il ritorno a casa della moglie, risvegliata dal coma, e dunque a una vita normale, esattamente a metà del film, e da lì in poi per il nostro amico comincia una tragedia personale (a dir poco eccezionale l'interpretazione dai Yannis Drakoupoulos), perché si rende conto di quel che ha perso:  l'attenzione e la pietà del prossimo, e inizia così un avvitamento su sé stesso inesorabile, fino alle estreme conseguenze, per recuperare il gusto della sofferenza e quello che sente essere diventato un diritto alla benevolenza altrui, un percorso nel delirio solipsistico per piccoli, quasi impercettibili scartamenti fino all'epilogo che, ovviamente, vi risparmio. Detto della bravura dell'attore che interpreta quest'uomo senza qualità, sotto la forma di una commedia nera  pervasa da un humor corrosivo non facile da cogliere perché non espresso da parole bensì da situazioni, nonché dal volto imperturbabile del protagonista, il film porta alle estreme e paradossali conseguenze un atteggiamento e un modo di relazionarsi con sé stessi e col prossimo che in realtà è molto comune: autocentrato fino all'inverosimile, che si ritrova spesso in chi si crogiola nella sofferenza, nel lamento senza fine, gode e approfitta della malattia, possibilmente altrui, che diventa dolore da esibire senza ritegno, pur di essere al centro dell'attenzione e di succhiare le energie di chi capita disgraziatamente a tiro. Persone da evitare con cura, ma film da vedere senz'altro.

giovedì 12 dicembre 2019

Sfasamento temporale


Non era mia intenzione unirmi al profluvio di retorica, luoghi comuni, ipocrisia e ricostruzioni accomodate o monche che hanno accompagnato in questi giorni il cinquantenario della Strage di Piazza Fontana a Milano che cade oggi, anche se qualcosa di buono e di onesto c'è stato (come la puntata di Atlantide a cura di Andrea Purgatori ieri sera su La 7), ma fare una considerazione basata proprio sul mio ricordo personale di quel pomeriggio e sugli anniversari e le loro commemorazioni. Come quasi tutti i pomeriggi, verso le 16.30 ero uscito di casa, con la scusa di portare a spasso il cane, per andare all'edicola della Crocetta (alla confluenza di Corso di Porte Vigentina con quello di Porta Romana) a comprare l'ultimissima edizione del Corriere d'Informazione per mia madre (allora esistevano ancora i giornali del pomeriggio: l'altro edito a Milano era La Notte): stavo allungando le 50 lire per prendere la mia copia quando ho sentito distintamente il botto; mi trovavo a meno di 500 metri in linea d'aria dalla Banca dell'Agricoltura, erano le 16.37. Sono quei momenti che rimangono impressi indelebilmente della memoria, come quando avevo avuto la notizia dell'attacco alle Torri Gemelle l'11 settembre del 2001. Quattro conti: allora avevo 14 anni e mezzo, era il 1969, 50 anni fa. Nello stesso periodo dell'anno, nel 1919, a Fiume erano i giorni del Natale di Sangue, come l'aveva chiamato Gabriele d'Annunzio: in sostanza una vicenda di guerra civile con 44 morti fra legionari, soldati e civili, che avrebbe messo la parola fine all'Impresa di Fiume. Ebbene: nel dicembre 1969 nessuno, nemmeno i neofascisti (che di tutta la questione istriano-dalmata si sarebbero impossessati come fosse loro esclusiva) avevano celebrato alcunché. L'anno prima, nel 1968, sul cui cinquantenario sarebbero a sua volta stati versati oceani d'inchiostro, cadeva altresì il cinquantesimo anniversario della Vittoria della Prima Guerra Mondiale: le celebrazioni, lo ricordo bene, erano state molto meno scomposte di quelle che l'anno scorso si sono fatte, e non solo in Italia, per l'anno formidabile per definizione. Insomma: ne sono cambiate di cose, in 50 anni, a cominciare dalla percezione del tempo e dei fatti. Quello che non cambia mai è la memoria monca, o di parte, e uno Stato che è un muro di gomma e al massimo si autoassolve, come nel caso di Piazza Fontana: vedi le formelle coi nomi delle 17 vittime della strage (tra cui naturalmente manca quello di Giuseppe Pinelli, che una vergognosa lapide nelle vicinanze  posta dal Comune di Milano definisce Ferroviere anarchico tragicamente morto nei locali della Questura, come se fosse deceduto per caso) scoperte lunedì scorso tra i porfidi attorno alla fontana che dà il nome alla piazza. Recita la prima: ordigno collocato dal gruppo eversivo di estrema destra Ordine Nuovo, ossia l'organizzazione di cui erano capi Franco Freda e Giovanni Ventura, che la sentenza della Cassazione del 2005, addebitando le spese processuali ai parenti delle vittime, aveva ritenuto non più processabili in quanto assolti in via definitiva nel 1987. Sentenza dello Stato. Che non c'era, e se non c'era dormiva. E lo certifica lui stesso. Quello stesso Stato oggi rappresentato da Sergio Mattarella, che in giornata parteciperà alla seduta del Consiglio comunale di Milano, per poi recarsi sul luogo della strage. Anche in questa occasione, da una parte  le "istituzioni democratiche" (si fa per dire) e i partiti, che ricordano a modo loro (omettendo volentieri, e questo lo ricordo bene io, quanto all'indomani della bomba avessero  avvalorato la "pista anarchica", compreso il PCI, tirando in ballo i precedenti dell'attentato al Cinema Diana del 1921: l'eccezione furono i socialisti) coi loro consueti rituali, il buonismo e l'antifassismo d'ordinanza e gli anarchici dall'altra. Io sto con questi. Come il 12 dicembre del 1969 e tutti gli altri che sono seguiti.



martedì 10 dicembre 2019

Cena con delitto

"Cena con delitto" (Knives Out) di Rian Johnson. Con Daniel Craig, Ana de Armas, Chris Evans, Jamie Lee Curtis, Michael Shannon II, Don Johnson, Toni Colette, Christopher Plummer, Katherine Langford e altri. USA 2019 ★★★★
Impianto solido, sceneggiatura frizzante e ricca di battute sottili che dimostra che non ci si sta prendendo sul serio ma che non si è per questo fatui o cretini; schema che più classico non si può: un giallo nello stile di Agatha Christie con caccia all'assassino in un ambiente circoscritto (in questo caso la magione del morto, scrittore di gialli di grande successo, apparentemente suicida), cast di prim'ordine ed estremamente affiatato: si percepisce che tutti gli interpreti se la stanno spassando prima ancora che recitando, ossia lavorando; regìa professionale e dalla mano felice fanno di Cena con delitto un film perfetto per divertirsi con intelligenza rilassandosi, e quindi lo consiglio vivamente a chi è alla ricerca di questo. Siamo in una villa dallo stile un po' antiquato nel Massachusetts, nell'angolo più snob degli USA, dove sta di casa quella che si ritiene l'élite intellettuale del Paese, e un bel mattino, quello successivo alla cena di famiglia per il suo 85° compleanno, una cameriera che gli sta portando la colazione trova il cadavere di Aron Thrombey: apparentemente un suicidio, anche se ha la gola squarciata. Sulla scena accorre la polizia, che comincia a interrogare tutti coloro che erano presenti, una famiglia composita decisamente originale, nonché la servitù; è presente anche un detective privato (Daniel Craig), assunto "anonimamente" da uno dei famigliari, che inizialmente assiste silenzioso, ma diventa poi il vero conduttore dell'indagine, convinto sempre più che si tratti di un assassinio. Perché figli e nipoti di Aron sono sì strampalati e tutti in conflitto tra loro (si va dal neonazista alla estremista di sinistra, dalla scroccona all'imprenditrice di successo, in mezzo tradimenti e colpi bassi), uniti però dallo scopo di entrare in possesso della cospicua eredità del morto e alleati quando si tratta di combattere contro l'abusiva, l'estranea, la straniera, al di là della correttezza politica più ipocrita che ci sia: Marta, l'infermiera di Aron, di origini latinoamericane, la cui madre ha problemi con la Green Card, col tempo diventata confidente, amica e infine la persona più cara al vecchio patriarca a cui, si scoprirà alla lettura del testamento, le ha lasciato l'intera eredità. Mi guardo bene dal raccontare qualcosa di più della trama, perché con un thriller non si fa, a meno che non sia così orrendo da sconsigliarlo. Tutti bravi, a cominciare da Daniel Craig (l'unico 007 credibile dopo Sean Connery: non mi stancherò mai di ribadirlo, e a prescindere da questo un attore coi fiocchi) e la coprotagonista principale Ana de Armas (Marta), già apprezzata in Blade Runner 2049 ma anche tutti gli altri sono all'altezza. Oltre a essere un gioco a incastro, è anche, tra le righe e discretamente, un ritratto sferzante e quanto mai attuale dell'America bianca di questi tempi (ma anche di sempre). Andate tranquilli: non resterete delusi.

domenica 8 dicembre 2019

Pad Man

"Pad Man" di R. Balki. Con Akshai Kumar, Soman Kapoor, Radhika Apte, Riva Rubber,  Urmila Mahanta, Jyoti Subhash, Suneel Sinha, Amithab Bachchan e altri. India 2018 ★★★+
Uscito un anno dopo Toilet, e sulla sua scia quanto a genere e intenzioni pedagogiche, sicuramente encomiabili, Pad Man non ne raggiunge però le vette assolute, benché si avvalga dello stesso interprete principale, il benemerito Akshai Kumar, attore idolatrato in India e che non esita a metterci la faccia quando si tratta di sostenere cause meritorie per la salute e l'educazione delle classi subalterne del suo Paese, e soprattutto combattere pregiudizi tanto più tenaci quanto più affondano nelle tradizioni e superstizioni religiose millenarie, e si basi sulla storia vera dell'imprenditore "sociale" Arunachalam Muruganantham, romanzata da Twinkle Kamma nel suo racconto Sanitary Man of Sacred Land, inventore di una macchina per la produzione di assorbenti femminili a basso costo, di cui si è rifiutato di vendere il brevetto a grandi aziende preferendo metterlo a disposizione, in una sorta di franchising, di cooperative femminili per installarle nelle zone rurali e favorirne sia l'imprenditorialità sia, soprattutto, il miglioramento delle condizioni igieniche attraverso l'approvvigionamento di pannolini a un prezzo irrisorio rispetto a quello delle multinazionali del ramo che riforniscono le farmacie: ora le linee produttive di sua invenzione sono presenti in 23 dei 29 Stati indiani. Tutto nasce dall'amore che Lakshmi Chauhan, che vive in una città del Tamil Nadu, nell'estremo Sud del Paese, ha per la giovane moglie Gayatri: quando si accorge che durante i giorni del ciclo non solo si isola, come da tradizione delle donne locali, in un alloggio di fortuna fuori dall'abitazione di famiglia, ma utilizza come pannolino sempre lo stesso straccio l'uomo, dall'intelligenza vivace e ottima abilità manuale, oltre che provvisto di una certa cultura benché abbia dovuto interrompere gli studi a 14 anni, prima va in farmacia a comprare un pacchetto di assorbenti per la consorte, che però si rifiuta di usarli oltre a essere sconvolta dal loro prezzo; poi comincia a escogitare come fabbricarne di artigianali a un prezzo accessibile, e delle vicissitudini in questo percorso racconta la pellicola, tra lotte ai pregiudizi dei concittadini, problemi di finanziamento, l'abbandono da parte della moglie sobillata dai famigliari, gli sberleffi perfino da parte dei professori da cui cerca di attingere la conoscenza mettendosi al loro servizio. Ce n'è per tutti, dunque, in questa pellicola, sia per l'ignoranza retrograda incoraggiata dai religiosi, sia per l'arroganza e la spocchia di quell'intellighenzia che si vorrebbe illuminata e progressista, finché  Lakshmi non trova in una giovane e colta ragazza di Delhi, deliziosa suonatrice di tabla e figlia di un professore universitario di vedute moderne e laiche, colei che "testa" il suo prodotto quando finalmente, usando della pasta di cellulosa invece che del cotone, riuscirà a ottenerne il modello che aveva in mente e che funziona, nonché colei che lo aiuta a lanciare il suo prodotto convincendo, da donna, altre donne, altrimenti non disposte a parlare di un argomento, come le mestruazioni, ritenuto tabù, con un uomo; infine sarà lei a suggerirgli di presentarsi nel 2006 all'Istituto Indiano di Tecnologia dove conseguirà il premio per la migliore invenzione innovativa e da lì arriverà fino a tenere un discorso all'UNICEF, al Palazzo di Vetro di New York. Non si monterà la testa, proseguirà nella sua opera mantenendosi fedele ai suoi principi, e ritornerà al suo villaggio e alla sua Gayatri, il che rientra nello schema bollywoodiano ma corrisponde pure al vero. Rispetto a Toilet il film è meno scoppiettatante e sciolto, ma si fa comunque vedere ed è ben confezionato, e merita ampiamente la sufficienza.

venerdì 6 dicembre 2019

Toilet

"Toilet" (Ek Prem Katha) di Shree Narayan Sing. Con Akshay Kumar, Bhumi Pednekar, Anupam Kher, Rajesh Sharma, Divyendu Sharma, Sudhir Pandey e altri. India 2017 ★★★★★
Di regola in questo blog recensisco unicamente film che vedo su grande schermo, spettacoli dal vivo e partire di calcio cui assisto allo stadio: faccio però volentieri eccezione, su richiesta di mio cugino Ado, un'anima punk, autentico gourmand del kitsch nonché riconosciuta autorità in nefandezze multimediali, che già da tempo mi aveva segnalato questo titolo particolarmente stimolante come un capolavoro e che ho rintracciato su Netflix. La visione ne è valsa la pena, concordo col suo giudizio e lo consiglio a chiunque, ma particolarmente a coloro che dell'India hanno un'idea mediata da suggestioni misticheggianti o, altrimenti, influenzata dalle proprie proiezioni. Toilet (inteso come letteralmente come cesso) è il titolo internazionale della pellicola che invece, nella lingua d'origine, suona come Una storia d'amore e non si riferisce a uno dei due soggetti, maschile e femminile, della coppia che ne è protagonista (Bhumi Pendekar, che interpreta Yaya, una studentessa universitaria "evoluta" è decisamente una bella ragazza e anche Akshay Kumar, attore famosissimo in India e in questo caso coproduttore del film è un uomo dall'aspetto gradevole) bensì proprio al water e, per esteso, al locale in cui si espletano le funzioni fisiologiche: è proprio attorno a questo oggetto che ruota la vicenda, che è una storia d'amore sì, in stile bollywoodiano (che, bisogna riconoscerlo, ha un suo perché e, tecnicamente, ha poco da invidiare a quello americano a cui fa il verso), ma anche e soprattutto di emancipazione, dove il film (con tanto di canzoni sdolcinate, balletti e coreografie spettacolari e multicolori, doppi sensi e battute che evidentemente piacciono al pubblico locale che, non dimentichiamolo, è quello più "cinematografaro" sull'intero pianeta) ha una funzione educativa e civile, il tutto in una visione sorprendentemente umanista e laica, profondamente tollerante. Brevemente la trama: Keshav è un trentaseienne che, col fratello, gestisce un negozio di biciclette in un villaggio dell'Uttar Pradesh (quasi ai confini col Nepal) ed è vittima sacrificale dei pregiudizi del padre, un bramino tradizionalista che lo costringe a contrarre un matrimonio rituale con una bufala nera perché questo porta vantaggi alla comunità e asserisce che, per non contraddire le indicazioni dell'oroscopo natale, potrà sposarsi con una donna in carne e ossa soltanto se la prescelta sarà in possesso di due pollici sulla stessa mano: quando incontrerà Yaya, una giovane studentessa pure lei proveniente da una famiglia di bramini, però decisamente laici, scoppierà l'idillio e, per  convincere il padre, la doterà di un pollice fuoriserie, ossia posticcio. Come da tradizione, dopo il matrimonio la sposa si traferisce nella casa paterna dello sposo, ma c'è un problema: nell'abitazione manca un bagno come lo intendiamo noi, perché tradizione vuole che gli uomini provvedano a fare i propri bisogni all'esterno (cosa tutt'ora piuttosto frequente in India, specie in ambiti rurali), e non necessariamente in luoghi particolarmente appartati, mentre le donne sono costrette a uscire dal villaggio e lo fanno prima del sorgere del sole, coordinandosi tra loro (in tutti i sensi: anche i ritmi della defecazione) per farlo in gruppo, cercando di evitare incontri imbarazzanti o, peggio, di essere vittime di agguati sessuali. Yaya ne è sconvolta, essendo abituata a una gestione privata della feccenda in un locale adeguato, e si ribella: dapprima Keshav si ingegna con qualche rimedio che però rimane sempre un escamotage, come già fu quello del pollice, per ingannare il padre, ma la ragazza si stufa di questi mezzucci, e dopo aver tentato di guidare alla rivolta le altre donne del villaggio ed essersi scontrata col suocero, pur essendo innamorata del marito si separa da lui tornando dai genitori. A questo punto Keshav si convince che deve prendere in mano la situazione e provvedere, e alla fine affronterà padre, tradizioni che nascono da pregiudizi, amministrazione locale (la burocrazia indiana è mitica per la sua elefantiasi e complessità delirante), politici (corrotti), media e alla fine, come in ogni buona commedia di questo genere, il bene, o meglio: il buon senso trionferà, ma il fatto che si tratti anche, se non soprattutto di cinema civile, nonostante le apparenze, non sfugge: per di più non annoia e mette di buon umore, e aiuta a capire almeno un po' un Paese che è un vero subcontinente, tanto è complesso, così lontano ma anche così vicino e, per tanti versi, famigliare: si respira un'"aria di casa" come da nessun'altra parte in Oriente, compreso quello medio, o almeno è quello che ho provato io quando, una quindicina di anni fa, l'avevo visitato. Se vi capita sotto mano, guardatelo e fatemi sapere!

mercoledì 4 dicembre 2019

Un giorno di pioggia a New York

"Un giorno di pioggia a New York" (A Rainy Day in New York) di Woody Allen. Con Timothée Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez, Jude Law, Diego Luna, Liev Schreiber, Cherry Jones, Kelly Rohrbach e altri. USA 2019 ★+
Per fortuna i film di Woody Allen di solito non sono molto lunghi, perché difficilmente avrei resistito oltre l'ora e mezzo che dura questo sua ultima, francamente penosa pellicola, la 49ª della serie, la cui diffusione era rimasta impantanata per un paio d'anni in seguito a una causa milionaria tra il regista e la Amazon Studios che l'aveva prodotta e poi ne aveva bloccato l'uscita in seguito allo scoppio del "movimento" #MeToo. Penosa perché stancamente ripetitiva, sempre New York, anzi: Manhattan; sempre gli stessi ambienti; sempre le stesse battute, e sempre più stantìe; in più citazioni colte a go-gò, specie in bocca al personaggio principale, di nome, guarda caso, Gatsby, un giovane, presuntuoso e irritante ricco rampollo newyorkese (Chalament, una faccia da sberle adeguata al ruolo) e che gioca a fare il dandy, che per ripicca a un'educazione rigida e pedantesca voluta dalla madre, ripiega su un college di seconda fila anziché continuare a studiare in un'università dell'Ivy League, fuori città, dove fa gli riesce bene fare l'intellettuale ribelle, vissuto e anche vizioso (fuma, beve, gioca e vince pure); lì conosce Ashleigh (Fanning: pessima), la classica bambolotta americana bionda e scema col fisico da cheerleader e vestita in maniera improbabile per una ventenne, di Tucson, Arizona, la cui famiglia possiede numerose banche in quello Stato, che per il giornale dell'Università è stata incaricata di fare un'intervista al famoso regista Polland, giusto a Manhattan, così i due ragazzi decidono di approfittarne per trascorrere un fine settimana là e lui avrà da un lato l'occasione per spandere ulteriore merda e mostrare alla povera scema provinciale quelle parti della città che predilige (piano bar rétro, il MoMa, l'albergo di lusso dove alloggiano e altri posti simili) evitando accuratamente di partecipare all'annuale party letterario organizzato dalla genitrice. Peccato che niente vada come avevano programmato: l'intervista invece che un'ora coinvolge la ragazza per tutta la giornata in una serie di avventure inaspettate, dalla visione in anteprima del film di Pollard, alle crisi creative e depressive di quest'ultimo, all'incontro con il di lui sceneggiatore (rispettivamente Leiv Schreiber e Jude Law, che si salvano) e infine con un celebre attore latino americano che la seduce; lui nel frattempo gira per la città, incontra vecchie conoscenze tra cui Shannon (Selena Gomez: inguardabile, e per di più doppiata da cani), la sorella minore di un'ex fidanzata... Infine durante la visita di una mostra incrocia dei parenti per cui non potrà negare di essere in città e dovrà partecipare al raduno famigliare: spenderà 5000 dollari per farsi accompagnare da una escort che incontra mentre si sta sbronzando perché ha scoperto, da un servizio in TV, che Ashleigh l'ha tradito col bellimbusto ispanico. Una storiella senza succo e senza un perché che è una scusa per introdurci per l'ennesima volta negli unici ambienti che Allen pare conoscere: quelli degli intellettuali nevrotizzati e un po' nostalgici da un lato e quelli danarosi dall'altro, dove esistono solo bianchi e uno su due è ebreo, i neri non risultano e gli ispanici sono soltanto attori; per di più, da parte dei protagonisti, recitata in maniera imbarazzante, tutta smorfie e mossettine. Il tutto mentre fuori piove ma si sa: Manhattan è sempre magica, per come la vede Allen, e unica. Si salvano il jazz e un'unica trovata geniale, quando la madre del giovane stronzo lo prenderà in disparte e gli rivelerà che è un autentico figlio di puttana. Perché anche i soldi e tutta la prosopopea da bifolchi rifatti viene da qualcosa di inconfessabile. Insomma, decisamente poco e non sufficiente per giustificare un simile inciampo. Che non è imputabile soltanto alla veneranda età dell'autore, che anche di recente aveva saputo mostrare ben altra vena. Qui si avverte solo stanchezza e noia. 

lunedì 2 dicembre 2019

The Irishman

"The Irishman" di Martin Scorsese. Con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Bobby Carnevale, Ray Romano, Anna Paquin, Stephan Graham, Jack Huston, Jesse  Plemons e altri. USA 2019 ★★★★★
In molti hanno parlato di una sorta di testamento di Martin Scorsese: di sicuro è un capolavoro, e la chiusura di un cerchio nel raccontare la mafia italo-americana che ha portato da Quei bravi ragazzi (Goodfellas) a questi vecchi ex ragazzi di cui Frank Sheeran (qui Bob De Niro), l'Irlandese appunto, è un sopravvissuto: è lui che narra la sua stessa storia, ricoverato in un ospizio, dove nessuno si ricorda di chi fosse l'uomo di cui era diventato il migliore amico e che confessa di avere eliminato: Jimmy Hoffa (Al Pacino: per la prima volta i due mostri sacri hanno recitato insieme in un film diretto dal loro amico regista), l'onnipotente capo del sindacato degli autotrasportatori, ai suoi tempi più famoso ancora di Elvis Presley e dei Beatles messi assieme, nonché acerrimo rivale dei Kennedy, soprattutto di Bob, procuratore generale durante gli anni di presidenza del fratello Jack. E dalla biografia-confessione fatta all'avvocato ed ex PM Charles Brandt è tratta la pellicola, in cui Sheeran/De Niro ripercorre la sua carriera di uomo di fiducia di Russell Bufalino, boss di Filadelfia, la sua città, e personaggio di spicco, nonché grande garante degli equilibri all'interno delle cosche (qui ha il volto di Joe Pesci, che eccezionalmente interpreta un personaggio "sotto tono"): Frank, che dopo l'esperienza in guerra in Italia (dove aveva imparato la lingua, cosa che gli gli consenti di guadagnarsi la fiducia dei paisà) era diventato un camionista che faceva sparire qualche carico di carne durante le consegne, lo aveva conosciuto quando si era rivolto a suo figlio, avvocato, dopo essere stato scoperto, e da quel momento ne era diventato un tuttofare, oltre che amico di famiglia e sicario per suo conto, fino a quando lo mise in contatto con Jimmy Hoffa, di cui divennnel'ombra, dirigente sindacale nonché confidente, tuttavia ligio al dovere e ai legami "che non si discutono" quando si trattò di toglierlo di mezzo quando, dopo essere stato incarcerato per alcuni anni, Hoffa volle tornare alla guida del sindacato. E non per uno scrupolo morale: Frank non ne ha mai avuti, semplicemente perché "così deve essere", così non si è mai chiesto perché Peggy, la sua figlia maggiore, al corrente della "carriera" del padre senza che lui ne abbia mai fatto cenno, si sia allontanata da lui fino a rifiutarlo, né si è mai pentito, nemmeno davanti al prete che lo confessava. In tre ore e mezzo dense, necessarie a sviluppare la storia a diversi livelli  - non manca la parte on the road, anzi: è il filo conduttore della narrazione - e che sono il tempo necessario a esporla pienamente, Scorsese parla sì di mafia, e soprattutto del senso dei legami tra gli uomini che ne fanno parte e della storia americana dei decenni tra i Quaranta e i Settanta, ma soprattutto del tempo che passa ineluttabilmente per tutti e quindi della vecchiaia, tanto è evidente, anche a Frank, che quel mondo è ormai tramontato, come forse anche il modo di raccontarlo, attraverso il cinema, cosa che Scorsese ha saputo fare come nessun altro, assieme a Coppola. Imperdibile.

sabato 30 novembre 2019

L'ufficiale e la spia

"L'ufficiale e la spia" (J'Accuse) di Roman Polanski. Con Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner, Grégory Gadebois, Hervé Pierre, Didier Sandre, Wladimir Yordanoff, Mathieu Amalric. USA 2019 ★★★★★
Film perfetto: da un punto di vista formale e tecnico, perché quando alla ricostruzione storica di una vicenda intricata ed emblematica ci pensa un maestro come Roman Polanski si va sul sicuro; sia per le tempistiche e l'argomento, quanto mai attuale. Che non è, come potrebbe sembrare, l'antisemitismo - di cui, sicuramente, Robert Dreyfus, capitano d'artiglieria dell'esercito francese, fu vittima  quando, nel 1895 (guarda caso l'anno in cui  nacque ufficialmente, proprio a Parigi, il cinema con il primo film dei fratelli Lumière) venne degradato e condannato al confino in un isolotto della Guyana con l'infamante accusa di aver passato informazioni ai nemici tedeschi - ma piuttosto di principi etici: verità, giustizia ed equità. Principi in base ai quali il colonnello Georges Picquard (un ragguardevole Jean Dujardin), che ebbe come allievo Dreyfus alla scuola militare, una volta divenuto capo della Sezione Statistica, lo stesso ufficio che aveva montato il caso contro l'ufficiale, conduce nuovamente l'inchiesta quando si accorge che non solo il passaggio delle informazioni delicate ai tedeschi continua, ma che era basata su un documento falso che tutto l'apparato di potere, dai militari in quell'epoca imperanti, ai grafologi e alla magistratura avevano dato per buono pur sapendo che non lo era e occultando le prove a favore dell'accusato: ché la Ragion di Stato, nonché la convenienza personale, vengono prima di tutto. E questo nonostante Picquard non abbia alcuna simpatia per il personaggio, in verità odioso, né per gli ebrei in generale: verrà ostacolato in ogni modo sia dal governo, sia dai capoccioni dell'esercito (un gruppo estremamente ben assortito di ottimi caratteristi li interpreta in maniera esemplare) che lo hanno in pugno, sia dalla prevalente stampa che propala senza fare una piega quelle che oggi si chiamano fake news e contribuendo ad aizzare i peggiori istinti delle masse pronte a bersi di tutto, soprattutto a lanciarsi addosso al capro espiatorio di turno che le viene dato in pasto. Se la prenderanno con Picquard (che verrà allontanato dall'incarico e spedito per anni a fare ispezioni nelle varie guarnigioni sparse fra territorio metropolitano e colonie e poi perfino arrestato), con la sua compagna, perfino con Emile Zola e con quella parte della stampa che non ha fatto proprie le verità ufficiali. Ce l'avrà vinta, alla fine, il coraggioso Picquard, e con lui quei pochi, tra legali e intellettuali alla ricerca della verità senza farsi guidare dai pregiudizi, e diventerà perfino generale e ministro, dopo lo scagionamento e la riabilitazione Dreyfus, il quale invece di ringraziarlo gli chiederà di rimuovere una legge ingiusta che gli ha impedito di ottenere come risarcimento un avanzamento di grado: gli toccherà opporgli l'opportunità politica di non sostenere, in quel momento, l'abrogazione di una legge che lui stesso ritiene ingiusta, così come a suo tempo aveva ritenuto ingiusta la condanna di Dreyfus. C'è tutto, in questo film, comprese le motivazioni personali di Polanski, vittima da anni di accuse assai dubbie, e tanti aspetti su cui riflettere, a cominciare dalla manipolabilità delle masse da parte dei poteri di turno, in una pellicola attuale, profonda, in cui ogni dettaglio è curato alla perfezione e ha un suo significato, anche ironica e, in alcuni tratti, perfino leggera, perché il tocco grottesco in Polanski non può mancare. Da non perdere.

giovedì 28 novembre 2019

La famosa invasione degli orsi in Sicilia

"La famosa invasione degli orsi in Sicilia" di Lorenzo Mattotti. Con le voci di Toni Servillo, Antonio Albanese, Linda Caridi, Maurizio Lombardi, Corrado Guzzanti, Corrado Invernizzi, Andrea Cmilleri. Italia 2019 ★★★ +
Mattotti come disegnatore non si discute (peraltro in questo suo esordio nei cartoon si ispira al Buzzati pittore - oltre che giornalista e scrittore e, lo ricordo, autore di una delle prime graphic novel, come si suol dire oggi, mai pubblicate: Poema a fumetti, 1969 -) ma una cosa sono i disegni statici, si tratti di fumetti o copertina di riviste, e un'altra quelli animati, e questo spiega la mancanza di fluidità con cui scorre sullo schermo questa fiaba illustrata tratta dall'originale del grande autore bellunese del 1945, e la cui morale, nel suo lucido e preveggente pessimismo, è più che mai valida al giorno d'oggi: l'umanità è corrotta e come tale contamina tutto, anche i più puri. In questo caso gli orsi che, come racconta il cantastorie Gedeone, rifugiatosi dopo una copiosa nevicata assieme alla sua aiutante Almerina in una grotta presidiata proprio da un vecchio orso, e a cui viene propinata, un tempo avevano invaso le lande abitate dagli uomini. Accadde quando Leonzio re degli orsi, decise di recuperare il figlio Tonio, rapito da un gruppo di cacciatori umani, e scese a valle assieme ai suoi simili, anche perché a corto di cibo. Accolto a pallettoni dall'esercito del malvagio Granduca che governava, tiranneggiandoli, gli umani dell'isola, lo sconfisse dando vita a un regno in cui questi ultimi convivevano pacificamente con gli orsi. I quali, a cominciare proprio da Tonio, che venne ritrovato in un circo dove era stato ammaestrato a fare il ballerino, e dal vanitoso e ambizioso consigliere di Leonzio, Salnitro, ci avevano messo poco ad assimilare tutti i peggiori vizi degli umani. Meglio tornare sulle montagne, e alla vita da orsi, se il costo del "progresso" è la degenerazione. Ribadisco: Buzzati questo lo diceva, e disegnava, nell'anno in cui finì la Seconda Guerra Mondiale, qualcosa come 74 anni e mezzo fa. Favola per bambini a adulti, ben disegnata e molto colorata ma che ha qualcosa di ingessato che rende il cartone poco... animato. Comunque, un'idea meritoria per una trasposizione mai facile dell'opera di Buzzati, coi suoi tratti surreali e metafisici, sullo schermo.

lunedì 25 novembre 2019

Fischia la fine...


E' inevitabile, allo stadio, quando la propria squadra del cuore sta vincendo col minimo scarto, magari immeritatamente e con un gol segnato di straforo, e si cominciano a percepire, dal progressivo spostamento del baricentro del gioco verso la propria metà campo, le crescenti difficoltà a difendere il vantaggio, che si levi da più parti l'ironico, quanto accorato invito all'arbitro di fischiare anticipatamente la fine dell'incontro, anche quando si è appena al 20' del primo tempo: è un auto-sfottò, qualcosa che ha a che fare con la scaramanzia, malattia congenita che accomuna i tifosi di qualsiasi età, latitudine, credo, etnia, ceto sociale (motivo per cui non bisogna mai augurare a chi si accinge ad andare al campo a soffrire - perché di questo si tratta - "buona partita" o "divertiti": tutt'al più "che vinca il migliore" - immancabile la risposta, citando il compianto Paròn Nereo Rocco: "speremo de no"). Ecco, se un ipotetico direttore di gara, il supremo arbitro della Serie B fischiasse in questo momento la fine del torneo, giunto a un terzo del suo percorso, il piccolo, grande Pordenone, alla prima esperienza nella serie cadetta in cento anni di storia, in questo momento sarebbe secondo da solo in classifica dietro le Streghe del Benevento, e promosso direttamente in Serie A senza dover passare per i play-off. "Squadra rivelazione", "Sorpresa neroverde": fino a un certo punto, per chi segue i ramarri da qualche anno; "Miracolo Pordenone": miracolo un accidente, come ha ribadito ancora qualche settimana fa il presidente Mauro Lovisa: “In questi giorni  tanti ci associano la parola miracolo. Ma i miracoli non esistono nel calcio. I risultati, in questo caso straordinari (in continuità con il recente passato) e chiaramente sopra le aspettative generali, sono il frutto della programmazione, dell’organizzazione societaria e del lavoro di tutti. Di un progetto sportivo e sociale, con Tesser come straordinario valore aggiunto, in cui ci sono ruoli chiari e definiti. Non conosco altri segreti. Continuiamo così, insieme: club, staff tecnico, calciatori, tifosi e tutto il territorio che ci sostiene. La strada è ancora lunga”. Ecco: quello che manca è proprio l'ultimo aspetto, il territorio. Intendo la città, la sua amministrazione, i politici in generale (salvo alcune lodevoli eccezioni come l'ex sindaco Bolzonello), la gran parte degli imprenditori locali, la provincia in generale che, calcisticamente parlando, tranne il capoluogo, Caneva e Sacile, guarda piuttosto all'Udinese. Sul progetto del nuovo stadio, poi, tutto tace da oltre un mese, e tanti abbonati cominciano a pensare "manco mal", se la soluzione "di ripiego" per le gare interne, grazie a un accordo tra Lovisa e i Pozzo, è lo Stadio Friuli di Udine, alias Dacia Arena, probabilmente il migliore impianto attualmente disponibile in Italia, a 45 km dalle sponde del Noncello. Sabato, a ogni buon conto, pur sotto alla pioggia battente, a tratti di tipo monsonico, ho assistito non solo a una delle migliori prestazioni dei ramarri nell'ultimo quadriennio, ma a una delle partite più belle e soddisfacenti in assoluto degli ultimi dieci anni, specialmente il secondo tempo, quando ho visto all'opera una vera squadra, che è poi la caratteristica dei ramarri: quella di essere un gruppo estremamente coeso, e in particolare di tutte le formazioni allenate da Attilio Tesser, al di là della sua capacità unica di disporre in campo i suoi giocatori senza snaturare mai il gioco, sia nelle partite casalinghe sia in trasferta. Un'ultima notazione: nella rosa del Pordenone c'è un solo giocatore straniero, il terzo portiere, Jan Jurczac, un ragazzo polacco di 18 anni in prestito dall'Escola di Varsavia, perché non lo è Lucas Chiaretti, oriundo brasiliano con doppia nazionalità, e quasi la metà dei giocatori sono nati nel Triveneto (il capitano De Agostini e il centravanti Strizzolo sono di Udine); in quella dell'Udinese mi risultano tre soli italiani, nessuno dei quali nato da queste parti, e meno che mai proveniente da un vivaio un tempo tra i più prolifici (ora soltanto per i portieri). Un peccato. Quindi bravi ragazzi, grazie presidente e Forza, ramarri, Forza Pordenone! 

venerdì 22 novembre 2019

La Belle Époque

"La Belle Époque" di Nicolas Bedos. Con Daniel Auteuil, Fanny Ardant, Guillaume Canet, Dora Tillier, Maxime Drumont, Denis Podalydes, Pierre Arditi e altri. Francia 2019 💩
Premesso che chi mi conosce sa quanto i francesi mi stiano salvo rare eccezioni sui coglioni, chiariamo che più che di un film si tratta di uno spot pubblicitario della Apple. Anzi, di uno spottone della durata di 110 minuti che, dopo un solo quarto d’ora, fa scattare il bisogno di controllare compulsivamente l’ora, insieme alla tentazione di abbandonare anzitempo la postazione in sala, non fosse per la curiosità di sapere non tanto come va a finire (si capisce alle prime due battute, ossia al primo battibecco tra i due coniugi al centro della storia) ma fin dove può arrivare l’imbecillità dei franzosi. Che, tanto per fare, secondo il loro costume, i fenomeni con strumenti e modi al di fuori della loro portata come se vi avessero il massimo della confidenza (cosa che mi ricorda il tipico bauscisimo milanese, e ancor più brianzolo), utilizzano in questo caso il trucchetto del viaggio spazio/temporale (peraltro un classico del cinema americano che tanto denigrano oltralpe e da cui dicono di volersi distinguere) per imbastire una trama insulsa quanto intricata e cervellotica che racconta, in sostanza, la crisi di una coppia ormai giunta alle soglie della vecchiaia. Lui, Victor (un grande Daniel Auteuil, non ho alcuna difficoltà a riconoscerlo, la cui bravura è sprecata in questa pochade 2.0), è un disegnatore, famoso ai tempi per i suoi fumetti, licenziato dal giornale per cui faceva caricature (e che ormai pubblica solo on line), disincantato e fuori contesto in un ambiente famigliare dominato dalla moglie Marianne (la Ardant), la psicanalista di turno, ma proiettata al futuro, specie tecnologico, in tutte le sue sfaccettature, specialmente le più idiote e alienanti, pur di illudersi di averne uno e di essere ancora giovane e appetibile e che denigra il marito, che considera un noioso residuato del passato, e finisce per buttarlo fuori di casa. Succede però che Antoine, il migliore amico del figlio mammone della coppia (un altro yuppie della situazione), sia titolare dell'agenzia Time Traveller, specializzata nel ricostruire alla perfezione, a richiesta di una clientela danarosa quanto mentalmente turbata, epoche e situazioni del passato avvalendosi di tecnologia, studi di prova, scenografi e una pletora di attori che, in mancanza d'altro, si prestano a queste costosissime farse: siccome si sente in debito di riconoscenza con Victor per un aiuto avuto in passato che gli ha cambiato l'esistenza, gli offre un "giro" gratuito in questa giostra demenziale e, guarda caso Victor, il marito cornuto e mazziato ma uomo sostanzialmente sano in questa accolita di dementi ed egolatri, sceglie un giorno del maggio 1974 a Lione, ossia quello in cui ha casualmente incontrato Marianne in un bistrot chiamato La belle époque. Lì si innamorerà di nuovo, forse, dell'attrice che interpreta la Marianne d'allora, che a sua volta nella realtà è fidanzata, seppure a intermittenza, con Antoine, il boss della Time Traveller... Da lì una commedia di equivoci, battute qualche rara volta felici, per lo più però scontate; qualche spunto sul lavoro dell'attore e sullo squallore dei rapporti umani nell'era dei social, che potrebbe perfino essere interessante se non si perdesse in un mare di chiacchiere, mossette e ammiccamenti da asilo infantile; infine l'inevitabile happy end, a sua volta di marca yankee. Una roba da poaréti, insomma, poco sopra il livello dei nostri pecorecci cinepanettoni, ma ancora più deprecabile perché insopportabilmente pretenziosa. Tipico prodotto francese, che non merita nemmeno le consuete "stelline": devo però ammettere che hanno degli attori fenomenali nell’interpretare personaggi odiosi, a meno di non essere così stronzi al naturale da non dover fare alcuno sforzo per sembrarlo, come, una per tutti, la Deneuve (ma non Auteuil, che è un gigante per davvero: mi spiace per lui che abbia partecipato a questa pagliacciata).

martedì 19 novembre 2019

Le Mans '66 - La grande sfida

"Le Mans '66 - La grande sfida" (Ford vs Ferrari) di James Mangold. Con Christian Bale, Matt Damon, Caitrionsa Balfe, Jon Bernthal, Josh Lucas, Tracy Letts, Remo Girone, Franscesco Bauco, e altri. USA 2019 ★★★★
E così, dopo essermi gustato le meravigliose berline anni Cinquanta sul grande schermo in Motherless Brooklyn senza dover prendere l'aereo per l'Avana per vederle ancora girare dal vivo, ecco i mostri su pista degli epici scontri fra produttori nei ruggenti anni Sessanta: in questo film il racconto di come la Ford ruppe il dominio della Ferrari nelle corse di prototipi (a gomme coperte) facendo tripletta alla 24 Ore di Lemans nell'edizione del 1966. Stanco di  essere sconfitto dalle auto del Drake, alla fin fine il prodotto artigianale di una piccola industria modenese dove tutto veniva fatto a mano, Henry Ford II, ossia l'emblema della catena di montaggio e della produzione in serie, decise di affidare la costruzione di una macchina in grado di sfidarlo a Carroll Shelby (qui Matt Damon), già pilota automobilistico texano e vincitore a Le Mans 1959 su Aston Martin e, in seguito a problemi cardiaci, costruttore di auto sportive, il tutto in dieci mesi: questi accettò, a patto che a occuparsi della progettazione, del collaudo e a condurla in pista fosse l'amico e pilota Ken Miles (il sempre camaleontico e grandissimo Christian Bale), un abilissimo e appassionato tecnico inglese naturalizzato americano dal carattere scorbutico, poco propenso ad accettare ordini, determinato: uno che durante la Seconda Guerra Mondiale comandava carri armati ed era arrivato fino a Berlino. Riuscì a convincerlo, anche perché nel frattempo l'officina di cui Miles era titolare era sull'orlo del fallimento, e di come riuscirono nell'impresa è narrato in questo film. Trattandosi di una pellicola americana, l'ottica è ovviamente manichea e nazionalista, il taglio schematico e la ricostruzione della vicenda piuttosto approssimativa, prendendosi le sue belle licenze, a cominciare da quella della presenza di Enzo Ferrari ai box del circuito francese, ma avendo due grandi meriti: l'aver reso omaggio alla figura di Miles, un pilota dimenticato (peraltro derubato della vittoria a Le Mans per una lettura capziosa del regolamento di gara a opera degli stessi dirigenti della Ford) e un altro "artigiano" senza cui la mitica G-40 non sarebbe mai esistita, e con lui a Shelby, un Enzo Ferrari in piccolo, per i quali la passione era più importante del fatturato, e messo il dito nella piaga della logica di puro marketing che stava dietro a tutta l'operazione voluta da Ford, che non ne esce per niente bene, a cominciare dalla figura del suo sommo capo (fulminante la battuta del Drake che, rispetto al fondatore Henry Ford I, lo riteneva nient'altro che un "numero due"). La pellicola è girata con buon ritmo, le riprese delle corse e i relativi dettagli sono appassionanti e colgono nel segno, all'altezza di quelle viste in Rush, l'atmosfera d'epoca è ricreata in maniera credibile, capace quasi di evocare il tipico odore di officina, un vero elisir per gente come Ken Miles e i suoi epigoni a ogni latitudine, tutt'altra cosa rispetto alle asettiche gare di F1 del giorno d'oggi, gare di durata, con Prototipi o Grat Turismo, vere maratone di resistenza per macchine e piloti come Le Mans o Daytona, erano e rimangono tutt'altra cosa.