domenica 30 dicembre 2018

Capri-Revolution

"Capri-Revolution" di Mario Martone. Con Marianna Fontana, Reinout Scholten van Aschat, Donatella Finocchiaro, Antonio Folletto, Gianluca Di Gennaro, Eduardo Scarpetta II, Jenna Thiam, Luca Girardello. Lola Klamroth, Maximilian Dirr e altri. Italia, Francia 2018 ★★★
Vale per Capri-Revolution, che all'ultima Mostra del Cinema di Venezia ha fatto incetta di premi collaterali, quanto detto a suo tempo per Noi credevamo e Il giovane favoloso, a chiusura di una trilogia, a detta del regista napoletano del tutto casuale, che ha per protagonisti dei giovani in diversi momenti della storia italiana a partire dall'inizio dell'Ottocento e nel momento della loro formazione e presa di coscienza (nel primo caso si trattava di Giacomo Leopardi): un film ben girato, attento ai dettagli, con un'ottima fotografia, dall'evidente e lodevole intento educativo ma ancora una volta lento, a mio parere poco adatto al grande schermo e invece perfetto per una serie televisiva fatta come si deve. In più, questa volta c'è l'aggravante della scarsa attendibilità della figura di Lucia, per quanto splendidamente interpretata dalla giovane Marianna Fontana, una capraia che viene irresistibilmente attratta, mentre porta a pascolare i suoi animali, dagli strani personaggi che sull'Isola di Capri, dove si svolge l'intera vicenda tra l'estate del 1914 e la prima vera del 1915, al momento dell'entrata dell'Italia nella Grande Guerra, avevano costituito una comune sul modello di quella creata da Karl Diefenbach ad Ascona, il quale davvero, una volta fallito il tentativo in Svizzera e andato in bancarotta, si era trasferito a Capri, dove morì però nel 1913. Provenienti dall'Europa del Nord, in preda alle ossessioni misticiste a naturaliste che periodicamente colpiscono tedeschi e anglosassoni, nudisti, pacifisti, vegetariani, ritenevano che solo attraverso l'espressione artistica l'uomo potesse rigenerarsi; a far loro da controcanto, l'arrivo sull'isola di un giovane medico napoletano progressista e di formazione positivista e, come molti intellettuali dell'epoca, interventista dopo lo scoppio del conflitto: in mezzo, appunto, Lucia, una ragazza dallo spirito curioso e indipendente, in conflitto con due fratelli che, dopo la morte del padre, la rinnegano perché si rifiuta di sposarsi con un bottegaio vedovo e benestante e perché infanga l'onore di famiglia frequentando quei personaggi demoniaci. Che avranno pure avuto ragione a opporsi al conflitto e al materialismo mercatista già allora dilagante, ma riescono a diventare odiosi come tutti i fanatici e settari di questo mondo, e Martone, oltre a dipingerli per quello che erano e sono, dei manipolatori di menti deboli e fondamentalmente sprezzanti dell'umanità che affermano di amare e voler redimere, li rende ancora più sgradevoli con lunghe sequenze delle loro insopportabili nenie su melodie orientaloidi e improbabili e danze al chiar di luna: a chi ha la mia età e viveva a Milano, fanno inevitabilmente venire in mente gli Hare Krishna o gli adepti di Re Nudo e dintorni e il Festiva del Parco Lambro 1976. In tutto questo, Lucia nel giro di nemmeno mezzo anno da analfabeta impara a leggere, per di più testi filosofici e, con buona proprietà, anche l'inglese (altrettanto improbabile che lo parlasse fluentemente un giovane medico dell'epoca, considerando che fino agli anni Sessanta nei licei italiani la lingua straniera di gran lunga più studiata era il francese ), mentre è più credibile che, essendo dotata di ottima intelligenza unita all'infallibile intuito femminile, fosse in grado di vedere le contraddizioni dei tre modelli che si trovava davanti: quello tradizionale e patriarcale; quello perso nelle galassie dei visionari snob e quello della fiducia nel progresso inarrestabile, in sostanza tre modi di raccontarsela. Il che ce la renderebbe simpatica, se non fosse che per trovare la libertà e la sua realizzazione finisce per emigrare da sola, trasformatasi in una sorta di protofemminista, negli Stati Uniti. Bella roba. Alla fine l'unico personaggio davvero ammirevole è la povera e silenziosa madre (Donatella Finocchiaro, in un ruolo breve ma intenso) che finisce per rimanere sola ad accudire una casa vuota e le capre, e che però ha sempre saputo che la figlia era speciale. Insomma, non si può dire che sia un brutto film ma certamente non avvincente e nemmeno particolarmente riuscito: il giudizio è positivo per le qualità tecniche e la stima nei confronti di Martone, ma nulla più.

giovedì 27 dicembre 2018

Cold War

"Cold War" (Zimna wojna) di Pawel Pawlikoswski. Con Joanna Kulig, Tomasz Kot, Borys Szyc, Agata Kulesza, Cédric Kahn, Jeanne Balibar. Polonia 2018 ★★★★½
A differenza di chi ha visto in Cold War un film girato su misura per un pubblico e una critica festivalieri e per cinéphiles (ha vinto la Palma d'Oro a Cannes per la miglior regia quest'anno, dopo che Pawlikowski era stato premiato con l'Oscar per Ida nel 2015), io l'ho trovato un film che, per quanto giocato sulla metafora (peraltro perfettamente intellegibile, con un minimo di sforzo e di conoscenza della storia europea recente), racconta in maniera coinvolgente la vicenda di un amore turbolento negli anni che vanno dal 1949 al 1964 attraverso una serie di quadri, che si susseguono in ordine cronologico, ambientati via a Lodz e Varsavia, in Polonia; a Berlino Est, in Jugoslavia; a Parigi e, per chiudere il cerchio, nuovamente in Polonia. Nella Polonia socialista dell'ultimo dopoguerra Wiktor è un valente musicista di formazione borghese che dirige con Irena (Agata Kulesza, già protagonista in Ida) la Scuola di Musica di canto popolare che diventerà il famoso Gruppo Mazowsze, e gira per il Paese (anche culturalmente da ricostruire) a documentare tradizioni popolari e reclutare talenti da formare, e tra questi emerge immediatamente Zula, strepitosamente interpretata da una memorabile Joanna Kulig (la quale anche in Ida aveva una parte non secondaria), che da sola vale il biglietto, una giovane proletaria dal carattere indomabile, sincera fino alla brutalità, in libertà condizionale per aver accoltellato il padre che aveva tentato di violentarla. Lo sguardo e l'espressione che ha quando, guardando in faccia Wiktor, gli dice: "Mi aveva scambiato per mia madre: gli ho fatto provare la differenza" fanno sí che ci si innamori immediatamente di lei, a maggior ragione Wiktor, e il rapporto tra il maestro e mentore e l'allieva si trasforma in una relazione forte quanto clandestina mentre la fama del gruppo cresce, con Zula come elemento di spicco, fino alla trasferta a Berlino Est nei primi anni Cinquanta. E' in questa occasione che Wiktor, che si trova sempre più in disaccordo con la linea troppo propagandistica e politicizzata che viene imposta al gruppo, pianifica la loro fuga a Ovest ma all'ultimo momento Zula (che era pure stata incaricata di spiarne i movimenti) rinuncia, e lui parte da solo (cosa che lei gli rimprovererà anni dopo). Wiktor si stabilirà a Parigi, dove  si esibisce come pianista in un celebre locale jazz, lavora e frequenta l'ambiente bohèmien rimanendo purtuttavia un esule, per quanto di successo finché, dopo essersi incontrati una prima volta in Jugoslavia e poi ritrovati a Parigi durante una tournée dei Mazowsze, Zula rimane con lui e inizieranno una convivenza tempestosa quanto il loro rapporto, anche perché lei non si adatta alla vita e non è in grado (né vuole) comprendere le metafore (Pawlikowski le mette in bocca esplicitamente questo termine) in uso nell'ambiente che frequentano, e finisce per lasciarlo e rientrare in Polonia, dove alla fine tornerà anche lui, perché non può farne a meno (sia di lei, sia del suo Paese: l'amore di una vita in entrambi i casi, difficile quanto inevitabile) in una sorte di espiazione. 85' di emozione pura, girati in un bianco e nero efficace e suggestivo in quel formato 4:3 che esalta la figura intera, colonna sonora perfettamente modulata sulle diverse situazioni (non manca Per 24 mila baci di Celentano sullo sfondo, ancora oggi uno degli standard immancabili in feste e sagre dei paesi ex comunisti), eccellenti gli attori, ma la piccola grande Joanna Kulig una spanna su tutti. 

domenica 23 dicembre 2018

Roma

"Roma" di Alfonso Cuarón. Con Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Nancy García García, Marco Graf, Daniela Demesa, Diego Cortina Autrey, Carlos Peralta, Veronica García, Fernando Grediaga, Jorge Antonio Guerrero, José Manuel Guerrero Mendoza, Latin Lover e altri. Messico, USA 2018 ★★★★★
Prodotto da Netflix e nelle sale per un breve periodo, il film vincitore dell'ultimo Leone d'Oro a Venezia è sicuramente tra i migliori visti quest'anno assieme a The Post, Loro e Manuel, e ho avuto la fortuna di intercettarlo in lingua originale, ossia il castigliano addolcito che si parla nell'America Latina, con cui ho una buona confidenza, a sua volta sottotitolato in spagnolo perché in parte parlato in mixteco, lingua della popolazione india originaria dell'Oaxaca, regione di provenienza del personale di servizio della famiglia di cui vengono raccontate le vicende, che sono quelle autobiografiche dell'autore, a cavallo tra il 1970 e il 1971, e che vive in un palazzo del quartiere residenziale Colonia Roma, da cui il titolo della pellicola. Tra tutti spicca Cleo, interpretata in maniera commovente da Yalitza Aparicio, attrice non professionista, la giovane indigena tuttofare alle cui cure tutti gli abitanti della magione, un padre e una madre, quattro figli e una nonna nonché il cane, si affidano con fiducia per la sua solerzia, docilità, disponibilità infinita, dando per scontata la sua assistenza sia materiale, dal portare a scuola i bambini, a metterli a letto, servire in tavola oppure pulire l'androne dalle deiezioni canine; sia psicologica, perché la famiglia, borghese e di origine spagnola per cui lavora, è in crisi: Antonio, il padre, medico, parte per il Quebec per una conferenza ma non torna perché ha un'amante, e Sofia, la moglie, si industria per nascondere la realtà della separazione ai figli e intanto cerca una soluzione lavorativa per mantenere la famiglia a un livello adeguato. Parallelamente, si sviluppa la vicenda della problematica gravidanza di Cloe, rimasta incinta di un giovane esaltato fanatico di arti marziali che, dice, lo hanno salvato dalla strada, e che ha un esito traumatico. Nonostante questo, la ragazza terrà duro e supererà il momento difficile, che coincide anche con quello in cui Sofia svela ai figli la verità sull'abbono da parte del loro padre e l'inizio di una nuova vita, sulle spiagge di Veracruz dove si sono recati per una provvidenziale vacanze si qualche giorno: un pretesto per consentire ad Antonio di svuotare la casa di Colonia Roma delle sue librerie e di altri suoi oggetti. Dal doppio binario di un dramma borghese e di uno proletario, il tutto sullo sfondo di un periodo storico particolarmente teso per un Paese già movimentato e conflittuale di suo (sono gli anni successivi al massacro di Tlatelolco (la Piazza delle Tre Culture) di cui ricorreva il 2 ottobre scorso il 50° anniversario, esce un affresco di un Messico contraddittorio, straordinariamente complesso ma vivo, le cui componenti, per quanto culturalmente diverse e a tratti inconciliabili, in realtà sono in simbiosi e su piani solo apparentemente diversi; pervicacemente maschilista ma dove sono le donne, sempre vittime e subordinate, a essere indispensabili tenere in piedi non solo la "baracca" ma a rappresentare la speranza di un nuovo inizio: questo vale per Cleo ma anche per Sofia, che riprende in mano la propria esistenza; un Paese al contempo progressista e reazionario, dove gli opposti trovano una sintesi, la cui vita politica non a caso è stata dominata per quasi un secolo da un partito che, per ossimoro, si chiama Partito Rivoluzionario Istituzionale. Tutto questo Cuarón lo racconta con un film a mio parere esemplare, che ricorda le cose migliori del neorealismo italiano del Dopoguerra, in cui oltre a un soggetto perfetto e a uno svolgimento puntuale, una fotografia di rara potenza, resa ancor più efficace da un bianco e nero del tutto funzionale, e una colonna sonora del tutto aderente, contribuiscono a un risultato di altissimo livello.Una pellicola che rimane impressa e commuove, senza mai essere melodrammatica; frutto di ricordi e di una sincera riconoscenza alle donne che sono davvero state indispensabili nella vita del regista: le tate indigene della sua infanzia. Passato alla fama internazionale per Harry Potter e il prigioniero di Azkaban, I figli degli uomini e il pluripremiato Gravity, tutti buoni film che però non mi avevano convinto del tutto, con Roma Cuarón torna al suo Messico come già fece nell'altra sua pellicola che avevo finora apprezzato di più e con cui Roma ha più di un'analogia: il toccante e coinvolgente Y tu mamá también del 2001

venerdì 21 dicembre 2018

Solstizio


Coraggio, ché da questo momento le giornate tornano ad allungarsi...

Lontano da qui

"Lontano da qui" (The Kindergarten Teacher) di Sara Colangelo. Con Maggie Gyllenhaal, Parker Sevak, Gael García Bernal, Anna Baryshnikov, Rosa Salazar, Michael Chernus e altri. USA 2018 ★★★★
Remake dell'omonimo film dello scrittore, sceneggiatore e regista israeliano Navad Lapid, presentato nel 2014 al Festival di Cannes, il secondo lungometraggio dell'italoamericana Sara Colangelo, premiato per la miglior regia all'ultimo Sundance Film Festival, l'equivalente dell'Oscar per il cinema indipendente, è un gioiellino in perfetto equilibrio tra speranza e disillusione, ruolo nella vita e aspirazioni personali che traspaiono dalla storia di una maestra d'asilo quarantenne appassionata di poesia, di cui frequenta un corso a Manhattan, una via di fuga dal lavoro quotidiano e da una famiglia che non la soddisfa più: i figli sono ormai cresciuti e non ne ha più il controllo; il marito non riesce a colmare le sue aspirazioni, la quale scopre, tra i suoi giovanissimi allievi, un talento naturale per la poesia: Jimmy, di cinque anni, di ascendenze indo-pakistane. Appassionata lei stessa della materia, alterna le proprie giornate tra il lavoro e la famiglia a Staten Island e un corso di poesia a Manhattan, e prende particolarmente a cuore il piccolo, che improvvisa liriche sbalorditive quando entra in una specie di trance compositiva prendendo a camminare avanti e indietro, per preservarne e svilupparne le inclinazioni a dispetto dell'ambiente esterno, sia famigliare (la madre vive in Florida; il padre, un imprenditore di successo nella vita notturna, sostanzialmente assente è poco propenso alla sua vena letteraria), sia del mondo odierno dominato dal piattume socialmediatico, sostanziale incomunicabilità e indifferenza che non sanno dare valore alla poesia, figurarsi a riconoscerla. La donna, Lisa Spinelli, una grandiosa Maggie Gyllenhaal, invece sì: dapprima "ruba" le poesie di Jimmy e le recita al suo corso, impressionando il suo insegnante; poi si dedica a promuoverlo e a incoraggiarlo, andando però molto oltre ai suoi compiti professionali, e il suo crescente impegno in tal senso, da missione di vita diventa una vera e propria ossessione che sconfina nel patologico, col paradosso che, per sottrarre il bambino-prodigio al rischio che una realtà mediocre tarpi le ali alla sua ispirazione, a sua volta lo fagociti lei stessa, ma il finale, anche se non cruento, sarà a sorpresa. Una vicenda raccontata in modo armonico, senza mai forzare i toni, quasi sommessamente e però insinuante, che instilla un che di inquietudine e fa riflettere e vedere le cose in modo non scontato, ben scritta e girata e che in ogni caso deve molto alla scelta degli interpreti e in particolare a una prestazione superba della Gyllenhaal. 

mercoledì 19 dicembre 2018

Las Inmortales

Vista sulla foresta del Kobanausser, Alta Austria


“Dicembre”

Ronza la mosca sulla finestra.
Non più.

Buio

lunedì 17 dicembre 2018

Destinatario sconosciuto


"Destinatario sconosciuto" di Katherine Kressman-Taylor. Adattamento e regia di Rosario Tedesco. Con Nicola Bortolotti e Rosario Tedesco e la partecipazione del coro "F. Gaffurio" del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, diretto dal Maestro Edoardo Cazzaniga. Luci di Giuliano Almerighi. Produzione Teatro dell'Elfo. Fino al 23 dicembre al Teatro Elfo/Puccini di Milano.
Stringato quanto coinvolgente, privo di retorica, il testo, tratto dal romanzo epistolare omonimo di Katherine Kressman-Taylor, che aveva stregato alla prima lettura l'autore e regista Rosario Tedesco, qui protagonista assieme al collega Nicola Bortolotti, consiste nello scambio di lettere, a distanza, tra due grandi amici e soci in affari: Max, ebreo tedesco che dirige una galleria d'arte a San Francisco e Martin, tornato a vivere a Monaco, tra il 1933 e l'anno successivo, ossia quello della salita di Hitler alla cancelleria su incarico del presidente Hindenburg e quello del consolidamento del suo potere, e che segna il progressivo franare della loro relazione in seguito alla adesione sempre più convinta del secondo all'ideologia nazista. Sullo sfondo, il segnali sempre più preoccupanti del disfacimento che a sua volta colpisce tutto il sistema di valori, cultura, umanità della nazione tedesca, pronta a seguire nell'abisso l'ideologia del dittatore, che pure non nasce dal nulla, ma dalla profonda crisi economica e politica e dalla miseria scatenate dalle clausole vessatorie stabilite dal Trattato di Versailles in seguito alla sconfitta della Germania nella Grande Guerra: su questo punto il testo è onesto e non omissivo, perché la tragedia non nacque dal nulla e un intero Paese non è impazzito soltanto per motivi endogeni o una sua tara profonda, e dovrebbe far riflettere a sua volta gli epigoni di coloro che furono le principali vittime di allora, ossia lo Stato ebraico con le sue politiche di occupazione e sostanziale apartheid. Un dramma privato, dunque, quello che viene illustrato in modo esemplare dai due protagonisti in un botta-e-risposta sempre più fitto e tagliente e drammatcio, a cui fa da contrappunto musicale un coro, diverso per ogni città in cui l'atto unico viene rappresentato, nel caso di Milano quello delle voci bianche del Conservatorio Giuseppe Verdi, la cui entrata in scena ha suscitato emozioni forti nel pubblico che ha assistito alla rappresentazione, nella Sala Fassbinder del Teatro di Corso Buenos Aires, capace di 200 posti sistemati come gli spalti di due tribune contrapposte di un'arena dalle dimensioni di un campo da tennis. Eseguiti tre brani: uno giocoso di Mozart, come a illustrare la Germania dell'anteguerra; il secondo di Gideon Klein, esempio di musica degenerata e messa al bando dal regime nazista fin dai suoi esordi, e l'ultimo, straniante, di Ilse Weber, ebrea ceca di lingua tedesca, che sembra annunciare i Lager e accompagnare lo sterminio di milioni di innocenti. Essenziale il testo come la sua rappresentazione da parte dei due protagonisti, impeccabile e commovente il coro: vedere un gruppo così folto di giovanissimi dedicarsi con entusiasmo a una passione che non siano smartphone, giochi on line o a praticare onanismo mentale via sòscial è confortante e fa pensare che la realtà non è quella che traspare dai giornali e dalla TV che fanno da vetrina ai vari Twitter, Facebook, Instagram e compagnia bella. Vivamente consigliato. 

sabato 15 dicembre 2018

Il testimone invisibile

"Il testimone invisibile" di Stefano Mordini. Con Riccardo Scamarcio, Miriam Leone, Fabrizio Bentivoglio, Maria Paiato, Sara Cardinaletti e altri. Italia 2018 ★★★★
Rifacimento di Contratiempo, film spagnolo del 2016 e di cui ho sentito pareri entusiastici, non ho termini di paragone perché gira esclusivamente su Netflix e non è uscito nelle sale, ma la versione italiana è un buon noir, ben costruito, pieno di colpi di scena magari improbabili, ma pur sempre possibili, di cui l'ultimo decisamente clamoroso e che lascia soddisfatto il desiderio di esistenza di una qualche forma di giustizia. Adriano Doria, giovane imprenditore milanesoide sulla cresta dell'onda (il volto e le espressioni da impunito di Scamarcio sono perfetti per renderlo a dovere) e padre di famigliola idilliaca, è agli arresti domiciliari perché accusato dell'omicidio della sua amante, Laura, una fotografa di successo (Miriam Leone, bella e brava) trovata cadavere nella loro camera d'albergo e l'unico presente è lui, tramortito: il classico delitto della porta chiusa e, in questo caso, anche della finestra, impossibile da aprire. Come dimostrare che l'assassinio è stato un altro ed evitare di vedere sconvolta tutta la propria esistenza? A questo deve pensare Virginia Ferrara (magnificamente interpretata da Maria Paiato), ingaggiata dall'avvocato di fiducia di Adriano, una celebre penalista che non ha mai perso alcuna causa e questa sarà l'ultima prima del suo ritiro: ha tre ore di tempo, quelle che mancano all'interrogatorio di un misterioso testimone oculare presso il procuratore incaricato dell'indagine, per farsi raccontare come si sono svolti davvero i fatti dall'accusato, prima recalcitrante ma poi costretto a raccontare la verità per filo e per segno (o almeno la "sua" verità) per poter costruire una linea di difesa inattaccabile: perché "la plausibilità sta nei dettagli". Ma la verità dipende anche dai punti di vista ed è lo scopo pure per qualcun altro coinvolto nella vicenda a causa dell'esistenza di un secondo cadavere, di cui la polizia non è al corrente, che appartiene a un giovane che era stato dichiarato disperso in una valle del Trentino (dove gran parte dell'intrigo è ambientata in flash-back). Va da sé che mi rifiuto di svelare altro per non rovinare la visione e le numerose sorprese. Di Mordini avevo visto a suo tempo Acciaio, film di tutt'altro genere tratto dall'omonimo romanzo di Silvia Avallone, e conferma di saperci fare dietro la macchina da presa: non fa molti film, mi auguro che gli si presenti l'occasione più spesso perché è bravo, e questa pellicola mi sento di consigliarla.

mercoledì 12 dicembre 2018

Santiago, Italia

"Santiago, Italia" di e con Nanni Moretti. Italia 2018 ★★★★
Sia per motivi anagrafici (siamo pressoché coetanei) sia per esperienze generazionali e politiche simili anche se non coincidenti (sono sempre stato distante dall'allora PCI come dal marxismo-leninismo militante e gruppettaro) e quindi per "memoria storica" ho sempre apprezzato, capito e spesso condiviso quanto Nanni Moretti ha detto nella sua ormai lunga carriera cinematografica, e ciò vale anche per questo documentario di cui, ha affermato, ha capito a posteriori perché lo aveva girato: quando, finite le riprese, è diventato ministro dell'Interno Matteo Salvini. Di cui, premetto, ho la massima disistima. Ma tracciare dei paralleli tra la situazione cilena che portò alla caduta di Allende e al fallimento del governo di Unidad Popular l'11 settembre del 1973 e quella attuale in Italia e trovare analogie fra la fuga dalla dittatura e l'accoglimento in Italia degli esuli di allora e le epocali vicende migratorie sulle rotte del Mediterraneo e dei Balcani mi sembra un tantino azzardato, eppure è questo il sottofondo del documentario, anche se qualcosa di vero c'è: la sinistra italiana d'allora era capace di uno sguardo internazionale (sempre fino a un certo punto: perché davanti a ciò che accadde tre anni dopo in Argentina il silenzio, in particolare da parte del PCI, fu assordante), i suoi epigoni odierni, abbagliati dalla globalizzazione, ne sono stati inghiottiti al punto che la loro visuale si è ridotta al proprio ombelico e la dimensione temporale a un presente privo di futuro quanto di passato. Passato che invece Moretti fa riemergere attraverso materiale d'archivio e interviste a esuli che hanno trovato rifugio in Italia raccontando le vicende cilene di 45 anni fa in quattro fasi: quella che precedette il golpe, con la vittoria di Unidad Popular alle elezioni del 1970; il colpo di Stato di Pinochet, fomentato dagli USA, colpiti nei loro interessi dalla nazionalizzazione del rame da parte di Allende ma soprattutto timorosi dell'effetto-contagio dell'esperienza cilena non solo nel "cortile di casa", ossia l'America Latina, ma anche in Europa, nei Paesi in cui la sinistra era più forte, Italia e Francia per primi (ricordo che dopo il golpe in Cile prese corpo la teoria del Compromesso Storico di Berlinguer, che aveva sì un suo perché ma contribuì non poco a innescare un virus mortale per la sinistra italiana); la feroce repressione che ne seguì; il ruolo meritorio che svolse l'ambasciata italiana a Santiago, in particolare quello del viceconsole Enrico Calamai, (anche lui tra gli intervistati) che ottenne il trasferimento in Italia di oltre 400 richiedenti asilo, di cui 250 si erano rifugiati nella sede diplomatica e che tre anni dopo, a Buenos Aires, si ripetè in condizioni ancora più tremende e rischiose; infine, a conclusione, una raccolta di impressioni sull'esperienza italiana di quegli esuli. Moretti interviene in prima persona soltanto quando gli intervistati sono in preda a un blocco emotivo, immersi nei loro ricordi o nei loro incubi, e spesso i loro silenzi risultano molto più efficaci ed espliciti delle parole, e lo si vede in video soltanto nell'inquadratura iniziale quando guarda la città dall'alto, e successivamente mentre interloquisce con un ex generale condannato a dieci anni di reclusione che si protesta innocente, dicendogli che non sarebbe stato imparziale nei suo confronti, concessione tutto sommato modesta al proprio ego da parte del caro Nanni. Detto questo, il documentario non può che coinvolgere profondamente chi ha ricordo di quegli anni ormai lontani: un altro mondo ma soprattutto un'altro modo di starvi, con la concreta speranza che le cose potessero cambiare e convinti di potere essere protagonisti di un miglioramento che non riguardasse soltanto sé stessi ma anche il prossimo. Delle frasi del film, quella che più mi è rimasta impressa, a differenza di molti altri che hanno parlato di Santiago, Italia,  è quella di un intervistato che faceva notare che sì, la democrazia è una cosa bella, ma solo finché i risultati fanno comodo a chi detiene il vero potere, affermazione condivisa nella sostanza dall'altro generale sentito da Moretti. E che vale anche qui e oggi. 

sabato 8 dicembre 2018

Tre volti

"Tre volti" di Jafar Panahi. Con Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Marziyeh Razaei, Maedeh  Erteghaei, Narges Delaram e altri. Iran 2018 ★★★★+
Inarrestabile, il grande regista iraniano Jafar Panahi, dopo essersi riconvertito in Taxi Driver, facendo di necessità virtù e trovando il modo di eludere il divieto di girare film in esterni, continua la sua personale Odissea alla ricerca di un modo di raccontare storie e, soprattutto, il suo Paese, questa volta non sulle strade della capitale, come nel delizioso Taxi Teheran, ma in trasferta, sulle brulle montagne dell'Iran Occidentale, nella regione azera da cui lui stesso è originario. Vi si reca assieme all'amica Behnaz Jafari, una delle più brave e famose attrici del Paese, questa volta col pretesto di chiarire in via definitiva il mistero di un video giunto sullo smartphone dell'artista in cui una ragazza, aspirante attrice e studentessa al conservatorio di Teheran, si rivolgeva a lei perché intercedesse con la famiglia, e in particolare il fratello maggiore, perché non ostacolasse la sua aspirazione di diventare a sua volta attrice: nel video, dopo aver visto svanire i tentativi di mettersi in contatto con Jafari, la ragazza, Marziyeh, sembrava aver inscenato un suicidio. Il tutto è ovviamente un pretesto e, con la scusa dell'indagine sulla fine della ragazza, definita unanimemente dalla ruspante popolazione locale una velleitaria "testa vuota", trasforma gli incontri e le conversazioni con l'umanità del posto in un'occasione per creare dei quadretti che illustrano meglio di qualsiasi saggio la contraddittoria realtà di un Paese si cui si sa (e vuol sapere) poco o nulla, in equilibrio instabile tra arcaicità e modernità, dove ci sono più parabole satellitari che medici e infermieri; dove l'emancipazione femminile è una chimera ma le donne appaiono non solo più determinate ma, a ben vedere, più forti degli uomini. Panahi e Jafari trovano anche modo di rendere omaggio a due figure del cinema e dello spettacolo iraniani osteggiate dal regime khomeinista: Behrouz Vossoughi, che da anni vive in California, di cui Panaji scova una vecchia locandina a casa di un anziano di quando fu protagonista in Tangsir girato da Amir Naderi, mentre immagina di ritrovare in quelle contrade sperdute, autoesiliata e ritirata a vita privata in una modesta casa dove dipinge e continua a professare la sua arte ma non in pubblico, Kobra Saeedi, la danzatrice Shahrzad, star degli anni Settanta sparita dalle scene dopo la rivoluzione del 1979. Solidali con Panaji, si continua ad apprezzarlo non solo per solidarietà con la sua battaglia di libertà, per la sua tenacia, la serenità e senso dell'ironia che lo contraddistinguono nonostante l'isolamento e le restrizioni, ma perché la sua bravura di regista e narratore di storie traspaiono anche da  queste pellicole prodotte artigianalmente con i limitatissimi mezzi di cui dispone. 

mercoledì 5 dicembre 2018

Ride

"Ride" di Valerio Mastandera. Con Chiara Martegiani, Arturo Marchetti, Renato Carpentieri, Stefano Dionisi, Milena Vukotic, Lino Musella e altri. Italia 2018 ★★★½
Ero pressoché certo che l'esordio alla regia di Valerio Mastandrea non mi avrebbe deluso e sono felice di aver avuto ragione, per la stima che ho dell'attore e della persona, che mai dice e fa cose banali e che apprezzo per il senso della misura e la discrezione con cui si muove in un ambiente in cui l'esibizionismo è la regola. Passo felpato, ironia, empatia autentica nei confronti dei personaggi di una realtà periferica rispetto alla capitale come Nettuno, in preda ai postumi di un evento traumatico che li ha coinvolti e sconvolti: la morte di un giovane operaio per un incidente sul lavoro, a cui ciascuno dei parenti, amici o semplici conoscenti, reagisce a modo suo, e il regista, giustamente, sottolinea che ha il pieno diritto di farlo, senza adeguarsi a degli schemi prefissati e convenzionali. L'occhio si concentra soprattutto su Carolina, la moglie che, invece di sciogliersi in lacrime, come pur vorrebbe, non ne è capace e, per l'appunto, le scappa perfino da ridere (da qui il titolo del film), specialmente di fronte a episodi involontariamente comici che le accadono durante le visite di condoglianza che riceve nel giorno che precede i funerali, che d'altra parte diventano l'occasione, per il padre pensionato da cui la vittima aveva ricevuto, per così dire, in eredità il posto in fabbrica, e i suoi coetanei ed ex compagni di lotte sindacali, di rispolverare megafoni e bandiere rosse e rinverdire i fasti del passato; per il figlioletto di una decina d'anni, di fare le prove per un'immaginario reportage dell'evento assieme al suo amichetto del cuore, entrambi abbagliati da una futuro come inviati di telegiornali; per il fratello della vittima, diventato un piccolo delinquente in rotta con la famiglia, di vendicarsi del padre che lo considera "morto", rinfacciandogli la responsabilità di aver imposto come modello sé stesso e il suo mito di un lavoro pagato poco e pure a rischio, a cui lui si è ribellato e l'altro no. A Carolina crolla un mondo addosso e deve fare i conti con una vita completamente diversa da quella che sembrava avviata su dei binari sicuri; in più, il suo spaesamento è particolarmente pesante per il fatto che viene da "fuori", da Rimini (come del resto la brava Chiara Martegiani che la interpreta), considerata quantomeno esotica se non straniera dal chiuso e particolare ambiente del litorale romano (e qui è inevitabile sentire il richiamo del rimpianto Caligari), eppure la donna, esile e all'apparenza fragile, ha una lucidità e una forza d'animo esemplari. Mastandrea tocca con delicatezza un tema come il vuoto che produce in chi resta la scomparsa improvvisa di una persona dalla presenza forte, scontata; i meccanismi che l'evento imprevisto innesta mentre la vita, come deve, va avanti, oltre che, va da sé, ma senza enfatizzare, il dramma delle morti bianche; lo fa con attenzione, misura, un tocco di ironia e un velo di tristezza, confezionando una pellicola particolare, inconsueta, priva di enfasi ma coinvolgente. Un bravo a Mastandrea e ai colleghi attori che lo hanno accompagnato in questa avventura. 

lunedì 3 dicembre 2018

A Private War

"A Private War" di Mattew Heineman. Con Rosamund Pike, Jamie Dornan, Tom Hollander, Stanley Tucci, Greg Wise, Nikki Amuka Bird, Alexandra Moen, Corey Johnson e altri. USA 2018 ★★★½
Film biografico sulla celebre giornalista di guerra Marie Colvin, rimasta uccisa assieme al fotografo francese Rémi Ochilik nel febbraio del 2012 durante l'assedio di Homs, in Siria, probabilmente su mandato di Bashir Al Assad, sembra più una produzione inglese che americana: sia perché l'ambientazione, quando non è nelle zone di conflitto, è a Londra, dove ha sede il Sunday Times, giornale per cui lavorava; sia perché è britannica una buona parte del cast; sia perché evita l'eccesso di retorica sul personaggio, che è stata sì una grande reporter, libera, spregiudicata, dedita alla causa di raccontare le vere vittime di ogni evento bellico, ossia i civili e i dimenticati, ma anche una donna dalla personalità complessa, difficile, dai rapporti non facili col prossimo ma ancor meno con sé stessa: la guerra privata del titolo del film, tratto da un articolo di Marie Brenner sull'edizione USA di Vanity Fair, si riferisce proprio a questo, ed è la storia di una vocazione che nasce anche se non soprattutto da una sorta di dipendenza (il suo collega e sodale per anni Paul Conroy ne individuava la causa in uno stress post-traumatico che colpisce soprattutto i militari reduci da situazioni estreme ma anche i reporter più spericolati, che si muovono superando qualsiasi limite di prudenza). Ed è questa una risposta, da un punto di vista medico e psicologico, alla domanda che chiunque si pone sul "chi glielo faccia fare", e che Marie, nella sua vita privata, si è sentita spesso fare dalle persone con sui si relazionava più da vicino, a cui la sua impellenza di raccontare, la sua scelta di vita, il continuo rischiarla ponendo l'asticella del pericolo da superare sempre più in alto risultavano alla fine insopportabili. Ed è in particolare su questo fronte che Marie pagava le conseguenze delle sue scelte professionali, in termini di depressioni ricorrenti e di alcolismo, anche se viveva la sua professione come una missione,  mossa da qualcosa che per lei era una sorta di imperativo morale. Il film ne ripercorre gli ultimi dieci anni di carriera, da quando perde l'occhio sinistro a causa dello scoppio di una granata nel 2001 in Sri Lanka, dove è la prima giornalista a entrare in contatto con le Tigri Tamil (prima era stata già in Kosovo, Cecenia, Afghanistan, aveva intervistato sia Arafat sia Gheddafi) e a raccontare la loro lotta; poi in Iraq, dove scopre centinaia di cadaveri di kuwaitiani eliminati e gettati in fosse comuni; in Libia durante le "primavere arabe", dove è tra gli ultimi a intervistare Gheddafi (per lei una seconda volta) e, infine, l'avventura di Homs, quando racconta la tragica realtà di un ospedale di fortuna nella città martoriata e trasmette da una postazione clandestina da cui non riesce a fuggire per tempo una volta che è stata individuata. Come accennato il regista riesce a trattare la materia in modo non enfatico ed eccessivo, la realtà bellica è resa in modo vivido e coinvolgente dalle immagini, la fotografia è all'altezza e lo sono anche gli interpreti, a cominciare dai tre principali, Rosamund Pike (Marie Colvin), Jamie Dornan (Paul Conroy) e Tom Hollander (il suo caporedattore agli esteri Sean Ryan). 

sabato 1 dicembre 2018

Libertadores a Madrid: l'ossimoro


E così la finale di ritorno della Copa Libertadores, l’equivalente sudamericano della Champions League, tra River Plate e Boca Juniors, le due più blasonate squadre di Buenos Aires e d'Argentina, si giocherà domenica 9 dicembre a Madrid, la capitale del Paese dei Conquistadores, per di più allo stadio Santiago Bernabeu, di proprietà del Real, alla faccia dei repulicanos Simon Bolívar, José di San Martín e dei loro compagni di ventura, che hanno di che rivoltarsi nella tomba...