mercoledì 31 ottobre 2018

La donna dello scrittore

"La donna dello scrittore" (Transit) di Christian Petzold. Con Franz Ragowski, Paula Beer, Godehard Giese, Lilien Batman, Maryam Zaree, Barbara Auer, Matthias Brandt e altri. Germania, Francia 2018 ★★★½
Film non facile, per la sua apparente lentezza e didascalicità (una voce narrante che racconta sensazioni e pensieri dei personaggi e che solo nel finale si rivela essere il barista che raccoglie le confessioni del protagonista) che sono in realtà dovute a un voluto effetto di spaesamento, che l'abile regista tedesco Christian Petzold, già autore dei suggestivi e coinvolgenti La scelta di Barbara e Il segreto del suo volto, ottiene attraverso una trasposizione temporale estremante efficace e significativa, collocando al giorno d'oggi (ambienti, automobili, vestiti) una vicenda storica: il tentativo di fuga di ebrei e dissidenti tedeschi dalla Francia del 1940 mentre Parigi stava per essere occupata dai nazisti, precedendoli verso Sud nella speranza di ottenere visti e biglietti di imbarco per le Americhe prima di venire rastrellati dal regime collaborazionista, consegnati al Reich e rinchiusi nei campi di concentramento. L'effetto di questo sfasamento è una sorta di atemporalità che sottolinea lo straniamento e la particolare condizione di chi è fuggiasco o clandestino e la sua relazione di estraneità con un ambiente circostante che vive nella sua normalità, in una dimensione completamente distaccata pur occupando gli stessi spazi e vivendo lo stesso momento storico ma, per l'appunto, in maniera diversa. La sceneggiatura è tratta dal romanzo in parte autobiografico di Anna Seghers Transito, e racconta delle peripezie di Georg, splendidamente interpretato da Franz Ragowski, un giovane comunista tedesco braccato già a Parigi e che finisce per appropriarsi dell'identità, nonché di un manoscritto e di alcune lettere della moglie di un famoso scrittore tedesco, Weidel, anche lui perseguitato ma che ha preferito suicidarsi in un albergo piuttosto che farsi arrestare. Georg decide così di raggiungere Marsiglia, dove finisce per entrare in contatto proprio con Maria (Paula Beer), la moglie di Weidel che aveva spedito al marito due lettere: una con cui gli annunciava di lasciarlo e l'altra con cui gli chiedeva di raggiungerla nel capoluogo Midi, da dove avrebbero cercato di ottenere un visto per il Messico. La donna è in compagnia di Richard, un medico anch'esso in fuga e in procinto di partire, e finisce per innamorarsi di lei, ricambiato, ma non le svela di aver preso l'identità del marito nemmeno quando riesce a procurare per entrambi visto e biglietto d'imbarco, e comunque le cose non andranno come avrebbero potuto. Ma non è questo il nocciolo del film, che invece esprime magnificamente lo stato di inquietudine, paura, sospensione, possibilità che si aprono e chiudono all'improvviso, incertezza, fragilità ma anche coerenza, umanità e solidarietà di chi si trova in fuga e in preda agli eventi. Petzold torna su un tema a lui caro e affrontato nei due film precedenti: le possibili scelte individuali, anche quelle meno prevedibili, davanti all'incombenza di un regime oppressivo e alle forze che ne sono l'incarnano e l'indifferenza di chi non vi è, almeno al momento, immediatamente coinvolto e non vuol rendersi conto delle conseguenze, anche per sé stesso, della propria cecità e del proprio silenzio; e non si limita a dire che tutto potrebbe ripetersi anche oggi: sta già accadendo, e non mi riferisco banalmente alle migrazioni in atto. 

lunedì 29 ottobre 2018

Tristeza


Come volevasi dimostrare. Magari sarebbe stato il caso che progressisti, democratici e liberaloidi vari si fossero posti per tempo qualche domanda su come e per conto di chi hanno governato, quando erano al potere. Anche se non c'è limite al peggio che, per definizione, deve ancora venire. In Brasile, intanto, si sono portati avanti. Tristeza.

domenica 28 ottobre 2018

Euforia

"Euforia" di Valeria Golino. Con Valerio Mastandrea, Riccardo Scamarcio, Isabella Ferrari, Valentina Cervi, Jasmine Trinca, Marzia Ubaldi e altri. Italia 2018 ★★★★
Ammetto che l'inizio del film, l'ambientazione romana e terrazzata (un attico "a" Via del Corso, come usano a dire nell'Urbe, con vista Altare della Patria a sinistra, sullo sfondo), l'entourage gay, modaiolo e festaiolo che circonda Matteo (Riccardo Scamarcio), giovane imprenditore di successo che realizza installazioni in 3D e bazzica il Vaticano, nonché alcuni passaggi come quello in discoteca o il "trenino" che sembrano d'obbligo in ogni film di produzione nazionale, che si rifacciano o meno alla "commedia all'italiana", stavano innervosendomi, ma nel prosieguo si sono rivelati innocui se non perfino funzionali alla storia che Valeria Golino ha voluto raccontare nel suo secondo film da regista e che come al suo esordio con Miele affronta, pur di sghembo e non mostrandola né parlandone, la morte. Che si insinua nella vita di Matteo attraverso la malattia che colpisce Ettore (Valerio Mastandrea), suo fratello maggiore che ne è caratterialmente l'opposto: un professore di scienze delle medie, riflessivo e prudente quanto lui è intraprendente, smodato e pure vizioso, che vive ancora nella cittadina di provincia da cui provengono. Quando Ettore va a sottoporsi a degli esami nella capitale per degli svenimenti che non si spiegano, è a Matteo, che lo ha indirizzato a un luminare, che viene comunicato che il fratello è affetto da un tumore al cervello, e la sua scelta è quella di minimizzare, fingere che tutto sia normale e, dopo averlo convinto a farsi ospitare da lui mentre procede con esami e terapie, cercare di coinvolgere Ettore, che viene lasciato all'oscuro della gravità del male, nella sua esistenza lussuosa e festaiola per distrarlo ma anche per la sua smania di sentirsi indispensabile, generoso, speciale nei confronti della famiglia d'origine (quasi a farsi perdonare di essere frocio, come gli rinfaccia Ettore quando, per un momento, i due si affronteranno a muso duro). Il film funziona sia perché la la scelta degli attori principali è particolarmente azzeccata, la coppia Mastandrea Scamarcio è affiatata e si integra e completa alla perfezione rendendo credibili i personaggi e il loro complesso rapporto, anche se non soprattutto in senso fisico; sia perché la Golino ha un tocco incredibilmente lieve e poco invadente e riesce a non scadere mai nel patetico e al contempo a trattare in modo ironico alcuni dei luoghi comuni di cui parlavo in apertura: l'idea della protesi ai polpacci che Matteo si fa inserire dal chirurgo estetico è, ad esempio, geniale. Ben disegnati anche i personaggi di contorno e all'altezza i rispettivi interpreti. Come regista, Valeria Golino si conferma capace di amalgamare in un insieme che funziona diversi ingredienti che rendono le sue pellicole mai banali, intelligenti e capaci di affrontare temi scomodi con un tocco leggero e originale; all'altezza e non scontata anche la colonna sonora, e non p un dettaglio da poco in un film italiano. 

venerdì 26 ottobre 2018

Il verdetto

"Il verdetto" (The Children Act) di Richard Eyre. Con Emma Thompson, Stanley Tucci, Fionn Whitehead, Jason Watkins, Anthony Calf, Ben Chaplin e altri. GB 2017 ★★★
Tratto dal romanzo La ballata di Henry Adams di Ian McEvan e interpretato da un cast d'eccellenza il film, che racconta l'incontro tra un'austera giudice dell'Alta Corte Britannica che si occupa di diritto di famiglia e tutela dei minori e un giovane diciassettenne testimone di Geova malato di leucemia che, in accordo coi suoi genitori e la sua comunità, rifiuta di accettare la trasfusione del sangue come parte del trattamento che potrebbe salvargli la vita, incontro che cambia, sconvolgendo le reciproche certezze e difese, l'esistenza a entrambi, correva il forte rischio di cadere dal mélo al melenso se a dirigerlo non fosse stato un mostro sacro come Richard Eyre, noto Oltremanica soprattutto per la sua lunga e meritoria attività teatrale che, quando affronta il grande schermo, sa farlo con perizia e misura. La causa su cui si trova a decidere Fiona Meye (una Emma Thompson grandiosa), una vita dedicata al diritto, convinta fino in fondo della bontà delle proprie idee sia sul lavoro sia nella vita quotidiana, è un caso controverso sul quale ha, in linea di principio, le idee chiare ma decide, irritualmente, di andare a sentire di persona la parte in causa, un minore,  in ospedale, per accertarsi della sincerità delle sue convinzioni. Questo però accade in un momento particolare del matrimonio, col trascurato marito, il dolce e paziente e ancora innamorato Stanley Tucci, che le prova tutte per distoglierla dall'ossessione lavorativa, e l'incontro con Henry Adams finisce per coinvolgere sia lei sia il ragazzo oltre ogni previsione. Essendo minorenne, Henry riceverà contro la sua volontà la trasfusione autorizzata dall'alto magistrato e per un certo periodo migliorerà, cercando successivamente di rinnovare il contatto con la donna che gli ha cambiato la prospettiva con cui guardava all'esistenza, ma dovrà scegliere, questa volta di persona, quando il suo stato di salute tornerà a peggiorare dopo essere diventato maggiorenne, e sarà un momento duro sia per lui sia per l'integerrima e irreprensibile Fiona Meye, che nel frattempo avrà messo in dubbio anche un'altra serie di sue convinzioni. Diversi gli spunti; dal tema etico sulle priorità tra giustizia umana e divina, razionalismo e religiosità, alle diverse solitudini dei due protagonisti, armati delle rispettive sicurezze che vengono incrinate in modo inaspettato proprio dal loro incontro. Il miracolo, in questi casi, è riuscire a non scivolare nel patetico, pur senza togliere nulla alla drammaticità della vicenda, ma trattandola con rispetto ed equilibrio e, perché no, qualche tocco ironico. In questo senso, i film britannici, sempre troppo pochi quelli che transitano sui nostri schermi rispetto a quelli, ad esempio, francesi, per non parlare di tanto ciarpame hollywoodiano, sono una garanzia. 

mercoledì 24 ottobre 2018

Le ereditiere

"Le ereditiere" (Las Herederas) di Marcelo Martinessi. Con Ana Brun, Margarita Irun, Ana Ivanova Villagra, María Martins e altri. Paraguay, Germania, Uruguay, Brasile, Norvegla, Francia 2017 ★★★
Assieme alle Guyane, il Paraguay è il Paese più negletto di tutta l'America Meridionale, non soltanto per la sua storia, a causa del suo isolamento; cinematograficamente parlando, attraverso questo lavoro di Marcelo Martinessi, al suo esordio nel lungometraggio ma già conosciuto come documentarista e pluripremiato autore di corti, si colloca all'altezza delle migliori produzioni argentine, brasiliane e cilene, più conosciute (ma mai abbastanza) in Europa. Film intimista, racconta indirettamente diversi aspetti del suo Paese con rapide pennellate e, prevalentemente, il non detto, attraverso una vicenda personale a sua volta emblematica: quella di due donne della buona società ormai quasi anziane, Chiquita e Chela, che convivono da trent'anni nella dimora avìta della seconda nel centro di Asunción e che, cadute in ristrettezze, sono costrette a venderne mano a mano i beni, a cominciare dal mobilio. L'universo in cui si muovono è pressoché totalmente al femminile, e questo in uno dei Paesi latinoamericani più machisti e autoritari; Chiquita è quella più intraprendente e disinvolta delle due, e quella che si occupa personalmente del contatto con i possibili acquirenti, tanto da finire in prigione a scontare una pena per truffa: è proprio questo a cambiare le prospettive di Chela, magnificamente interpretata da Ana Brun, una donna che fin lì assisteva passivamente, quasi al limite dell'abulia, al progressivo svuotamento della propria abitazione così come al decadimento del proprio corpo e allo svanire di senso di un'esistenza che si trascinava stancamente tra consuetudine e autocommiserazione, e si ritrova costretta a uscire dal guscio in cui si è avvoltolata e a riprendere un minimo di iniziativa, fossa solo il fatto di dare disposizioni alla serva analfabeta e andare a trovare l'amica che l'accudiva quotidianamente nel giorno delle visite; riesuma perfino la vecchia Mercedes ereditata dal padre e si offre di scarrozzare, pur avendo la patente scaduta, alcune anziane signore dell'alta società al club esclusivo dove si ritrovano a giocare a carte e spettegolare, inventandosi una professione da tassista abusiva; lì entra in contatto con la più giovane e affascinante Angie, ed è come se le si risvegliassero i sensi e, con questo, l'attenzione per se stessa: non che rifiorisca, ma l'incontro con una realtà diversa da quella a cui si era abbandonata per decenni le fa tornare sì una voglia di vivere che aveva dimenticato nell'abitudine, ma soprattutto a considerare la propria esistenza sotto occhi diversi e ad accettare sé stessa e i propri desideri. Nulla di eclatante e morboso a scatenare il cambiamento: un percorso che viene evocato con dettagli minimi, espressioni del volto, posture, movimenti, le suggestioni dell'atmosfera circostante, che è pur sempre prevalentemente quella dell'interno di una casa, quella di Chela un tempo signorile e in crescente decadenza, o quella dove si ritrovano le vecchie carampane imbellettate: quando si dice che sono le immagini a parlare, prima e più ancora dei personaggi. Per riuscirci, ci vogliono delle interpreti all'altezza, e quelle scelte da Martinessi lo sono, a cominciare dalla Brun che rende con grande sensibilità il personaggio principale, e una mano leggera quanto precisa e attenta dietro le telecamera, che rende gradevolmente avvolgenti le immagini di una pellicola che altrimenti risulterebbe lenta se non statica. 

lunedì 22 ottobre 2018

Soldado

"Soldado" (Sicario: Day Of The Soldado) di Stefano Sollima. Con Benicio Del Toro, Josh Brolin, Isabela Moner, Jeffrey Donovan, Elijah Rodriguez, Katherine Keener e altri. USA, Italia 2018 ★★★½
Ero certo che Stefano Sollima, alla sua prima esperienza con una produzione americana, non avrebbe deluso: il regista di Suburra e delle serie Romanzo Criminale e Gomorra (entrambe superiori ai film da cui derivavano) si conferma un maestro delle riprese spettacolari e nel tenere alta la tensione, e quindi l'attenzione dello spettatore, pur alternando momenti adrenalinici ad altri in cui prevale la riflessione e l'indagine psicologica dei personaggi, affidata all'espressività di interpreti tutti all'altezza, a cominciare dalla giovanissima quanto bravissima Isabela Moner, nel ruolo della figlia del maggiore narcotrafficante messicano che viene rapita dal Sicario, un ex magistrato colombiano (Benicio Del Toro), ingaggiato da Matt Graver, il disincantato agente che gira in bermuda e infradito anche lui già presente in Sicario di Dennis Villeneuve di cui Soldado è il non pedissequo sequel, al fine di scatenare una guerra tra i cartelli della droga. Siamo sempre nella calda zona di confine tra Messico e USA, e i "cartelli" hanno aggiunto, oltre al consueto traffico di stupefacenti, quello altrettanto lucroso di esseri umani, cosa di cui le autorità statunitensi sono perfettamente al corrente e, nonostante le apparenze e le sparate dei vari Bush e Trump, non intralciano; le cose cambiano quando tra i migranti che oltrepassano clandestinamente la frontiera si infiltra un gruppo di fanatici musulmani che si fanno saltare in un supermercato di Kansas City provocando una carneficina. Nasce così l'operazione segreta, e gestita spregiudicatamente da Graver, che vede la luce in Medio Oriente, per capire chi abbia infiltrato i terroristi e si sposta poi in Messico, dove il Sicario, ingaggiato anche lui per l'occasione, uccide un avvocato legato al cartello dei Matamoros mentre al contempo una squadra di mercenari sotto copertura assoldata da Graves inscena il finto rapimento della ragazzina, allo scopo di far scannare tra loro i narcos: un modo per gestire una situazione, quella del traffico di umani, dove tutte le parti in causa traggono vantaggi, ma contemporaneamente con lo scopo di bloccare l'ingresso di altri attentatori suicidi. Che però risultano alla fine essere cittadini americani, ma questo si viene a sapere dopo che la ragazzina, già portata segretamente in territorio USA e custodita in una base militare, e poi riportata in Messico, sfugge a un feroce scontro a fuoco tra la squadra che la riporta nel suo Paese e alcune pattuglie della Federal corrotta dai narcos, che lascia sul terreno un buon numero di cadaveri messicani. Per evitare incidenti diplomatici Washington si sgancia dall'operazione e ordina a Graver di mollare al proprio destino il Sicario, che va a recuperare la ragazzina... Trattandosi di un thriller non svelo altro ma, se nel complesso il film è ben fatto, interpretato e teso quanto serve, il risultato risulta leggermente inferiore a quello del prequel per alcuna vistose incongruenze, risultato di evidenti buchi nella sceneggiatura di Taylor Sheridan che, sebbene nel complesso valida e lucida nel denunciare il cinismo arrogante e menefreghista dell'amministrazione USA, contiene alcune incongruenze, fili della trama che si dissolvono nel vuoto, e che rendono la storia poco credibile. Comunque Sollima raggiunge lo scopo di inchiodare lo spettatore alla poltrona e confeziona una pellicola spettacolare che merita il prezzo del biglietto. 

sabato 20 ottobre 2018

L'apparizione

"L'apparizione" (L'apparition) di Xavier Giannoli. Con Vincent Lindon, Galatéa Bellugi, Patrick d'Assumção, Anatole Taubman, Elina Löwenson e altri. Francia 2018. ★★+
Mission Impossible: filotto fallito. Dei tre film francesi che, in mancanza di meglio, ho visto di fila nell'ultima settimana cinematografica, quello da cui mi aspettavo di più si è rivelato, puntualmente, il più deludente: forse perché, affrontando un tema inconsueto quanto stimolante come il "mistero della fede" ci ha messo dentro troppa roba, dalla filosofia ai simboli, alle analogie, ai riferimenti più o meno comprensibili, alle citazioni, appesantendo oltremodo il racconto, disperdendosi e terminando con un pasticcio incomprensibile. Forse voluto, perché il mistero della fede è tale proprio perché senza spiegazione razionale, ma è chiedere troppo allo spettatore di un film non fargli capire il motivo per cui la protagonista abbia deciso di elaborare un'impostura tanto da finire per crederci e viverla così intensamente da morirne. Anna è una giovane orfana cresciuta in case-famiglia e divenuta novizia, che afferma di aver visto in più occasioni la Madonna nelle vicinanze di un villaggio dell'Alta Savoia, e viene creduta sia parroco del paese, suo confessore, sia da una massa sempre crescente di pellegrini che hanno causato la trasformazione di tutta la comunità in una Disneyland della creduloneria, con il relativo colossale giro di interessi che ben si conosce tra Medjugorje, Lourdes, Fatima, Loreto e Santuario di Padre Pio; chi ha dei seri dubbi sono gli alti papaveri del Vaticano, che vivono nel terrore di venire ridicolizzati da agnostici, atei e razionalisti, e incaricano un professionista dell'informazione, Jacques Mayano, reporter di guerra apprezzato per la sua obiettività, peraltro reduce dal lutto per l'assassinio del fotografo, suo amico e più stretto collaboratore, il quale accetta di far parte della commissione di inchiesta per appurare la veridicità delle affermazioni di Anna e scoprire l'eventuale manipolazione. Compito che il giornalista svolge coscienziosamente, incuriosito dai meccanismi di un mondo come quello religioso che gli è completamente estraneo. Nulla da dire sulla bravura degli interpreti, che rendono credibili tutti i personaggi e non soltanto i due principali, ed è apprezzabile l'atteggiamento del regista che non si mette in posizione di giudicare, così come Mayano si rende conto dell'impossibilità di giungere alla verità ottenendo tutte le risposte del caso; ma non sono stato in grado di capire cosa spingesse Angela e immolarsi in nome dell'amicizia con la misteriosa Meriem, sua compagna di orfanaggio coinvolta in un misterioso omicidio e con cui è rimasta in contatto epistolare dopo la sua sparizione, cosa che Anna fa sapere a Mayano, e che quest'ultimo rintraccia da qualche parte in Medio Oriente madre di un bimbo e al contempo attiva in una ONG. O meglio, siccome mi ritengo ancora in grado di intendere, probabilmente non lo è il regista di spiegarsi e di rendere plausibile l'introduzione di quest'ultima variante, e più che di un buco nella sceneggiatura credo si tratti di confusione mentale dopo aver messo troppa carne al fuoco e avere ecceduto nell'onanismo mentale. Il risultato è un pippone che, nonostante le buone intenzioni e un tema valido, risulta sconclusionato, zeppo di divagazioni che non c'entrano col tema e alquanto velleitario. 

giovedì 18 ottobre 2018

Il complicato mondo di Nathalie

"Il complicato mondo di Nathalie" (Jalouse) di David e Stéphane Foenkinos. Con Karin Viard, Dara Tombroff, Anne Dorval, Thibault de Montalembert, Bruno Todeschini, Anaïs Demoustier, Corentin Fila e altri. Francia 2017 ★★★½
Mentre in Italia la situazione nel campo della commedia intelligente langue, ecco un altro  esempio di quanto sia al contrario frizzante lo stato di quella francese, o almeno di quella recente che transita sui nostri schermi: qui i fratelli Foenkinos sono alle prese con un sentimento, la gelosia, e gli effetti devastanti che può provocare nel modo di essere e nella psiche di una persona dalla vita del tutto normale ed equilibrata quando sorge, in maniera inconscia e incontrollabile, non a causa della condotta scatenante di una persona, ma da un mutamento, del tutto naturale in una donna, ma che io sappia pressoché inesplorato al cinema, del proprio equilibrio ormonale nella fase di passaggio alla menopausa, ché è questo sostanzialmente il tema del film, al di là della solita demenziale traduzione del titolo originale che suona, semplicemente, Gelosa. Ossia quello che diventa la piacente cinquantenne Nathalie Pêcheux, divorziata, benvoluta insegnante di letteratura in un prestigioso liceo parigino, nei confronti della figlia: causa scatenante, il 18° compleanno della deliziosa e delicata Mathilde, giovane promessa della danza classica a cui, in un susseguirsi ingovernabile di gaffe e comportamenti inaccettabili, finisce per rovinare la carriera, dopo aver messo in crisi amicizie di una vita, la stima di cui gode sul lavoro per l'arrivo di una collega più giovane da cui si sente minacciata senza alcun vero motivo, una possibile nuova relazione con un uomo tranquillo e riflessivo che è innamorato di lei e il rapporto fin lì sereno con l'ex marito e la sua nuova compagna, e questo benché il suo medico la rassicuri che tutto rientra nella normalità, compreso il suo senso di spaesamento, e si chiama, per l'appunto, transizione alla menopausa. Dopo aver rischiato di cadere nel tunnel dell'alcol, ricomincerà a trovare un nuovo equilibrio grazie alle quotidiane sessioni di nuoto in piscina ma soprattutto la frequentazione di una donna anziana, dolce quanto saggia, che tutto ha visto e vissuto e che riesce a tranquillizzarla con la sua semplicità e le sue parole affettuose e comprensive. Tutto finisce bene, come nelle previsioni, ma la vicenda è ben raccontata nei suo snodi, con un susseguirsi di situazioni divertenti e paradossali e, pur sorridendo, ci si riesce a immedesimare nella miseria morale in cui la pur incolpevole Nathalie precipita, anche e soprattutto grazie alla magistrale interpretazione della bravissima Karin Vard, peraltro attorniata da ottimi comprimari, che riesce a rendere la protagonista viva, empatica e comprensibile nonostante tutte le contraddizioni di un personaggio che in molti passaggi risulta umanamente insopportabile. 

martedì 16 ottobre 2018

Quasi nemici - L'importante è avere ragione

"Quasi nemici - L'importante è avere ragione" (Le brio) di Yvan Attal. Con Daniel Auteuil, Camélia Jordana, Yasin Houicha, Nozha Khouadra, Yvonne Gradelet, Nicolas Vaude. Francia 2017 ★★★+
Non sono un grande estimatore delle commedie francesi, e mi irritano la tendenza alla logorrea, al parlarsi addosso nonché l'indulgenza al luogo comune dei nostri cugini d'oltralpe, ma qualche volta ammetto che riescono a essere brillanti, come in questo caso in cui al centro del film c'è proprio l'importanza della parola. In realtà il film è francese soltanto in parte: il regista è israeliano; la protagonista femminile e buona parte delle figure di contorno sono d'origini maghrebine; lo stesso Auteuil, a mio parere un mostro sacro e comunque di per sé una garanzia, un pied noir nato in Algeria; ma l'ambientazione è parigina, tra la facoltà di diritto dell'Università Paris-2 dove insegna Pierre Mazard (Auteuil, impeccabile), e la benlieue dove torna, dopo averne frequentato i corsi, Neïla Salah (Camélia Jordana: brava), mentre le problematiche, che vanno dall'integrazione al politicamente corretto e ai suoi paradossisono attuali e comuni a tutta l'Europa. Ma al centro c'è la parola, o meglio il suo uso non solo appropriato ma contundente: un'arma, attraverso l'arte della retorica, per avere, come dice il sottotitolo, ragione, al di là di ciò che è vero oppure falso. Il primo incontro tra i due è esplosivo: il professore prende di mira la giovane matricola perché arriva con qualche minuto di ritardo, oltre  che vestita inadeguatamente, alla prima lezione in un'aula già affollata, con una serie di battute fulminanti che confermano sia negli studenti sia tra i colleghi la sua fama di razzista, misogino e reazionario, per cui il preside di facoltà vede come unica via d'uscita il fatto che  Mazard, per non rischiare provvedimenti disciplinari o perfino il posto, faccia da tutor proprio a Neïla per prepararla a una prestigioso certame di retorica per studenti che un membro della facoltà non vince da tempo immemorabile. E così inizia la frequentazione tra i due che, come da copione, non potrebbero essere più diversi (almeno a un primo sguardo, mentre per altri in definitiva si assomigliano), in uno scoppiettante scambio di battute ed esperienze, e il testo che il burbero docente prenderà come riferimento è il celebre opuscolo L'arte di avere ragione di Arthur Schopenhauer, oltre a una gamma di citazioni che vannno da Aristotele a Cicerone ad altri grandi maestri. Ognuno impara qualcosa dall'altro, specialmente l'allieva; anche, se non soprattutto, quando scoprirà che il tutoraggio da parte del professore non era per nulla disinteressato, ma saprà ricompensarlo, dandogli peraltro una lezione di dialettica memorabile. Alla fine ciò che avrà imparato dall'urtante maestro, compreso l'insegnamento che l'abito fa il monaco, eccome, le sarà utile quando salirà i gradini dell'avvocatura come anche nella sua vita personale. Film scoppiettante e piacevole, ha confermato una verità che ho imparato dall'esperienza: i migliori insegnanti sono quelli capaci di stimolare delle reazioni, anche a costo di sfidarti e di costringerti a metterti in gioco perché lo stesso fanno anche loro; sinceri, duri e magari scontrosi ma alla fine giusti e corretti, e non quelli "piacioni", sempre indulgenti, in cerca di approvazione e, alla fine, pavidi, conformisti e tanto noiosi.

domenica 14 ottobre 2018

Scurdammoce 'o passato


Se è giusto che le colpe dei padri non debbano ricadere sui figli, lo è altrettanto il contrario. Trovo però curioso, ma comprensibile, che la quasi totalità dei mezzi d'informazione nostrani, abituati come sono a rimuovere, oltre alle notizie scomode, il passato, specie quello sgradevole, come se la storia non insegnasse nulla, si siano ben guardati dal decantare le evidenti origini italiche di Jair Bolsonaro, l'inquietante personaggio che magnifica le gesta della ventennale dittatura militare brasiliana (1964/84), il quale ha ottenuto il 46% dei voti al primo turno delle elezioni presidenziali di quel Paese domenica scorsa, e che lo vedono favorito al 2° turno previsto tra due settimane. Dopo Trump negli USA, un altro reazionario squilibrato ha forti probabilità di salire al vertice del secondo Paese più popoloso dell'emisfero occidentale. Stessa cosa era accaduta con la compagine di criminali quali Agosti, Viola, Bignone, Galtieri e Massera (l'ideatore della caccia all'uomo conclusasi con la desaparición di 30 mila oppositori o presunti tali, così legato all'Italia da essere, oltre che intimo di Pio Laghi, ai tempi nunzio apostolico a Buenos Aires, titolare della tessera n° 478 della P2 di Licio Gelli e "di casa" a Roma) che, assieme a Rafael Videla, oppresse l'Argentina tra il 1976 e il 1983; oppure con Ricardo Alberto Martinelli, altro bel figuro che fu presidente di Panama tra il 2009 e il 2014. Invece, quando si tratta di Robert De Niro o di Madonna Louise Veronica Ciccone; Francis Ford Coppola anziché Toquinho; Giovanni di Lorenzo o Frank Sinatra, fino ad Alfredo Di Stefano, Schiaffino e, giù giù, a Maurito Icardi, un coro unanime a decantarne le radici nella terra dello Stivale. Tutti a lanciare allarmi, specie i media legati in qualche modo all'asinistra nostrana, sulla deriva fassista e rassista dell'attuale governo e a tacciare di populisimo plebeo i suoi elettori, dimenticandosi che il fascismo storico venne alla luce proprio nel nostro Paese, e precisamente a Milano quasi esattamente un secolo fa, nel 1919. Città democraticissima, illuminata e, secondo un luogo comune, così progressista oltre che industriosa e culturalmente all'avanguardia, da aver prodotto, oltre al movimento inventato da Benito Mussolini, originale e duraturo contributo del genio italico alla dottrina politica mondiale, anche un altro ventennio, quello berlusconiano, e dato i natali, fra gli altri, a Matteo Salvini, attuale ministro dell'Interno nonché vicepremier, compulsivo frequentatore di sòscial, di cui ogni minima flatulenza viene diffusa con solerzia e dovizia di particolari tali da assicurargli di rimanere costantemente al centro dell'attenzione come nessun ufficio stampa personale potrebbe garantirgli meglio, il tutto gratuitamente; uno che più che fascista sarebbe più corretto definire un emerito pirla, quale già aveva dimostrato di essere nella sua lunga carriera da stakanovista dell'assenteismo come consigliere comunale ed europarlamentare. A prescindere dalla paternità tutta italiana del fascismo, storico o in versione 2.0, qualche domandina da parte di chi (in)forma la pubblica opinione me la farei, se il risultato è ritrovarci i suoi epigoni, come i media sedicenti democratici in primis li definiscono, sulla via di prendere le redini del potere, democraticamente eletti, più o meno su scala globale, specie dove hanno fatto danni irreparabili i governi dei loro predecessori "progressisti"...

venerdì 12 ottobre 2018

A Star Is Born

"A Star Is Born" di Bradley Cooper. Con Brladley Cooper, Lady GaGa, Sam Elliot, Andrew Dice Clay, Anthony Ramos e altri. USA 2018 ★★★★
Quarta edizione de E' nata una stella (le precedenti nel 1937, 1954, 1976) uno dei più celebri melodrammi hollywoodiani, a sua volta rivisitazione del mito di Pigmalione, per quanto visto, rivisto, risaputo e non esattamente il genere che amo ha dalla sua alcuni indubbi meriti, che lo fanno tra i più probabili candidati a raccogliere premi tra Golden Globe e statuette Oscar, e un asso nella manica: Stefani Joanna Angelina Germanotta, più nota come Lady GaGa. In tutta sincerità, nemmeno sapevo che fosse lei la protagonista femminile, e non l'avevo ovviamente riconosciuta in versione acqua e sapone, al naturale, che peraltro la rende molto dolce e graziosa, pressoché all'opposto di come spesso si presenta, provocatoriamente, in pubblico; quando l'ho vista inquadrata in primo piano e ricevuto la netta sensazione che cantasse senza playback, sensazione confermata dai passaggi della telecamera sulle sue mani e come le muoveva sulla tastiera del pianoforte, mi sono detto "questa è una coi controcoglioni, altro che Madonna e altre sciacquette"... E infatti. Dalla prima esibizione, en travesti, quale emula de Edith Piaf in una strepitosa interpretazione di La vie en rose in un locale di Drag Queen dove per caso entra, a cercare conforto alcolico dopo un concerto in uno stadio stracolmo la rockstar Jackson Maine, che individua all'istante lo straordinario talento di Ally, aspirante cantante e autrice ma cameriera a tempo pieno in un ristorante, ai duetti con lui quando Jack la convince a raggiungerlo sul palco, alla fulminea carriera come solista fino alla vittoria nei Grammy Awards nella categoria esordienti, è lei a calamitare l'attenzione, benché il buon Bradley Cooper faccia la sua parte in una delle sue interpretazioni più sentite e convincenti e la coppia si rivela del tutto affiatata, del resto la colonna sonora l'hanno scritta e cantata insieme (tra i collaboratori, Mark Ronson, mica bruscoli), e credibile anche come marito e moglie nel film in un ambiente, che viene scandagliato con precisione, come quello del rock più tradizionale e quello pop, ambito in cui l'odioso e cinico manager che ne forgia l'immagine intende indirizzare la nascente Star al femminile, facendone una specie di Shakira: e questo è un altro punto a favore del film, che rende plausibile e verosimile anche il rapporto di amore profondo, nonostante i problemi di alcol e stupefacenti di Jackson, tra i due musicisti, per i quali una diventa l'ispirazione dell'altro e viceversa. Per il resto, il remake attinge un po' da tutte le sceneggiature dei suoi predecessori, con un surplus di sentimentalismo perché è Jackson che si sacrifica per non intralciare la carriera di Ally, che pure lo ricorderà e omaggerà per sempre. Convinto che ogni film vada giudicato nel proprio ambito, e che rimane comunque una forma di intrattenimento e come tale considerato più o meno gradevole, pur trattandosi di un polpettone lo trovo incomparabilmente migliore di Opera senza autore, per rimanere nel genere.

martedì 9 ottobre 2018

Opera senza autore

"Opera senza autore" (Werk ohne Author) di Florian Henckel von Donnersmarck. Con Tom Schilling, Sebastian Koch, Paula Beer, Saskia Rosendahl, Oliver Masucci, Rainer Bock, Lars Eidinger e altri. Germania 2018 ★★½
E' imbarazzante dare un giudizio sul monumentale polpettone (oltre tre ore di durata) candidato dalla Germania agli Oscar come migliore film straniero: da un punto di vista cinematografico manca l'oggetto del contendere, perché non è un film; da quello televisivo raggiunge la sufficienza se lo si considera alla stregua di uno sceneggiato, di cui ha tempi, formato e cast e una sceneggiatura alquanto approssimativa. Siamo sul genere Berlin Alexanderplatz, Heimat, il recente Babylon Berlin; un film a cui va vicino è Le vite degli altri, ma non è alla sua altezza. Anche se il nome del protagonista è Kurt Barnert, la storia si ispira palesemente alla vita dell'artista tedesco Gerhard Richter, nato a Dresda nel 1932 in una famiglia della media borghesia, talentuoso fin da piccolo quando veniva educato alla sensibilità artistica e alla "bellezza del vero" dalla giovane zia Elisabeth, ricoverata con una diagnosi di schizofrenia in un ospedale psichiatrico per le sue "stranezze" e sterilizzata prima, e avviata alla soppressione poi dall'eminente ginecologo Karl Seeband, teorico dell'eugenetica nazista, lo stesso che ritroverà come padre della dolce e amata Elli prima a Dresda, dove è stato riabilitato ed è divenuto un personaggio eminente nella nuova Repubblica Popolare grazie alla copertura da parte di un maggiore del KGB del cui primogenito aveva consentito la sopravvivenza dopo un parto difficile; poi di nuovo nei primi anni Sessanta a Düsseldorf, dove Seebald era riparato dopo che il suo protettore era stato richiamato a Mosca. Il racconto segue un ordine strettamente cronologico: l'infanzia di Kurt, il trasferimento della famiglia in un paesino fuori Dresda; il tragico bombardamento che la rase al suolo all'inizio del 1945; il "gasamento" di Elisabeth; il primo dopoguerra; gli studi alla scuola d'arte; questa volta ispirata al realismo socialista, dove qualsiasi deviazione veniva considerata un'espressione tipica dell'individualismo borghese, altrettanto vituperata quanto l'arte degenerata da parte dei nazisti; la decisione, quando già aveva acquisito una sicura fama, di trasferirsi a Ovest nel 1961, pochi mesi prima che venisse eretto il Muro; la scelta di iscriversi all'Accademia delle belle arti di Düsseldorf, la meno convenzionale tra quelle esistenti nella BRD, diretta ai tempi da Joseph Beuys (forse la figura riuscita meglio), che nel film viene chiamato Van Verten (Oliver Masucci). Lì, dopo alcuni tentativi di adeguarsi allo spirito dell'epoca, tra Pop Art, Concettuale e Body Art, torna, in maniera originale, all'amata pittura, da cui era partito, ispirandosi a foto di vecchi album e perfino a fototessere. Anche se qui e là non rinuncia a qualche massima e a un accenno grossolano alle contese in campo artistico, il film ci risparmia il pippone ideologico e si accontenta di rimanere nel campo del feuilleton, a parte l'inevitabile riflessione sull'acquiescenza al nazismo e al conformismo di segno opposto nella DDR, e la rappresentazione della figura dell'epigono di Mengele nel suo adeguarsi alle situazioni senza cambiare di una virgola; in definitiva si fa guardare e, come spettacolo, ha un suo perché e incredibilmente non risulta noioso, benché certi passaggi siano incongrui, le ricostruzioni degli esterni ridicole (quanto invece accurate quelle degli interni) e la storia molto romanzata. Ma si va al cinema anche per rilassarsi e divertirsi: e così alla fine il giudizio non può essere del tutto negativo. 

venerdì 5 ottobre 2018

The Wife - Vivere nell'ombra

"The Wife - Vivere nell'ombra" (The Wife) di Björn Runge. Con Glenn Close, Jonathan Pryce, Christian Slater, Max Irons, Harry Lloyd, Annie Starke, e altri. USA, Svezia, GB 2017 ★★½
Tra gli ultimi quattro film visti, è il secondo che parla di gostwriter (il "negro" in gergo editoriale nostrano, ormai desueto perché politicamente scorretto), figura che sta vivendo il suo momento di gloria cinematografica covando le sue vendette (è anche il secondo con protagonista l'ottimo Jonathan Pryce; sempre nell'ultimo poker di film doppietta anche per Adam Driver); il terzo che ha a che vedere con la scrittura, e il quarto che tratta, in sostanza, di scambio di ruoli e del "doppio": d'accordo che si tratta di tematiche ricorrenti sia nel cinema sia nel teatro (e questo in particolare è un film teatrale, che vede duettare due attori di altissimo livello, uno dei due però doppiato in maniera discutibile, eccessiva, invadente: ho scoperto che si trattava di Gabriele Lavia, e allora tutto è risultato chiaro), ma è curiosa la coincidenza nelle uscite in sala. Alla fine, con Blakkklansman, è quello che mi ha convinto di meno, anche se non si può dire che sia inguardabile: sarà che sono troppo "americani", per quanto colti e raffinati, e dunque schematici e scontati e al contempo comunque improbabili. Non che manchino i colpi a sorpresa in queste "scene da un matrimonio" di un'anziana coppia che vive nel Connecticut e da Stoccolma riceve la notizia che lui, Joe Castleman, ebreo newyorkese (ma guarda un po'), ex professore, scrittore di successo, scapestrato e sempre perdonato, infantile, pieno di se e nevrotico, amorevolmente accudito dalla seconda moglie Joan, una sua ex studentessa che ha sedotto con la parlantina, ha vinto il Nobel per la letteratura del 1992. Durante il viaggio e il soggiorno in Svezia, che compiono col figlio David, aspirante scrittore a sua volta, sostanzialmente ignorato dal padre da cui vorrebbe approvazione e consigli, scatta qualcosa nella mente di Joan, anche a causa dell'incontro con un altro scrittore, studioso di Castleman, che ha avuto l'incarico di scrivere una biografia di Joe, e di ciò che questi le fa ricordare per cui, mentre fervono i preparativi per la consegna del premio, con tutto il ridicolo cerimoniale e le stranezze dei rituali e della buroacrazia scandinava, ripercorre nella memoria le tappe della loro vita in comune che si regge su un patto segreto e tutto sommato di reciproca soddisfazione, perché nonostante tutto si amano e hanno bisogno l'uno dell'altra. Non sto facendo spoiler, perché avrete già capito, come ho capito io dopo circa trenta secondi, che in realtà è Joan a scrivere i romanzi di Joe, perché è lei che possiede il talento di dar vita ai personaggi delle storie che lui inventa, riversandovi fin nei dettagli episodi della sua stessa vita matrimoniale (almeno dal suo punto di vista, che il marito ignora) rendendoli così credibili, mentre lui rimane l'istrione autocompiaciuto che ama giogioneggiare in pubblico. L'equilibrio di coppia, nonostante la "presa di coscienza" di lei  che "sclera" proprio durante il pranzo di gala fuggendo in albergo dove avviene la scena madre (anzi: due) e lo svelamento di quel che già sapevamo, è destinato a durare comunque, nonostante tutto, vita natural durante e anche oltre. A parte le prove dei due protagonisti, francamente poco altro. 

martedì 2 ottobre 2018

L'uomo che uccise Don Chisciotte

"L'uomo che uccise Don Chisciotte" (The Man Who Killed Don Quijote) di Terry Gilliam. Con Adam Driver, Jonathan Pryce, Joana Ribeiro, Olga Kurylenko, Stellan Skarsgad, Jordi Mollá e altri. GB, Spagna 2018 ★★★★½
Terry Gilliam, l'unico membro americano dei mitici Monty Python ce l'ha fatta: dopo 20 anni di tentativi miseramente falliti (il primo dei quali documentato in Lost in La Mancha, uscito nel 2001), un record nella storia del cinema, per un motivo o per l'altro, a cominciare dai rapporti sempre conflittuali con i produttori, il suo film ispirato alle avventure dell'eroe di Cervantes ha visto finalmente la luce e il risultato, come ci si poteva aspettare da un geniaccio come lui, è una fantasmagoria surreale che opera su diversi livelli. Tobi Grisoni (Adam Driver), un talentuoso regista brillante quanto cialtrone, che si trova su un set in Spagna a girare degli spot pubblicitari con un soggetto ispirato a Don Chisciotte, si imbatte in un misterioso gitano che vende DVD piratati, tra i quali scova una copia di una sua opera giovanile di vent'anni prima, appena uscito dalla scuola di cinema, sullo stesso tema, e girata in un villaggio che si trova lì vicino, nel cuore della Mancha, che aveva per interpreti i suoi abitanti a cui aveva prospettato un radioso futuro nello sfavillante mondo dello spettacolo. Toby decide di andare sulle loro tracce per verificare cosa ne è stato delle loro vite e l'accoglienza non è esattamente delle migliori, ma finisce per imbattersi sia in Angelica, la ragazza che aveva interpretato Dulcinea e che ai tempi aveva sedotto, sia il vecchio ciabattino del paese, un grandioso Jonathan Pryce che, completamente impazzito, si è talmente immedesimato nel ruolo affidatogli allora, da essere convinto di essere lui stesso Don Chisciotte fino a riconoscere in Tobi il suo fedele scudiero Sancho Panza e riprenderlo con sé per una nuova serie di deliranti avventure che riportano la strana coppia sul set che Tobi aveva momentaneamente abbandonato e li trova coinvolti in una serie di spettacolari spot per una vodka prodotta da un magnate russo in odor di mafia. Il risultato è un gustosissima sorta di Hellzapoppin' che conferma una vena tra il visionario e il demenziale colto che mi ha ricordato due capolavori del passato come Brian di Nazareth e Brazil, entrambi opera del grande Terry Gilliam, il cui ritorno fa felice i buongustai del genere. Superfluo dire che il regista ha ancora una volta avuto una mano infallibile nello scegliere gli interpreti, stralunati quanto lui che, immedesimandosi a sua volta in Don Chisciotte, dice a modo suo quel che pensa del mondo del cinema e di ciò che gli gira attorno. Immancabile per gli intenditori.